Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e rivoluzione
di Riccardo Bellofiore*
Nous
ne pouvons plus maintenant avoir aveuglément confiance, come Rosa, dans
la spontanéité de la classe ouvrière, et les organisations se sont
écroulées. Mais Rosa ne puisait pas sa joie et son pieux amour à l’égard
de la vie et du monde dans ses espérances trompeuses, elle les puisait
dans sa force d’âme et d’esprit. C’est pourquoi à présent encore chaucun
peut suivre son exemple (Simone Weil).
Introduzione.
Sono passati ormai quasi cent’anni da quando, nel gennaio del 1919,
Rosa Luxemburg venne assassinata. L’immagine che di lei hanno avuto ed
hanno i suoi avversari, di ieri e di oggi, è semplice abbastanza da
poter essere sintetizzata in un’espressione efficace come “Rosa la
sanguinaria”. Ma anche le immagini che di lei hanno dominato e dominano
tra chi dovrebbe averne più a cuore la memoria – penso ai marxisti di
questo secolo, e a un certo femminismo – sono a volte talmente
semplificate da risultare ancora meno accettabili.
Si prenda, per esempio, un articolo di Margarethe von Trotta, regista
di un film su Rosa Luxemburg. La regista tedesca sintetizzava l’eredità
della rivoluzionaria polacca nell’amore, nell’incapacità di odiare, nel
rifiuto della violenza. Non si potrebbe immaginare certo nulla di più
lontano da “Rosa la sanguinaria”. Già nel film, peraltro, la Luxemburg
vi appare come una pacifista, amante della natura, che patisce la
divisione tra politica e sentimenti, precocemente oltre il femminismo
nella convinzione di una maggiore positività delle relazioni femminili.
Tutti tratti, si badi, che hanno un riscontro in momenti ed aspetti di
questa donna cui è capitato di essere rivoluzionaria. Ma se si
assolutizzano questi lati mettendo tra parentesi la sua vita spesa nel
lavoro teorico marxista, tra analisi dell’accumulazione e agire
politico, la sua lucida coscienza della amara spietatezza delle leggi
della storia e della lotta contro di esse, si finisce – magari contro le
intenzioni – con il riproporre una divisione delle ragioni dalle
passioni. Quello che nel film Rosa L. era utile e provocatorio, insomma,
diviene nella formula troppo ellittica “l’amore era la sua guida” un
appello generico ai sentimenti, ed infine una non innocente distorsione
di questa figura, perché riproduce proprio quella scissione tra pensiero
(un pensiero rivoluzionario, con quanto di “sporco” e irrisolto
l’aggettivo comporta) e sentire (di un sentire caratterizzato da
affezioni radicali e intransigenti, come era nella natura della
Luxemburg) che si voleva combattere.
Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della compassione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi.
Le cose stanno, ovviamente, ancora peggio se si va a guardare il modo con cui la tradizione marxista ha trattato la Luxemburg. Qui siamo su un terreno familiare. I suoi lati “femminili” sono relegati a contorno della sua riflessione marxista, a segno inconfondibile della sua umanità particolare; della sua analisi economica e della sua teoria dell’organizzazione ci si disfa rapidamente, ritenendo la prima piena di contraddizioni logiche e la seconda velleitaria e movimentista. Rivoluzionaria generosa, Rosa Luxemburg diviene proprio per questo meno lucida e destinata ad una sconfitta che segna la sua inattualità. È questa, in fondo, la rappresentazione di Rosa Luxemburg che è tornata ad essere dominante, per un breve periodo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quando con la ripresa un po’ dovunque di lotte radicali anticapitalistiche si è riproposta la questione della crisi, e di conseguenza della politica rivoluzionaria. Intrappolata nella opposizione a Lenin, la Luxemburg è stata di nuovo ripudiata o accettata come determinista e spontaneista.
Della persona che ha scritto in uno dei suoi ultimi articoli su Rote Fahne, nel dicembre 1918, “Un mondo deve essere distrutto, ma ogni lacrima che scorra sul volto, per quanto asciugata, è un atto d’accusa” non si può, non si deve, perdere la tensione tra momento della lotta e momento della compassione: non lo si può, non lo si deve perdere, perché è appunto nel legame tra “forza” della trasformazione sociale e “debolezza” che si riconosce in sé e cui si vuole dare spazio nel mondo che risiede quanto di più inquietante ed innovativo questa rivoluzionaria può dire a noi ancora oggi.
Le cose stanno, ovviamente, ancora peggio se si va a guardare il modo con cui la tradizione marxista ha trattato la Luxemburg. Qui siamo su un terreno familiare. I suoi lati “femminili” sono relegati a contorno della sua riflessione marxista, a segno inconfondibile della sua umanità particolare; della sua analisi economica e della sua teoria dell’organizzazione ci si disfa rapidamente, ritenendo la prima piena di contraddizioni logiche e la seconda velleitaria e movimentista. Rivoluzionaria generosa, Rosa Luxemburg diviene proprio per questo meno lucida e destinata ad una sconfitta che segna la sua inattualità. È questa, in fondo, la rappresentazione di Rosa Luxemburg che è tornata ad essere dominante, per un breve periodo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quando con la ripresa un po’ dovunque di lotte radicali anticapitalistiche si è riproposta la questione della crisi, e di conseguenza della politica rivoluzionaria. Intrappolata nella opposizione a Lenin, la Luxemburg è stata di nuovo ripudiata o accettata come determinista e spontaneista.
Un crollismo determinista? Le critiche
Può valere la pena riprendere un attimo in mano i vecchi testi polverosi, andare a rivedere ciò che ha detto la Luxemburg, e cosa è stato detto contro di lei. Credo, infatti, che possa emergerne un diverso modo di vedere le cose, una diversa immagine di una marxista i cui errori e le cui sconfitte sono molto più fertili di quanto ci dicano le vecchie e nuove interpretazioni.
Partiamo proprio dall’accusa di determinismo rivolto alla sua analisi economica. La Luxemburg, si dice, costruisce nella sua Accumulazione del capitale del 1913 una teoria del crollo che ripete i classici errori del sottoconsumismo. Il suo ragionamento sarebbe il seguente. Nel capitalismo, la produzione è produzione per il denaro, per un profitto monetario sempre crescente. Ma da dove viene il denaro che realizza il sovrappiù sempre maggiore che viene prodotto e riprodotto grazie alle ricorrenti innovazioni tecniche, e che non può essere per definizione acquistato dai lavoratori il cui consumo può “realizzare” solo una parte del prodotto? Questo plus-denaro non può che venire dall’esterno del modo di produzione capitalistico, che fornisce una domanda aggiuntiva, costituita dalle esportazioni dell’area “avanzata” verso l’area “arretrata”. Ma la lotta per la spartizione delle zone pre-capitalistiche e la necessità di integrarle nella circolazione monetaria conducono ad una loro inclusione nel mondo capitalistico: una volta che non esistano più possibili mercati di sbocco “esterni”, ed il capitalismo abbia raggiunto su scala mondiale la sua “purezza”, si verificherà il “crollo”.
Anche la lettura tradizionale della teoria dell’organizzazione luxemburghiana può essere sintetizzata in poco spazio. Le tendenze automatiche al crollo rendono irrilevante la costituzione di un partito separato dalle masse, che finirebbe con il degenerare in una dittatura dell’organizzazione sui movimenti reali. La crisi economica tenderebbe a generalizzare il conflitto politico “spontaneo”, di cui garantirebbero uno sbocco “rivoluzionario”.
La critica a queste posizioni si è rivelata abbastanza facile. Sul terreno dell’analisi economica, molti – basti qui citare per tutti Lenin, Bukharin e Sweezy – hanno rilevato che Rosa Luxemburg confonderebbe il problema “da dove viene la domanda che realizza il sovrappiù” con quella “da dove viene il denaro che realizza monetariamente il profitto”. La seconda sarebbe una questione tecnica, facilmente risolvibile (basta, per esempio immaginare che aumenti la velocità di circolazione, o che aumenti la quantità di oro che affluisce all’area capitalistica). Per quanto riguarda la prima questione, la Luxemburg dimenticherebbe, come tutti i sottoconsumisti, che la domanda interna all’area capitalistica non è costituita solo dai consumi operai ma anche dagli investimenti dei capitalisti: una caduta dei consumi dei lavoratori può benissimo essere compensata da un aumento nell’acquisto di beni strumentali; certo così si verrebbe a configurare, al limite, una produzione di macchine a mezzo di macchine; ma il capitalismo è appunto un sistema in cui la produzione non ha come proprio fine il consumo ma la ricchezza astratta, è una produzione per la produzione. Non vi è, perciò, nessuna tendenza automatica al crollo, che possa indurre spontaneamente la coscienza di classe nelle masse: la crisi non può che essere politica, e deve essere l’esito dell’azione di un partito di avanguardie esterne.
Le cose stanno in modo molto diverso. Rosa Luxemburg è stata certo
una crollista, ma la sua argomentazione era diversa in punti essenziali
da quella ricordata; come dirò, i problemi che lei ha affrontato sono
ancora oggi i problemi cruciali dell’economia politica critica, mentre
le facili certezze dei suoi critici si sono rivelate molto più
congeniali all’impostazione ortodossa, “borghese”, della scienza
economica. Inoltre, lungi dall’essere una spontaneista, Rosa Luxemburg
ha sempre ritenuto che l’organizzazione fosse necessaria ma trovasse la
sua legittimazione nel movimento reale, che la politica come attività
separata dal sociale dovesse combattere contro questa separazione
stessa, se suo fine deve essere una società democratica di autogestione
del lavoro e di uscita dal primato dell’economico. Tutt’altro che
determinista, il comunismo è stato per lei non una necessità ma una
possibilità, di cui era vano ricercare la “garanzia” in una filosofia
della storia o in una ontologia.
In quello che segue, proverò a suggerire come una interpretazione di questo tipo possa essere sostenuta.
Che cos’è l’economia politica? Valore e salario relativo
Un’opera fondamentale per capire veramente Rosa Luxemburg, e pure raramente letta, è l’Introduzione all’economia politica. Pubblicata postuma, raccoglie i capitoli rimastici di un libro che prendeva spunto dall’attività di insegnamento nella scuola di partito. Il volume era stato iniziato in carcere, probabilmente nel 1912, ed era stato rivisto successivamente dall’autrice nel 1916, ma mai da lei pubblicato; Paul Levi ne editerà una versione filologicamente discutibile nel 1925. Il libro è importante per tre ragioni: l’interpretazione della teoria del valore, la teoria della caduta tendenziale del salario relativo, la definizione del senso preciso da attribuire all’espressione “critica dell’economia politica”.
Per quanto riguarda la teoria del valore, la Luxemburg è stata una anticipatrice della posizione, poi espressa con particolare forza e rigore dall’economista russo Rubin, secondo cui la teoria del valore di Marx non rappresenta tanto una teoria dei prezzi relativi di equilibrio che li ancora alla determinazione “oggettiva” della spesa fisiologica di lavoro umano nella produzione, quanto piuttosto una teoria del modo peculiare e contraddittorio con cui si realizza la natura sociale del lavoro in una economia essenzialmente monetaria come quella capitalistica.
In una società di mercato generalizzato, quale è il capitalismo, “lo
scambio”, sostiene la Luxemburg, “è il solo mezzo per unire individui
atomizzati e la loro attività in una economia sociale coerente”: lo
scambio è cioè il nesso sociale indiretto di una società asociale,
fondata sulla separazione tra i produttori.
Il lavoro concreto, individuale, prestato all’interno dei singoli capitali, è un lavoro immediatamente privato, comandato dai capitalisti nell’attesa che esso si riveli poi effettivamente sul mercato, ex post, un lavoro sociale indifferenziato. Non è strano che in una società siffatta “l’economia produca risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati stessi”, diventi per loro “un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui occorre ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna e si ricercano le leggi che reggono la vita del regno vegetale e del regno animale, i cambiamenti della scorza terrestre ed i movimenti celesti”. Con il capitalismo nasce, insomma, l’economia politica come disciplina autonoma, perché l’economico si separa dagli altri momenti della connessione sociale, e trova in sé stesso la propria finalità e la propria giustificazione: “la conoscenza scientifica deve scoprire a cose fatte, il senso e la regola dell’economia sociale che nessun piano cosciente le ha dettato prima”.
In quello che segue, proverò a suggerire come una interpretazione di questo tipo possa essere sostenuta.
Che cos’è l’economia politica? Valore e salario relativo
Un’opera fondamentale per capire veramente Rosa Luxemburg, e pure raramente letta, è l’Introduzione all’economia politica. Pubblicata postuma, raccoglie i capitoli rimastici di un libro che prendeva spunto dall’attività di insegnamento nella scuola di partito. Il volume era stato iniziato in carcere, probabilmente nel 1912, ed era stato rivisto successivamente dall’autrice nel 1916, ma mai da lei pubblicato; Paul Levi ne editerà una versione filologicamente discutibile nel 1925. Il libro è importante per tre ragioni: l’interpretazione della teoria del valore, la teoria della caduta tendenziale del salario relativo, la definizione del senso preciso da attribuire all’espressione “critica dell’economia politica”.
Per quanto riguarda la teoria del valore, la Luxemburg è stata una anticipatrice della posizione, poi espressa con particolare forza e rigore dall’economista russo Rubin, secondo cui la teoria del valore di Marx non rappresenta tanto una teoria dei prezzi relativi di equilibrio che li ancora alla determinazione “oggettiva” della spesa fisiologica di lavoro umano nella produzione, quanto piuttosto una teoria del modo peculiare e contraddittorio con cui si realizza la natura sociale del lavoro in una economia essenzialmente monetaria come quella capitalistica.
Scoprire
che nel valore di scambio di ogni merce, nel denaro stesso, c’è
semplicemente del lavoro umano e che il valore di ogni merce è tanto più
grande quanto più la sua produzione ha richiesto lavoro e viceversa,
non è che riconoscere metà della verità. L’altra metà consiste nello
spiegare come, perché il lavoro prende la forma strana del valore di
scambio e la forma misteriosa del denaro.
Il lavoro concreto, individuale, prestato all’interno dei singoli capitali, è un lavoro immediatamente privato, comandato dai capitalisti nell’attesa che esso si riveli poi effettivamente sul mercato, ex post, un lavoro sociale indifferenziato. Non è strano che in una società siffatta “l’economia produca risultati inattesi ed enigmatici per gli interessati stessi”, diventi per loro “un fenomeno strano, alienato, indipendente, di cui occorre ricercare le leggi come si studiano i fenomeni della natura esterna e si ricercano le leggi che reggono la vita del regno vegetale e del regno animale, i cambiamenti della scorza terrestre ed i movimenti celesti”. Con il capitalismo nasce, insomma, l’economia politica come disciplina autonoma, perché l’economico si separa dagli altri momenti della connessione sociale, e trova in sé stesso la propria finalità e la propria giustificazione: “la conoscenza scientifica deve scoprire a cose fatte, il senso e la regola dell’economia sociale che nessun piano cosciente le ha dettato prima”.
Non è difficile, oggi, scorgere dietro questo discorso della
Luxemburg, sia pure non pienamente e soddisfacentemente sviluppato, il
ruolo centrale che ha la categoria del lavoro astratto: il lavoro
sociale è nel capitalismo non il lavoro utile, naturale, ma il lavoro
che deve divenire sociale astraendo dalle
determinazioni concrete della sua prestazione lavorativa. Che il lavoro
astratto sia un’astrazione reale specifica del capitalismo e non una
generalizzazione mentale del ricercatore, la cui altra faccia altro non è
che il denaro stesso come prodotto specifico del capitale, è già
anticipato chiaramente dalla Luxemburg in Riforma sociale e rivoluzione:
Già nella Luxemburg è possibile vedere bene anche il legame stretto
che questa tematica ha con la teoria dell’alienazione e del feticismo, e
con la tesi che il primato dell’economico ha una nascita e,
possibilmente, una morte. Ma su questo tornerò: basti per adesso
rilevare come questa problematica è estranea tanto alle riduzioni
economicistiche della teoria del valore a teoria del primato della
produzione ridotta a sfera tecnica, come alle posizioni che vogliono
ridurre la teoria marxiana a teoria del conflitto distributivo tra le
classi sociali. Ciò che qui si sottolinea è che il valore si crea –
meglio: si attualizza – all’incrocio tra produzione e circolazione, che
le merci sono l’esito di processi di valorizzazione svolti separatamente
ed in concorrenza reciproca, e che la lotta al capitalismo è lotta alla
forma di merce che ha separato individuo e società. Decisamente
minoritaria tanto nel periodo della Seconda Internazionale quanto della
Terza Internazionale, questa posizione sarà ripresa negli ultimi
vent’anni dalla ricerca marxista più avvertita.
Passiamo al secondo punto. La generalizzazione della forma di merce comporta la riduzione a merce della stessa forza-lavoro. La peculiarità di quest’ultima consiste nel fatto che il valore d’uso di questa merce è il lavoro stesso, e non è separabile dal suo venditore. Ciò ha due conseguenze. In primo luogo, data la durata della giornata lavorativa, il capitalista ottiene un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del plusvalore, nella misura in cui è in grado mediante tecniche di produzione più avanzate di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, però, l’estrazione di questo pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva erogazione del lavoro; dipende perciò da un conflitto tra le classi nel processo di produzione, conflitto che ha la sua radice profonda nel controllo che l’operaio, singolo o collettivo, è in grado in certe circostanze di sviluppare sul proprio lavoro vivo, che costituisce la sostanza della valorizzazione. Le considerazioni che la Luxemburg svolge sul salario nell’Introduzione rimandano appunto a questa dialettica tra progresso tecnico endogeno al capitalismo – la rivoluzione incessante dei modi di produrre allo scopo di valorizzare il capitale – e la crisi sociale del modo di produzione capitalistico.
l’astrazione
marxiana non è un’invenzione, ma una scoperta, essa esiste non nella
testa di Marx ma nell’economia mercantile, conduce un’esistenza non
immaginaria, ma reale e sociale, un’esistenza così reale da venire
suddivisa e battuta, pesata e coniata. Il lavoro astratto umano scoperto
da Marx non è altro cioè nella sua forma sviluppata che – il denaro.
Passiamo al secondo punto. La generalizzazione della forma di merce comporta la riduzione a merce della stessa forza-lavoro. La peculiarità di quest’ultima consiste nel fatto che il valore d’uso di questa merce è il lavoro stesso, e non è separabile dal suo venditore. Ciò ha due conseguenze. In primo luogo, data la durata della giornata lavorativa, il capitalista ottiene un incremento della quota del pluslavoro, e quindi del plusvalore, nella misura in cui è in grado mediante tecniche di produzione più avanzate di ridurre il valore di scambio della forza-lavoro, che ha il suo corrispettivo nel salario reale. In secondo luogo, però, l’estrazione di questo pluslavoro dipende dalla capacità di imporre l’effettiva erogazione del lavoro; dipende perciò da un conflitto tra le classi nel processo di produzione, conflitto che ha la sua radice profonda nel controllo che l’operaio, singolo o collettivo, è in grado in certe circostanze di sviluppare sul proprio lavoro vivo, che costituisce la sostanza della valorizzazione. Le considerazioni che la Luxemburg svolge sul salario nell’Introduzione rimandano appunto a questa dialettica tra progresso tecnico endogeno al capitalismo – la rivoluzione incessante dei modi di produrre allo scopo di valorizzare il capitale – e la crisi sociale del modo di produzione capitalistico.
Rosa Luxemburg formula a questo proposito quella che definisce una
“legge” del modo di produzione fondato sul carattere di merce della
forza-lavoro, e cioè la tesi di una caduta tendenziale del “salario
relativo”. La Luxemburg coglie lucidamente la differenza radicale che la
forma salario determina rispetto alle condizioni del lavoro
precapitalistiche:
D’altro canto, prosegue la Luxemburg
La conclusione è che
La tesi della Luxemburg è, in sintesi, che l’incremento della forza produttiva del lavoro, cui contribuiscono le diverse imprese nella loro competizione alla caccia di extra-profitti, conduce ad una riduzione del lavoro necessario alla produzione dei beni-salario. Ne discendono un corollario economico ed una tesi politica.
Il corollario economico è che, contro qualsiasi teoria che imputerebbe a Marx la tesi di un impoverimento crescente della classe operaia, le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un aumento del plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori (sia nel senso di salari reali più elevati che nel senso di riduzioni dell’orario di lavoro): è possibile cioè produrre più beni per i lavoratori in meno tempo, nonostante una divisione della giornata lavorativa sociale più favorevole alla classe capitalistica.
La conseguenza politica è che – contrariamente alla versione determinista della lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg – si riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro all’interno del capitalismo “avanzato”. La possibile convergenza di interessi tra le due classi vale, beninteso, solo finché si rimane sul terreno del valore d’uso, della ricerca di un maggior benessere materiale; le cose non stanno più così, e necessariamente, sul terreno del valore, della spartizione antagonistica della giornata lavorativa, della lotta tra capitale e lavoro sull’uso della forza-lavoro. Ma impedire, su quel terreno, che è il cuore della valorizzazione, la caduta del “salario relativo” equivale a mettere in crisi – una crisi politica perché sociale – il modo di produzione capitalistico.
Nel
sistema salariale non esistono determinazioni legali o di diritto
consuetudinario o anche solo forzose, arbitrarie della parte spettante
all’operaio sul proprio prodotto. Questa parte viene determinata dal
grado raggiunto dalla produttività del lavoro, dallo stato della
tecnica; non una qualunque volontà arbitraria degli sfruttatori ma il
progresso della tecnica è la causa dell’incessante e implacabile
compressione della parte dell’operaio.
D’altro canto, prosegue la Luxemburg
il
costante e incessante progresso della tecnica rappresenta per il
capitalismo una necessità, una condizione vitale. La concorrenza tra i
singoli imprenditori costringe ognuno di loro a produrre il più a buon
mercato possibile, cioè con il maggior risparmio possibile di lavoro
umano.
La conclusione è che
ogni progresso nella produttività del lavoro si estrinseca nel
restringimento della quantità di lavoro necessaria al mantenimento del
lavoratore. Vale a dire: la produzione capitalistica non può fare alcun
passo innanzi senza limitare la partecipazione dei lavoratori al
prodotto sociale.
La tesi della Luxemburg è, in sintesi, che l’incremento della forza produttiva del lavoro, cui contribuiscono le diverse imprese nella loro competizione alla caccia di extra-profitti, conduce ad una riduzione del lavoro necessario alla produzione dei beni-salario. Ne discendono un corollario economico ed una tesi politica.
Il corollario economico è che, contro qualsiasi teoria che imputerebbe a Marx la tesi di un impoverimento crescente della classe operaia, le innovazioni possono dar luogo contemporaneamente ad un aumento del plusvalore e ad un maggior benessere dei lavoratori (sia nel senso di salari reali più elevati che nel senso di riduzioni dell’orario di lavoro): è possibile cioè produrre più beni per i lavoratori in meno tempo, nonostante una divisione della giornata lavorativa sociale più favorevole alla classe capitalistica.
La conseguenza politica è che – contrariamente alla versione determinista della lotta di classe che di norma viene attribuita alla Luxemburg – si riconosce uno spazio per una collusione riformista tra capitale e lavoro all’interno del capitalismo “avanzato”. La possibile convergenza di interessi tra le due classi vale, beninteso, solo finché si rimane sul terreno del valore d’uso, della ricerca di un maggior benessere materiale; le cose non stanno più così, e necessariamente, sul terreno del valore, della spartizione antagonistica della giornata lavorativa, della lotta tra capitale e lavoro sull’uso della forza-lavoro. Ma impedire, su quel terreno, che è il cuore della valorizzazione, la caduta del “salario relativo” equivale a mettere in crisi – una crisi politica perché sociale – il modo di produzione capitalistico.
La
lotta contro il ribasso del salario relativo è la lotta contro il
carattere di merce della forza- lavoro, contro la produzione
capitalistica in quanto tale. La lotta contro la caduta del salario
relativo non è più una lotta sul terreno dell’economia capitalistica ma
un assalto rivoluzionario contro questa economia, è il movimento
socialista del proletariato.
È adesso chiaro in che senso l’Introduzione presenta un modo
di fare economia politica critica, cioè di legare l’analisi dei
meccanismi economici ai rapporti sociali che li producono e inceppano,
che è innovativo per il marxismo di allora, ma forse anche per quello di
oggi. Ed è anche chiaro perché si tratta di un modo originale, allora
come oggi, di intendere la teoria marxiana come “critica dell’economia
politica”. Come si è detto, l’economia come scienza autonoma nasce solo
con l’autonomizzarsi della sfera dell’economia, che si separa e si erge
come potenza autonoma ed estranea rispetto ai lavoratori che ne
costituiscono il centro. Lottare contro il carattere di merce della
forza-lavoro significa allora riacquistare il controllo e la trasparenza
del processo sociale, combattere e negare praticamente la separazione
ed il primato dell’economia, delle cose sull’essere umano. Scrive la
Luxemburg: “Poiché l’economia è una scienza delle leggi particolari del
modo di produzione capitalista, la sua esistenza e la sua funzione
dipendono da questo modo di produzione e perdono ogni base quando questo
cessa di esistere”. E ancora: “Il compito della ricerca scientifica è
quello di scoprire la mancanza di coscienza di cui soffre l’economia
della società, e qui tocchiamo direttamente la radice dell’economia
politica”. Di conseguenza “la fine dell’economia politica come scienza è
una azione storica”, è il frutto di un intervento politico che sradichi
le basi oggettive – materiali, o sociali, che dir si voglia –
dell’opacità del modo di produzione capitalistico e lo scandalo dello
sfruttamento. Al di là del capitale, insomma, i fenomeni economici e la
riflessione su di essi – che, come è ovvio, non scompariranno –
dismettono la propria separatezza ed autonomia, per divenire subordinati
ad altre forme dell’agire e ad altri discorsi.La teoria della crisi
L’Introduzione rivela che Rosa Luxemburg vede nella teoria del valore non tanto una teoria dei prezzi di equilibrio – come faranno tanto il marxismo tradizionale quanto il neoricardismo – quanto piuttosto una teoria delle leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Dal valore come nesso sociale particolare la Luxemburg deriva, infatti, sia le tendenze dinamiche del capitale (legge della caduta del salario relativo) che la centralità dei fenomeni monetari. Se la visione della teoria del valore come teoria della socializzazione peculiare del capitalismo verrà ripresa, come ho detto, da Rubin, la visione della teoria del valore come analisi dello sviluppo ineguale sarà ulteriormente arricchita da Henryk Grossmann, e la visione monetaria del valore-lavoro è stata recentemente oggetto di attenzione (soprattutto da parte della teoria del circuito monetario di Graziani e Parguez, e del Financial Keynesianism di Minsky).
Queste tesi, come cercherò di sostenere, mostrano anche con chiarezza
che le critiche di determinismo e di spontaneismo rivolte alla
Luxemburg non reggono.
Torniamo alla sua teoria della crisi ed alla sua teoria dell’organizzazione. Per quanto riguarda la prima, le argomentazioni precedenti chiariscono quanto è peraltro già evidente ad una lettura attenta dell’Accumulazione del capitale, e cioè che la Luxemburg non è una sottoconsumista. La sua tesi è che proprio l’incessante attività di innovazione, che si traduce in investimenti massicci ma non regolati, determina nel corso dello sviluppo le ragioni della propria interruzione. La tesi può essere messa in termini abbastanza semplici. La crescita degli investimenti si accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi rami di produzione, ed al cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi rami di produzione; questo comporta una modificazione delle condizioni di equilibrio degli scambi intersettoriali, modificazione che in una economia non pianificata rende sempre più probabile l’emergere di una crisi da sproporzioni, con eccessi di domanda in alcuni settori ed eccessi di offerta in altri settori. L’eccesso della produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e si avranno perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno licenziamenti; cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte delle imprese fallite sia la domanda di beni salario da parte dei disoccupati. Quando questo fenomeno investe settori importanti dell’economia, la flessione della domanda di investimenti e di consumo trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori, in un processo a catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale (una linea di ragionamento non dissimile la si ritrova espressa in alcune pagine dei Grundrisse).
Cade dunque la tesi che l’analisi della crisi luxemburghiana non presti una sufficiente attenzione agli investimenti come componente della domanda. L’“errore” che sicuramente commette la Luxemburg è semmai quello di trasformare una tendenza sistematica alla crisi – dovuta all’ impossibilità di immaginare una crescita senza limiti della quota degli investimenti – in crollo necessario: “non esistono crisi permanenti”, scrive Marx.
Anche l’altra critica rivolta alla Luxemburg, secondo cui la questione da dove viene la moneta che realizza il plusvalore?” sarebbe mal posta, è una critica che si ritorce in larga misura contro i suoi propositori (in questo nostro scritto non è molto rilevante la cruciale distinzione marxiana tra denaro e moneta, e utilizzeremo dunque i due termini come sinonimi). In effetti, abbiamo visto come per la Luxemburg la produzione capitalistica, come produzione di valore, non sia altro che produzione di denaro. Il costante andare e ritornare, nell’Accumulazione del capitale, alla questione della moneta è un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene la natura monetaria del processo capitalistico. Il suo ragionamento, insomma, si svolge sempre in termini di un modello di circuito monetario, dove la produzione deve essere finanziata dal capitale monetario, e deve dare luogo ad un accrescimento del valore.
Rosa Luxemburg si muove, anche su questo terreno, in modo iniziale e malcerto: coglie però l’importanza di due punti che sfuggono interamente ai suoi critici. Mentre questi ultimi sono prigionieri di un’immagine del processo economico che non lascia spazio alla moneta se non come “velo” inessenziale dei fenomeni reali, di un’immagine quindi che equipara l’economia capitalistica ad un’economia di baratto, la Luxemburg si chiede costantemente come entra la moneta nel sistema economico, e come essa si incrementi per dar luogo ad un plus-denaro. Il fatto che le sue risposte siano difettose – per lei la moneta è l’esito di un processo di produzione in tutto analogo agli altri processi manifatturieri, e la maggior quantità di moneta può derivare solo dalle esportazioni – non toglie che essa sia tra i pochi autori che riprendono questa problematica dopo Marx.
Torniamo alla sua teoria della crisi ed alla sua teoria dell’organizzazione. Per quanto riguarda la prima, le argomentazioni precedenti chiariscono quanto è peraltro già evidente ad una lettura attenta dell’Accumulazione del capitale, e cioè che la Luxemburg non è una sottoconsumista. La sua tesi è che proprio l’incessante attività di innovazione, che si traduce in investimenti massicci ma non regolati, determina nel corso dello sviluppo le ragioni della propria interruzione. La tesi può essere messa in termini abbastanza semplici. La crescita degli investimenti si accompagna alla crescita di nuove imprese e di nuovi rami di produzione, ed al cambiamento delle vecchie imprese e dei vecchi rami di produzione; questo comporta una modificazione delle condizioni di equilibrio degli scambi intersettoriali, modificazione che in una economia non pianificata rende sempre più probabile l’emergere di una crisi da sproporzioni, con eccessi di domanda in alcuni settori ed eccessi di offerta in altri settori. L’eccesso della produzione sulla domanda solvibile determina caduta dei prezzi, e si avranno perciò perdite e fallimenti, che a loro volta comporteranno licenziamenti; cadono quindi sia la domanda di beni strumentali da parte delle imprese fallite sia la domanda di beni salario da parte dei disoccupati. Quando questo fenomeno investe settori importanti dell’economia, la flessione della domanda di investimenti e di consumo trasmette l’eccesso di offerta ad altri settori, in un processo a catena, che ha come suo esito una sovrapproduzione generale (una linea di ragionamento non dissimile la si ritrova espressa in alcune pagine dei Grundrisse).
Cade dunque la tesi che l’analisi della crisi luxemburghiana non presti una sufficiente attenzione agli investimenti come componente della domanda. L’“errore” che sicuramente commette la Luxemburg è semmai quello di trasformare una tendenza sistematica alla crisi – dovuta all’ impossibilità di immaginare una crescita senza limiti della quota degli investimenti – in crollo necessario: “non esistono crisi permanenti”, scrive Marx.
Anche l’altra critica rivolta alla Luxemburg, secondo cui la questione da dove viene la moneta che realizza il plusvalore?” sarebbe mal posta, è una critica che si ritorce in larga misura contro i suoi propositori (in questo nostro scritto non è molto rilevante la cruciale distinzione marxiana tra denaro e moneta, e utilizzeremo dunque i due termini come sinonimi). In effetti, abbiamo visto come per la Luxemburg la produzione capitalistica, come produzione di valore, non sia altro che produzione di denaro. Il costante andare e ritornare, nell’Accumulazione del capitale, alla questione della moneta è un indice del fatto che la Luxemburg aveva colto bene la natura monetaria del processo capitalistico. Il suo ragionamento, insomma, si svolge sempre in termini di un modello di circuito monetario, dove la produzione deve essere finanziata dal capitale monetario, e deve dare luogo ad un accrescimento del valore.
Rosa Luxemburg si muove, anche su questo terreno, in modo iniziale e malcerto: coglie però l’importanza di due punti che sfuggono interamente ai suoi critici. Mentre questi ultimi sono prigionieri di un’immagine del processo economico che non lascia spazio alla moneta se non come “velo” inessenziale dei fenomeni reali, di un’immagine quindi che equipara l’economia capitalistica ad un’economia di baratto, la Luxemburg si chiede costantemente come entra la moneta nel sistema economico, e come essa si incrementi per dar luogo ad un plus-denaro. Il fatto che le sue risposte siano difettose – per lei la moneta è l’esito di un processo di produzione in tutto analogo agli altri processi manifatturieri, e la maggior quantità di moneta può derivare solo dalle esportazioni – non toglie che essa sia tra i pochi autori che riprendono questa problematica dopo Marx.
Va inoltre rilevato che la successiva ricerca ha sviluppato i
suggerimenti della Luxemburg mostrandone la fondatezza. Michail Kalecki,
che proprio partendo dall’impostazione luxemburghiana è giunto a
risultati che echeggiano quelli della contemporanea rivoluzione
keynesiana, ha mostrato come un saldo positivo delle esportazioni sulle
importazioni è in grado di consentire un incremento della domanda
effettiva ed una parziale o totale realizzazione monetaria del
plusvalore: la Luxemburg avrebbe sbagliato quindi nel vedere nell’
intero ammontare delle esportazioni un’aggiunta alla domanda ed una
immissione di moneta “dall’esterno”, trascurando il deflusso di moneta
dovuto alle importazioni, ma avrebbe intuito la relazione corretta che
si instaura tra esportazioni nette e circuito monetario. Kalecki stesso
ha inoltre mostrato come un risultato analogo possa essere ottenuto da
un eccesso delle spese pubbliche sulle entrate finanziato con nuova
moneta.
I limiti indubbi dell’analisi economica della Luxemburg non ci hanno impedito di rilevare l’originalità della sua ripresa della teoria del valore come teoria dello sfruttamento in una economia monetaria caratterizzata dalla concorrenza dinamica tra le imprese, e la sua anticipazione di temi oggi sviluppati dalla teoria del circuito monetario. Quelli che erano stati bollati come “errori” tanto da Kautsky come da Lenin, tanto da Bauer come da Bukharin, si sono rivelati i semi della ripresa della critica dell’economia politica negli anni più recenti.
Lotte e organizzazione: gli scritti politici
La riconsiderazione della teoria economica della Luxemburg svolta nei paragrafi precedenti ha rivelato l’infondatezza dell’accusa di spontaneismo indirizzata alla Luxemburg, che sarebbe secondo i più nient’altro che l’altra faccia del suo determinismo (tesi, peraltro, almeno più dignitosa di quella, che pure è stata avanzata, secondo cui la sottovalutazione dell’organizzazione dipenderebbe dalla natura “femminile” della rivoluzionaria polacca, che l’indurrebbe a vedere nel controllo cosciente una minaccia al comportamento spontaneo…). Per quanto possa apparire paradossale, per la Luxemburg la tendenza al crollo non giustifica alcun attendismo, e nemmeno alcun atteggiamento evoluzionistico, di tranquilla fiducia nel “corso delle cose”, tutt’altro.
Alla stessa conclusione si può pervenire tenendo conto di altre parti della riflessione della Luxemburg. Nei suoi scritti più tardi, la rivoluzionaria polacca sviluppa una posizione del tutto peculiare, di fatto unica nel marxismo di allora, secondo la quale l’avvento del socialismo non può essere inteso come una necessità naturale, ma esclusivamente come una necessità storica: non come un esito scontato, un momento terminale della storia umana, ma come l’unica possibilità di sfuggire alla “barbarie” verso cui lo sviluppo capitalistico trascina tanto la classe lavoratrice quanto l’umanità in genere. Anche qui, si può certo imputare alla Luxemburg una visione eccessivamente cupa delle dinamiche sociali, ma è difficile negare che un’impostazione del genere le consente di evitare le secche in cui si arena l’evoluzionismo secondinternazionalista e terzinternazionalista. E davvero il pessimismo luxemburghiano è un limite? Basta ricordare le convulsioni degli anni che seguirono, tra la prima e la seconda guerra mondiale, il vero e proprio degrado materiale (ma anche psicologico) della civiltà e della qualità della vita negli anni del neocapitalismo, la devastazione della natura del presente e la riemergente disoccupazione di massa dei nostri giorni, per chiedersi ancora una volta se non vi sia più ragione dalla sua parte che da quella dei suoi critici.
I limiti indubbi dell’analisi economica della Luxemburg non ci hanno impedito di rilevare l’originalità della sua ripresa della teoria del valore come teoria dello sfruttamento in una economia monetaria caratterizzata dalla concorrenza dinamica tra le imprese, e la sua anticipazione di temi oggi sviluppati dalla teoria del circuito monetario. Quelli che erano stati bollati come “errori” tanto da Kautsky come da Lenin, tanto da Bauer come da Bukharin, si sono rivelati i semi della ripresa della critica dell’economia politica negli anni più recenti.
Lotte e organizzazione: gli scritti politici
La riconsiderazione della teoria economica della Luxemburg svolta nei paragrafi precedenti ha rivelato l’infondatezza dell’accusa di spontaneismo indirizzata alla Luxemburg, che sarebbe secondo i più nient’altro che l’altra faccia del suo determinismo (tesi, peraltro, almeno più dignitosa di quella, che pure è stata avanzata, secondo cui la sottovalutazione dell’organizzazione dipenderebbe dalla natura “femminile” della rivoluzionaria polacca, che l’indurrebbe a vedere nel controllo cosciente una minaccia al comportamento spontaneo…). Per quanto possa apparire paradossale, per la Luxemburg la tendenza al crollo non giustifica alcun attendismo, e nemmeno alcun atteggiamento evoluzionistico, di tranquilla fiducia nel “corso delle cose”, tutt’altro.
Alla stessa conclusione si può pervenire tenendo conto di altre parti della riflessione della Luxemburg. Nei suoi scritti più tardi, la rivoluzionaria polacca sviluppa una posizione del tutto peculiare, di fatto unica nel marxismo di allora, secondo la quale l’avvento del socialismo non può essere inteso come una necessità naturale, ma esclusivamente come una necessità storica: non come un esito scontato, un momento terminale della storia umana, ma come l’unica possibilità di sfuggire alla “barbarie” verso cui lo sviluppo capitalistico trascina tanto la classe lavoratrice quanto l’umanità in genere. Anche qui, si può certo imputare alla Luxemburg una visione eccessivamente cupa delle dinamiche sociali, ma è difficile negare che un’impostazione del genere le consente di evitare le secche in cui si arena l’evoluzionismo secondinternazionalista e terzinternazionalista. E davvero il pessimismo luxemburghiano è un limite? Basta ricordare le convulsioni degli anni che seguirono, tra la prima e la seconda guerra mondiale, il vero e proprio degrado materiale (ma anche psicologico) della civiltà e della qualità della vita negli anni del neocapitalismo, la devastazione della natura del presente e la riemergente disoccupazione di massa dei nostri giorni, per chiedersi ancora una volta se non vi sia più ragione dalla sua parte che da quella dei suoi critici.
L’accusa di spontaneismo è spesso stata rivolta alla Luxemburg a
partire dalla accettazione della teoria dell’organizzazione di Lenin.
Non può peraltro non colpire il fatto che, nonostante la differenza tra i
due sia netta (ma soprattutto se si guarda al Che fare?, non se si
guarda a Stato e rivoluzione), e nonostante le non poche critiche di
Lenin alla Luxemburg, mai si ritrovi negli scritti del rivoluzionario
russo la critica in questione. In realtà, Lenin ben vedeva che la
Luxemburg, benché formulasse con tutta evidenza una teoria
dell’organizzazione diversa dalla sua, non negava affatto il ruolo di
una avanguardia, appunto, organizzata.
I termini del contrasto sono ben illuminati da un vecchio articolo di Rossana Rossanda, Classe e partito, comparso nel settembre 1969 sul Manifesto rivista. Per Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto economico, oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica solo se il partito, l’autentico “soggetto” rivoluzionario, è in grado di dare “coscienza” al proletariato come “oggetto” dell’agire rivoluzionario, in sé totalmente interno ad un orizzonte capitalistico. La Rossanda cita dal Che fare? alcuni brani di Lenin particolarmente espliciti: basti qui richiamare le conclusioni secondo cui “in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento, come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti nostrani”, e che “il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione”. A ragione la Rossanda ne conclude che in questa impostazione
Quello che occorre aver ben chiaro, insomma, è che la relazione tra organizzazione e spontaneità è per la Luxemburg tale che il partito trova la sua legittimità non in sé stesso ma nella classe; e che la sua efficacia può crescere e verificarsi solo nella direzione di lotte di massa che erompono periodicamente ed in modo inaspettato (“anche qui – scrive la Luxemburg nei Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa – l’inconscio precede il cosciente, la logica del processo storico obiettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti”) ma che rischiano sempre la disgregazione e l’atomizzazione se non vengono costantemente riunificate. L’azione del partito
I termini del contrasto sono ben illuminati da un vecchio articolo di Rossana Rossanda, Classe e partito, comparso nel settembre 1969 sul Manifesto rivista. Per Lenin la lotta operaia non può andare oltre il conflitto economico, oltre la rivendicazione di una distribuzione più favorevole ai lavoratori. La lotta sociale può divenire lotta politica solo se il partito, l’autentico “soggetto” rivoluzionario, è in grado di dare “coscienza” al proletariato come “oggetto” dell’agire rivoluzionario, in sé totalmente interno ad un orizzonte capitalistico. La Rossanda cita dal Che fare? alcuni brani di Lenin particolarmente espliciti: basti qui richiamare le conclusioni secondo cui “in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento, come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti nostrani”, e che “il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione”. A ragione la Rossanda ne conclude che in questa impostazione
è
evidente la radice idealistica. Se è vero che bisogna guardarsi da una
interpretazione “meccanicistica” del pensiero di Marx, resta da vedere
come si possa volersi marxisti e sostenere che la coscienza abbia altra
origine che l’essere sociale – “non è la coscienza degli uomini a
determinare l’essere, ma al contrario è l’essere che determina la
coscienza” -; e se il passaggio fra l’essere e la coscienza nel
proletariato presenta un momento di difficoltà teorica, è francamente
insolubile, pena una ricaduta verticale nell’hegelismo, una derivazione
della coscienza dalla coscienza.
La Luxemburg, prosegue Rossanda, affronta la questione
dell’organizzazione “all’interno della concezione marxiana della
coscienza di classe, invece che attraverso l’accettazione della tesi
leniniana di un’avanguardia esterna”. Per la Luxemburg, si badi, il
ruolo dell’avanguardia è comunque centrale per trasformare le
contraddizioni oggettive, cioè sociali, in rottura rivoluzionaria: ma
non certo per una “assenza della dimensione politica della lotta operaia
in quanto tale”, quanto piuttosto per il rischio della “sua oggettiva
frantumazione” e per la conseguente “necessità di una strategia
unificante”.Quello che occorre aver ben chiaro, insomma, è che la relazione tra organizzazione e spontaneità è per la Luxemburg tale che il partito trova la sua legittimità non in sé stesso ma nella classe; e che la sua efficacia può crescere e verificarsi solo nella direzione di lotte di massa che erompono periodicamente ed in modo inaspettato (“anche qui – scrive la Luxemburg nei Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa – l’inconscio precede il cosciente, la logica del processo storico obiettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti”) ma che rischiano sempre la disgregazione e l’atomizzazione se non vengono costantemente riunificate. L’azione del partito
sorge
storicamente dalla lotta di classe elementare. Si muove in questa
contraddizione dialettica che da un lato l’esercito proletario si
recluta solo nel corso stesso della lotta e dall’altro che è ancora
soltanto nella lotta che ne chiarisce a se stesso gli scopi.
Organizzazione, chiarificazione e lotta non sono qui momenti divisi,
meccanicamente e anche temporalmente separati […], sono soltanto facce
diverse di un medesimo processo.
In ultima analisi, la liberazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa.
“In conclusione, diciamolo pure apertamente fra di noi: i passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”. E nell’ultimo articolo del gennaio 1919, L’ordine regna a Berlino, pochi giorni prima della morte: “la rivoluzione è l’unica forma di guerra in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte”.
È dunque a causa della natura sociale e non meramente politica della rivoluzine proletaria che la Luxemburg definisce lo sciopero di massa la “forma generale della lotta di classe proletaria”, ed il partito come “il movimento specifico della classe operaia”. Nell’organizzazione si deve costantemente combattere la separazione tra ceto politico e quadro militante, tra dirigenti e diretti: la direzione del partito deve perciò essere in mano ai quadri operai. Tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo.
Il discorso sull’organizzazione della Luxemburg è, come è ovvio, inseparabile dalla composizione di classe che aveva di fronte, dai problemi che affrontava (la diversità della situazione concreta può in effetti spiegare, sia pure solo in parte, il contrasto con Lenin). Ciononostante, credo si possa anche qui notare come i limiti che essa patisce, se guardata dall’oggi, sono non la sopravalutazione ma semmai la sottovalutazione della politicità delle lotte operaie autonome nelle fasi in cui il movimento è all’offensiva, e la difficoltà di definire il rapporto tra partito e masse nelle fasi di sconfitta.
Limiti che senz’altro esprimono una contraddizione, che però sarebbe bene ricordare che è tutt’ora davanti a noi, e non dietro di noi. Ancora una volta, Rosa Luxemburg si rivela non una soluzione, ma un arsenale di problemi.
In modo del tutto condivisibile, Edoarda Masi ha scritto:
“In conclusione, diciamolo pure apertamente fra di noi: i passi falsi che compie un reale movimento operaio rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale”. E nell’ultimo articolo del gennaio 1919, L’ordine regna a Berlino, pochi giorni prima della morte: “la rivoluzione è l’unica forma di guerra in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di sconfitte”.
È dunque a causa della natura sociale e non meramente politica della rivoluzine proletaria che la Luxemburg definisce lo sciopero di massa la “forma generale della lotta di classe proletaria”, ed il partito come “il movimento specifico della classe operaia”. Nell’organizzazione si deve costantemente combattere la separazione tra ceto politico e quadro militante, tra dirigenti e diretti: la direzione del partito deve perciò essere in mano ai quadri operai. Tornerò su questo punto nel prossimo paragrafo.
Il discorso sull’organizzazione della Luxemburg è, come è ovvio, inseparabile dalla composizione di classe che aveva di fronte, dai problemi che affrontava (la diversità della situazione concreta può in effetti spiegare, sia pure solo in parte, il contrasto con Lenin). Ciononostante, credo si possa anche qui notare come i limiti che essa patisce, se guardata dall’oggi, sono non la sopravalutazione ma semmai la sottovalutazione della politicità delle lotte operaie autonome nelle fasi in cui il movimento è all’offensiva, e la difficoltà di definire il rapporto tra partito e masse nelle fasi di sconfitta.
Limiti che senz’altro esprimono una contraddizione, che però sarebbe bene ricordare che è tutt’ora davanti a noi, e non dietro di noi. Ancora una volta, Rosa Luxemburg si rivela non una soluzione, ma un arsenale di problemi.
In modo del tutto condivisibile, Edoarda Masi ha scritto:
Rosa
sta dalla parte delle masse perché sono oppresse, e la funzione
educatrice delle élite è per lei finalizzata alla loro rivolta, alla
rivoluzione – non al potere delle stesse élites per conto delle masse,
vicario del potere borghese e a esso speculare. È una visione fino a
oggi priva di sbocco politico, ma la sola dove la rivoluzione non sia
destinata a divorare se stessa.
E ancora:
Se
la talpa della storia è la verità che, celata al presente, si rivelerà
nelle mutate condizioni del futuro, è in questo nostro tempo che si
rovescia in rivincita tutto quanto era parso il risvolto negativo delle
idee di Rosa e della sua sorte: puntare sulle masse – quando la
rivoluzione d’ottobre, la sola vittoriosa, aveva seguito altra via;
optare per la pace – quando la socialdemocrazia aveva scelto la guerra, e
la guerra era venuta, seguita poi ancora da un’altra ancora più
tremenda e universale; trovarsi dalla parte degli sconfitti – il
peggiore dei torti secondo la ragion politica. Le vittorie di allora, se
pure autentiche, non ci riguardano ormai, quando tutto è mutato e
trascinato via dal tempo […] Attuali e invincibili restano le idee degli
sconfitti, perché rispondono ad un’esigenza insopprimibile degli esseri
umani di questo secolo e ne rappresentano la nobiltà. Indipendentemente
da se e fino a quando siano attuabili.
Non saprei dire meglio.
Rosa Luxemburg e il sindacato
Il rapporto di Rosa Luxemburg con il sindacato è il tema della tesi di Claudio Sabattini , presentata nel 1969-70. Il titolo della tesi (pubblicata qualche anno fa dalla Meta edizioni) era, per la precisione, Rosa Luxemburg e il problema della rivoluzione in Occidente. La tesi è scritta di fretta, per nulla curata. Sabattini era allora stato eletto da poco segretario generale della Fiom bolognese, da tre anni lavorava alla Cgil, era stato impegnato nelle lotte studentesche come dirigente della Fgci. L’urgenza non stava però solo nella vita di Sabattini: stava anche nella scelta del tema, nella domanda che lo attraversava da capo a fondo, nel corpo a corpo con una problematica che per lui bruciava nella pratica quotidiana.
La prima metà della tesi si concentra sul dibattito sul “revisionismo” di fine Ottocento. Dalle controversie sul “testamento di Engels”, che pareva giustificare una tattica parlamentaristica e non violenta, alla provocazione “opportunistica” di Bernstein, alla replica “ortodossa” di Kautsky e Luxemburg. Per Sabattini le interpretazioni di Kautsky e Luxemburg coincidono solo all’apparenza, senza davvero mai incontrarsi. In Riforma sociale o rivoluzione? la Luxemburg ribatte punto per punto a Bernstein con argomenti più brillanti di quelli del “super-esperto”. La tendenza al crollo per il problema del realizzo del plusvalore è solo rimandata, ed anzi aggravata, dai fenomeni nuovi cui fa appello il revisionismo. La concentrazione del capitale in imprese sempre più grandi è una tendenza di lungo termine, che si realizza in un movimento ciclico che vede costantemente il rifiorire delle piccole imprese. Allo stesso modo, l’accumulazione del capitale tendenzialmente riunifica e rafforza il proletariato, il che non esclude le ondate di destrutturazione della classe operaia. La Luxemburg, contrariamente a Kautsky, andava oltre: vedeva la radice di classe del revisionismo (lo prendeva insomma sul serio), e si poneva il problema di una pratica diversa del partito (con un legame organico tra lotte immediate e presa del potere politico). Si muoveva però ancora in un orizzonte che condivideva sostanzialmente la visione “positivistica”, tra il naturalistico e il meccanicistico, del revisionismo e di tutta la Seconda Internazionale.
La tesi inizia a muoversi su un terreno meno esplorato nella sua seconda metà, che della Luxemburg mette a tema, da un lato, il pensiero politico, dall’altro, il rapporto tra lotte sindacali e lotte rivoluzionarie. Qui l’attualità preme. La prima questione rimanda Sabattini ad una rilettura del contrasto con Lenin dopo la crisi dello stalinismo, nell’incapacità dei partiti comunisti di uscire davvero da quell’eredità. Il secondo tema interroga il rapporto tra conflitto sindacale e dimensione politica, come si dava nel ciclo di lotte che viveva allora l’Italia. Sabattini coglie limpidamente due punti. Il primo, su cui ci siamo già soffermati, è che la Luxemburg non è affatto spontaneista: la sua è semmai una teoria dell’organizzazione alternativa a quella “blanquista” di Lenin, in quanto l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che deve unificare e cui deve dare sbocco politico, ed è sempre soggetta al controllo dal basso. Il secondo, cui pure abbiamo prestato attenzione, sta nella ripresa luxemburghiana della tesi di Marx secondo cui non è il salario ma il tasso di accumulazione la variabile indipendente. Sabattini non cade in nessuna ingenuità conflittualista, e accetta del tutto la posizione.
Rosa Luxemburg e il sindacato
Il rapporto di Rosa Luxemburg con il sindacato è il tema della tesi di Claudio Sabattini , presentata nel 1969-70. Il titolo della tesi (pubblicata qualche anno fa dalla Meta edizioni) era, per la precisione, Rosa Luxemburg e il problema della rivoluzione in Occidente. La tesi è scritta di fretta, per nulla curata. Sabattini era allora stato eletto da poco segretario generale della Fiom bolognese, da tre anni lavorava alla Cgil, era stato impegnato nelle lotte studentesche come dirigente della Fgci. L’urgenza non stava però solo nella vita di Sabattini: stava anche nella scelta del tema, nella domanda che lo attraversava da capo a fondo, nel corpo a corpo con una problematica che per lui bruciava nella pratica quotidiana.
La prima metà della tesi si concentra sul dibattito sul “revisionismo” di fine Ottocento. Dalle controversie sul “testamento di Engels”, che pareva giustificare una tattica parlamentaristica e non violenta, alla provocazione “opportunistica” di Bernstein, alla replica “ortodossa” di Kautsky e Luxemburg. Per Sabattini le interpretazioni di Kautsky e Luxemburg coincidono solo all’apparenza, senza davvero mai incontrarsi. In Riforma sociale o rivoluzione? la Luxemburg ribatte punto per punto a Bernstein con argomenti più brillanti di quelli del “super-esperto”. La tendenza al crollo per il problema del realizzo del plusvalore è solo rimandata, ed anzi aggravata, dai fenomeni nuovi cui fa appello il revisionismo. La concentrazione del capitale in imprese sempre più grandi è una tendenza di lungo termine, che si realizza in un movimento ciclico che vede costantemente il rifiorire delle piccole imprese. Allo stesso modo, l’accumulazione del capitale tendenzialmente riunifica e rafforza il proletariato, il che non esclude le ondate di destrutturazione della classe operaia. La Luxemburg, contrariamente a Kautsky, andava oltre: vedeva la radice di classe del revisionismo (lo prendeva insomma sul serio), e si poneva il problema di una pratica diversa del partito (con un legame organico tra lotte immediate e presa del potere politico). Si muoveva però ancora in un orizzonte che condivideva sostanzialmente la visione “positivistica”, tra il naturalistico e il meccanicistico, del revisionismo e di tutta la Seconda Internazionale.
La tesi inizia a muoversi su un terreno meno esplorato nella sua seconda metà, che della Luxemburg mette a tema, da un lato, il pensiero politico, dall’altro, il rapporto tra lotte sindacali e lotte rivoluzionarie. Qui l’attualità preme. La prima questione rimanda Sabattini ad una rilettura del contrasto con Lenin dopo la crisi dello stalinismo, nell’incapacità dei partiti comunisti di uscire davvero da quell’eredità. Il secondo tema interroga il rapporto tra conflitto sindacale e dimensione politica, come si dava nel ciclo di lotte che viveva allora l’Italia. Sabattini coglie limpidamente due punti. Il primo, su cui ci siamo già soffermati, è che la Luxemburg non è affatto spontaneista: la sua è semmai una teoria dell’organizzazione alternativa a quella “blanquista” di Lenin, in quanto l’avanguardia (centralizzata) non è separata dal movimento che deve unificare e cui deve dare sbocco politico, ed è sempre soggetta al controllo dal basso. Il secondo, cui pure abbiamo prestato attenzione, sta nella ripresa luxemburghiana della tesi di Marx secondo cui non è il salario ma il tasso di accumulazione la variabile indipendente. Sabattini non cade in nessuna ingenuità conflittualista, e accetta del tutto la posizione.
Ciò che fa comprensibilmente problema a Sabattini è altro, e su
questo conviene approfondire. Contro Bernstein, la Luxemburg traduce
quella tesi nell’idea che, se la lotta sindacale non fa altro che
realizzare la legge capitalistica del valore della forza-lavoro contro
l’impulso immediato del singolo capitalista, il suo ruolo è del tutto
impolitico se non per il contribuire a quella “pedagogia rivoluzionaria”
che rivela al proletariato i limiti del sistema. Contrariamente al
giudizio che ne aveva dato Lelio Basso, qui lotta per le riforme e lotta
rivoluzionaria, economia ed politica, sembrano irrimediabilmente
scisse. Ma le cose cambiano presto, secondo Sabattini. La svolta è la
polemica con Lenin sul partito e poi, come conseguenza della Rivoluzione
Russa del 1905, lo scritto Sciopero generale, partito e sindacati. Lo
sciopero di massa non è solo un mezzo, è “la forma di manifestazione
della lotta proletaria nella rivoluzione”. Il rapporto tra lotta
economica e lotta politica va nei due sensi: la coscienza è radicata
nell’essere sociale della classe, con cui pure non si identifica. In
quell’antagonismo si dà “una possibilità storica dell’autonomia, nella
prassi, della classe operaia nei confronti del capitale a partire dalla
fabbrica … a condizione di fare valere la sua ‘insubordinazione’ al
regime capitalistico di fabbrica, puntando sulla continua
autodeterminazione delle proprie condizioni.”
Non è chi non veda l’attualità inattuale di questo discorso. Almeno su tre punti. La rottura della tenaglia tra separatezza del partito coscienza esterna e autosufficienza immediata del movimento. La centralità della lotta del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti, essenziale, “l’autogoverno della classe come strumento non sostituibile del processo rivoluzionario”. In questo, per Sabattini (come fu, per un breve periodo, sia pure con articolazioni diverse, per il gruppo del manifesto), la Luxemburg ha ragione. In questo, i nostri giorni sembrano farsi lontani da quell’ispirazione. Nella stessa sinistra sociale e politico si separano, o viene negato il necessario momento riunificante di lotte frantumate. Il sostegno alle lotte del la- voro, o latita, o va a uno dei tanti momenti del conflitto. La democrazia dentro le organizzazioni politiche e sindacali, che sta nella verifica da parte dei rappresentati, non viene affermata quale condizione primaria e ineludibile nella pratica quotidiana.
Altri tempi, si dirà. Cosa può dirci, infatti, una tesi scritta nei momenti alti della lotta, ora che siamo in una epoca di sconfitta? Pure, nelle prime pagine Sabattini , in profonda sintonia con la Rosa Luxemburg che abbiamo riletto in queste pagine, ricorda che un punto importante di Marx è che “la sconfitta della lotta proletaria non è concepita come qualcosa da rinnegare, da nascondere, o che occorreva assolutamente evitare”. Non si tratta soltanto di affermare la necessità dei tentativi, ogni volta battuti, “per nuove avanzate teoriche o pratiche”, che rende per noi queste sconfitte spesso più preziose delle vittorie. Si tratta anche di comprendere l’epoca della sconfitta, e agire conseguentemente.
Non è chi non veda l’attualità inattuale di questo discorso. Almeno su tre punti. La rottura della tenaglia tra separatezza del partito coscienza esterna e autosufficienza immediata del movimento. La centralità della lotta del mondo del lavoro a partire dalle sue condizioni, per una ridefinizione generale del contesto sociale. Tra i due momenti, essenziale, “l’autogoverno della classe come strumento non sostituibile del processo rivoluzionario”. In questo, per Sabattini (come fu, per un breve periodo, sia pure con articolazioni diverse, per il gruppo del manifesto), la Luxemburg ha ragione. In questo, i nostri giorni sembrano farsi lontani da quell’ispirazione. Nella stessa sinistra sociale e politico si separano, o viene negato il necessario momento riunificante di lotte frantumate. Il sostegno alle lotte del la- voro, o latita, o va a uno dei tanti momenti del conflitto. La democrazia dentro le organizzazioni politiche e sindacali, che sta nella verifica da parte dei rappresentati, non viene affermata quale condizione primaria e ineludibile nella pratica quotidiana.
Altri tempi, si dirà. Cosa può dirci, infatti, una tesi scritta nei momenti alti della lotta, ora che siamo in una epoca di sconfitta? Pure, nelle prime pagine Sabattini , in profonda sintonia con la Rosa Luxemburg che abbiamo riletto in queste pagine, ricorda che un punto importante di Marx è che “la sconfitta della lotta proletaria non è concepita come qualcosa da rinnegare, da nascondere, o che occorreva assolutamente evitare”. Non si tratta soltanto di affermare la necessità dei tentativi, ogni volta battuti, “per nuove avanzate teoriche o pratiche”, che rende per noi queste sconfitte spesso più preziose delle vittorie. Si tratta anche di comprendere l’epoca della sconfitta, e agire conseguentemente.
C’è forse qui un paradosso, che la grande crisi scoppiata nel
2007-2008 (ma secondo me, innescata già nel 2000-2001) sta aiutando a
dissipare. La ‘globalizzazione’, la “finanziarizzazione”, il
“postfordismo”, il “pensiero unico” (tutti termini un po’ falsi, ai miei
occhi), non danno, in fondo, ragione a Bernstein contro la Luxemburg?
Non siamo appieno dentro una ‘centralizzazione senza concentrazione’? La
tendenza non è proprio la destrutturazione del mondo del lavoro,
disomogeneo e precarizzato, in unità produttive sempre più frantumate?
Pure, questo capitalismo tutto ci appare meno che capace di controllare
l’instabilità e la crisi che costantemente produce al suo interno. La
sua legge di movimento è l’attacco costante al salario e alle condizioni
del lavoro, in una scomposizione continua della classe, per impedirle
qualsiasi possibilità di autodeterminazione, di prassi autonoma. Se si
ragiona così, il soggetto sociale del conflitto non è un dato, ma va
costantemente ricostruito. Senza questa riunificazione, la risposta
della politica da parte di una sinistra degna di questo nome, che certo è
necessaria, non vedrà mai la luce. È di qui che si dovrebbe ripartire.
Le ragioni della Luxemburg (e di Claudio Sabattini) mi sembrano oggi più
vive che mai.
La misura delle cose
In conclusione, vorrei anch’io indulgere per un attimo alla tentazione di passare dalla Luxemburg rivoluzionaria alla Luxemburg donna.
In una lettera dal carcere del 2 maggio 1917 scrive:
La misura delle cose
In conclusione, vorrei anch’io indulgere per un attimo alla tentazione di passare dalla Luxemburg rivoluzionaria alla Luxemburg donna.
In una lettera dal carcere del 2 maggio 1917 scrive:
Interiormente,
mi sento molto più a mio agio in un piccolo tratto di giardino, come
qui, o in un campo, stesa sull’erba e circondata di calabroni, che in un
congresso del partito. A voi posso dire tutto ciò, voi non mi
sospetterete subito di aver tradito il socialismo. Voi lo sapete,
malgrado questo spero di morire al mio posto: in una battaglia di strada
o in un penitenziario. Ma nel mio intimo, io appartengo più agli
uccelli che ai miei “compagni”. E questo non perché solo nella natura,
come tanti politici che hanno fatto interiormente bancarotta, io trovo
un rifugio, un riposo. Al contrario, io trovo nella natura, come tra gli
uomini, tanta crudeltà, che ne soffro molto.
Ed ancora in un’altra lettera del 3 luglio 1900 al suo compagno di allora, Leo Jogiches, leggiamo queste frasi:
Noi,
tutti e due, internamente “viviamo” di continuo, cioè cambiamo,
cresciamo, perciò di continuo si crea una sproporzione, uno squilibrio,
una disarmonia di alcune parti dell’anima con le altre. Dunque bisogna
fare una continua revisione interna, ricostituire l’ordine e l’armonia.
C’è sempre qualche cosa da fare con se stessi, ma per non perdere mai la
misura delle cose, che consiste a mio avviso nell’utilità della vita
esteriore, l’atto positivo, l’attività creativa, in una parola per non
affondare nella consumazione e nella digestione spirituale, ci vuole il
controllo di un’altra persona, che ci sia vicina, che comprenda tutto,
ma che sia fuori da questo “io” che cerca l’armonia.
Forse mi sbaglio, ma vedo un nesso tra quanto scrive questa donna
innamorata e quanto pensa la marxista e la rivoluzionaria. Mi sembra che
la Rosa inattuale di cui ha scritto Rossana Rossanda nella sua
introduzione alla ristampa della biografia di Frölich, la Luxemburg che
parla al nostro bisogno di “unità della persona nella indolenzita trama
del dolore e della speranza, dell’intelligenza e dei sentimenti, dell’io
e del mondo, ricomposti”, sia la stessa Luxemburg che vuole superare la
separazione tra individuo e società. Che la donna che scrive “ho
bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per
sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma che in realtà
sono nata per stare a custodire le oche”, è la stessa persona che
preconizza nei suoi scritti scientifici la possibile fine di un mondo
costruito sul primato dell’economico.
Che, insomma, questa donna che sottopone l’“io” che cerca l’armonia
al rischio della relazione con l’altro da sé ed alla sfida del
cambiamento sia, fuori da ogni vuota retorica, la combattente che le sue
opere e la sua lotta ci hanno consegnato.
***
Note per una bibliografia
La frase, a cui alludeva il titolo di questo scritto nella sua prima pubblicazione, “l’essere umano deve essere come una candela che brucia dalle due parti” piaceva molto a Rosa Luxemburg, come ci ricorda nella sua importante biografia Paul Frölich (Rosa Luxemburg, pp. 296-318: ne esiste una traduzione della fine degli anni sessanta da La Nuova Italia, con presentazione di Marzio Vacatello, ristampata dalla Rizzoli nella Bur, con bella introduzione di Rossana Rossanda, nel gennaio 1987). Il nuovo titolo ricorda che quasi giusto cent’anni fa la Luxemburg scriveva, nel 1913, l’Accumulazione del capitale, e poi in prigione la sua risposta ai critici, intitolata appunto l’Anticritica. In questo arco di anno cade l’impegno contro la guerra, la rivoluzione tedesca e la drammatica morte per mano dei Freikorps sotto la copertura di Gustav Noske.
Le citazioni dalla Luxemburg riportate nel testo sono tratte per lo più dalle opere economiche, di cui diamo di seguito i riferimenti, e da Riforma sociale o rivoluzione?, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, Sciopero generale, partito e sindacati, dagli articoli su Rote Fahne, e dalle lettere. I suoi scritti politici sono tradotti in italiano nelle due fondamentali raccolte curate da Luciano Amodio (Scritti scelti, Einaudi, Torino, 1975) e Lelio Basso (Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970) . La prima è però certamente esaurita; la seconda, degli Editori Riuniti, non so.
Certo, la situazione non è brillante: anche se forse si intravede all’orizzonte la realizzazione, almeno in inglese, della giusta esortazione di Lenin, posta da Lelio Basso ad apoftegma della raccolta da lui curata: “la raccolta completa delle sue opere offrirà un insegnamento utilissimo per l’educazione di molte generazioni di comunisti di tutto il mondo”. L’editore londinese Verso ha infatti iniziato a pubblicare – iniziando molto opportunamente dagli scritti economici, i Complete Works of Rosa Luxemburg. Il primo volume, Economic Writings 1, a cura di Peter Hudis, usciti nel 2013 in hardback e nel 2014 in paperback, contiene per la prima volta la traduzione integrale in inglese della Introduction to Political Economy, come pure una nuova traduzione di The Industrial Development of Poland, ma anche una corposa sezione di scritti inediti (una decina, di recente ritrovamento), non poco illuminanti. Il secondo volume, Economic Writings 2, a cura di Peter Hudis e Riccardo Bellofiore (a cui si deve la introduzione), presenta una nuova traduzione della Accumulation of Capital, assieme alla Anti-Critique, per la prima volta insieme: le versioni esistenti, soprattutto la seconda, lasciavano non poco a desiderare.
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Note per una bibliografia
La frase, a cui alludeva il titolo di questo scritto nella sua prima pubblicazione, “l’essere umano deve essere come una candela che brucia dalle due parti” piaceva molto a Rosa Luxemburg, come ci ricorda nella sua importante biografia Paul Frölich (Rosa Luxemburg, pp. 296-318: ne esiste una traduzione della fine degli anni sessanta da La Nuova Italia, con presentazione di Marzio Vacatello, ristampata dalla Rizzoli nella Bur, con bella introduzione di Rossana Rossanda, nel gennaio 1987). Il nuovo titolo ricorda che quasi giusto cent’anni fa la Luxemburg scriveva, nel 1913, l’Accumulazione del capitale, e poi in prigione la sua risposta ai critici, intitolata appunto l’Anticritica. In questo arco di anno cade l’impegno contro la guerra, la rivoluzione tedesca e la drammatica morte per mano dei Freikorps sotto la copertura di Gustav Noske.
Le citazioni dalla Luxemburg riportate nel testo sono tratte per lo più dalle opere economiche, di cui diamo di seguito i riferimenti, e da Riforma sociale o rivoluzione?, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, Sciopero generale, partito e sindacati, dagli articoli su Rote Fahne, e dalle lettere. I suoi scritti politici sono tradotti in italiano nelle due fondamentali raccolte curate da Luciano Amodio (Scritti scelti, Einaudi, Torino, 1975) e Lelio Basso (Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970) . La prima è però certamente esaurita; la seconda, degli Editori Riuniti, non so.
Certo, la situazione non è brillante: anche se forse si intravede all’orizzonte la realizzazione, almeno in inglese, della giusta esortazione di Lenin, posta da Lelio Basso ad apoftegma della raccolta da lui curata: “la raccolta completa delle sue opere offrirà un insegnamento utilissimo per l’educazione di molte generazioni di comunisti di tutto il mondo”. L’editore londinese Verso ha infatti iniziato a pubblicare – iniziando molto opportunamente dagli scritti economici, i Complete Works of Rosa Luxemburg. Il primo volume, Economic Writings 1, a cura di Peter Hudis, usciti nel 2013 in hardback e nel 2014 in paperback, contiene per la prima volta la traduzione integrale in inglese della Introduction to Political Economy, come pure una nuova traduzione di The Industrial Development of Poland, ma anche una corposa sezione di scritti inediti (una decina, di recente ritrovamento), non poco illuminanti. Il secondo volume, Economic Writings 2, a cura di Peter Hudis e Riccardo Bellofiore (a cui si deve la introduzione), presenta una nuova traduzione della Accumulation of Capital, assieme alla Anti-Critique, per la prima volta insieme: le versioni esistenti, soprattutto la seconda, lasciavano non poco a desiderare.
In francese è in corso la pubblicazione delle Oeuvres Complètes di
Rosa Luxemburg – in realtà, opere complete “per quanto sarà possibile” –
da parte del col- lettivo d’edizione Smolny e dell’editore Agone. Sono
comparsi, in vari anni, i volumi I (Introduction à l’economie politique,
2009), II (A l’école du socialism, 2012) e III (Le Socialisme en
France, 2013); come anche La Brochure de Junius: la guerre et
l’International (1907-1916), nel 2014. Perché non pensare ad una tradu-
zione integrale delle opere e della corrispondenza, in italiano? Ci
provammo Massimiliano Tomba ed io anni fa ad attivare una raccolta di
fondi a questo scopo, senza molto successo.
Molte le raccolte di lettere, anch’esse però incomplete e
disorganiche (Lettere a Leo Jogiches, Feltrinelli, Milano, 1973; Lettere
ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971; Lettere 1893-1919, Editori
Riuniti, Roma, 1979). La più completa collezione è ancora una volta
quella di Verso,The Letters of Rosa Luxemburg, a cura di Georg Adler,
Peter Hudis e Annelies Laschitza, pubblicata nel 2012. Annelies
Laschitza è autrice della più importante biografia contemporanea, in
tedesco: Im Lebensrausch, trotz alledem. Rosa Luxemburg. Eine
Biographie, Aufbau Taschenbuch, Berlin 1996.
Per quanto riguarda le pubblicazioni in italiano, l’Accumulazione del
capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, e
Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica,
vennero pubblicati in volume unico da Einaudi, con introduzione di Paul
M. Sweezy (Torino, 1960, e successive riedizioni). L’ Introduzione
all’economia politica è stata tradotta dalla Jaca Book (Milano, 1971),
ed è fuori stampa.
Le critiche più significative alla Luxemburg sono quelle formulate da
N. Bukharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale (Laterza,
Bari, 1972) e P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico
(Boringhieri, Torino, 1970). Volano molto più alto Joan Robinson e
Michał Kalecki. Della prima si veda l’Introduzione alla prima traduzione
inglese edita da Routledge (1951): venne tradotta in italiano nel
volume curato da Lucio Colletti e Claudio Napoleoni, Il futuro del
capitalismo: crollo e sviluppo, Laterza, Roma-Bari, 1970. Per la ripresa
di temi luxemburghiani operata da Kalecki si vedano i saggi contenuti
in Sulla dinamica dell’economia capitalistica (Einaudi, Torino 1975): in
particolare “Il problema della domanda effettiva in Rosa Luxemburg e
Tugan Baranovski”, del 1967, e “Le equazioni marxiane della riproduzione
e l’economia moderna”, del 1968, comparso anche in Marx vi- vo, vol. 2,
Milano, Mondadori. Su tutte queste questioni merita ancora una lettura
Mariano D’Antonio, “Kalecki e il marxismo”, Studi Storici, XIX, n. 1,
gennaio- marzo, pp. 17-43.
Da Kalecki discende il volume fondamentale di Tadeusz Kowalik, Rosa
Lu- xemburg. Il pensiero economico, nella bella traduzione di Gabriele
Pastrello per gli Editori Riuniti. Avevo presentato la mia tesi su Rosa
Luxemburg con Claudio Na- poleoni nel dicembre 1976. Il libro di
Kowalik, che su molti punti seguiva una lettura simile, arrivò nelle
librerie giusto nel gennaio 1977 … Anche questo è un volume reperibile
solo nell’usato. Per fortuna ne esiste da poco una traduzione curata da
Riccardo Bellofiore, da Jan Toporowski (a cui si deve l’ottima
introduzione) e Hanna Szymborska (che ne ha approntato la traduzione)
per i tipi di Palgrave Macmillan, giunta nelle librerie nel dicembre
2014. Un’interpretazione della Luxemburg, dopo la tesi, l’avevo già
proposta in “Rosa Luxemburg e la teoria marxista della crisi”, in Note
Economiche, n. 1, 1980. Una rassegna degli sviluppi successivi alla
Luxemburg che partono dalle sue intuizioni sulla teoria del valore la si
ritrova nel mio “Marx dopo Schumpeter”, Note Economiche, n. 2, 1984. Un
tentativo di ricostruzione in positivo della teoria del valore lungo le
medesime linee lì accennate lo si può vedere nei miei “Per una teoria
monetaria del valore-lavoro”, in Valore e prezzi, a cura di Giorgio
Lunghini (Utet, Torino, 1993), e “Marx rivisitato: capitale, lavoro e
sfruttamento”, in Il terzo libro del Capitale di Karl Marx., Atti del
Convegno di Teramo, 10-11 Novembre 1994, a cura di Marco L. Guidi su
Trimestre, 1996, n. 1-2.
Come scrivo nel corpo dell’articolo, i lavori dedicati alla Luxemburg
nella veste di ‘economista’ sono stati molto pochi. Ma la situazione
negli ultimi anni è andata migliorando. Il primo esempio pè forse il
volume collettaneo da me curato, Rosa Luxemburg and the Critique of
Political Economy, uscito a stampa nel 2009 per Routledge, e frutto di
un convegno a Bergamo nel 2004. Contiene saggi di Meghnad Desai, Roberto
Veneziani, Andrew Trigg, Paul Zarembka, Jan Toporowski, Tadeusz
Kowalik, Joseph Halevi, Paul Mattick jr, He Ping, Michael R. Krätke,
Andrea Panaccione, Edoarda Masi. Il libro contiene due saggi miei: un
lungo saggio introduttivo (“Rosa Luxemburg on Capitalist Dynamics,
Distribution and Effective Demand Crisis”) e un capitolo (“The Monetary
Circuit of Capital in the Anti-Critique”).
Con Toporowski e Ewa Karwoski ho anche più recentemente curato due
volumi intitolati al lascito intellettuale di Tadeusz Kowalik, ancora
per la Routlegde nel 2013: The Legacy of Rosa Luxemburg, Oskar Lange and
Michał Kalecki; e Economic Crisis and Political Economy. I contributi
dedicati alla Luxemburg, concentrati nel primo volume, sono anche qui
numerosi e di valore, di: G.C. Harcourt e Peter Kreisler, Noemi
Levy-Orlik, Gabriele Pastrello, John Bellamy Foster, Roberto Lampa,
oltre ancora Paul Zarembka, e Andrew Trigg. Sempre in questo volume è
contenuto il mio “Luxemburg and Kalecki: The Actuality of Tadeusz
Kowalik’s Reading of the Accumulation of Capital”. Nel secondo volume è
contenuto Janusz J. Tomidajewicz, ‘The Accumulation of Capital’ of Rosa
Luxemburg, and Systemic and Structural Reasons for the Present Crisis, e
di nuovo un saggio di Paul Mattick jr. In italiano è di prossima uscita
il mio “Accumulazione del capitale, schemi di riproduzione e crisi
capitalistica: Marx tra Rosa Luxemburg e Michał Kalecki”, in Pagine
Inattuali, n. 6, 2015.
L’articolo di Margarethe von Trotta che citiamo in principio di
articolo è “Nu- vole e rivoluzione”, l’Unità, 15 gennaio 1989. I
riferimenti a Rossana Rossanda sono tratti da “Classe e partito”, uscito
sul manifesto rivista (n. 4, 1969, poi ripub- blicato come “Da Marx a
Marx” in Classe, consigli, partito, quaderno de il manife- sto , n. 2,
Alfani, 1974). La citazione da Edoarda Masi è presa da “La persona Rosa,
perché”, contenuto in Margarethe von Trotta, Rosa Luxemburg (Ubulibri,
Milano 1986) che presenta la sceneggiatura del film della regista
tedesca, e contiene anche un’importante introduzione di Rossana
Rossanda, dal titolo “Rosa, comunista polacca ebrea donna”. La tesi in
Filosofia a Bologna di Claudio Sabattini è stata pubblicata come Rosa
Luxemburg e i problemi della rivoluzione in Occidente, con una
prefazione di Gabriele Polo, da Metaedizioni.
La situazione non brillante delle traduzioni si ripete anche a
proposito della bi- bliografia secondaria sulla Luxemburg: non tradotto
è, per esempio, lo studio più importante sulla Luxemburg “politica”:
Norman Geras, The Legacy of Rosa Lu- xemburg (New Left Books, London,
1976). D’altronde, la stessa biografia di J.P. Nettl, Rosa Luxemburg
(Oxford University Press, London, 1966), che era stata tradotta da Il
Saggiatore, è da tempo introvabile. Sono apparsi negli ultimi anni, in
inglese, alcuni altri resoconti della vita della rivoluzionaria polacca,
nessuno tradotto in italiano (e nessuno, per la verità, di eccelsa
qualità). In italiano, si segnala il recente Dario Renzi-Anna Bisceglie,
Rosa Luxemburg, Prospettiva edizioni, Roma, 1997.
L’apoftegma iniziale è tratto dal compte rendu di una edizione delle
lettere dalla prigione di Rosa Luxemburg ad opera di Simone Weil,
raccolto nel primo volume degli Écrits historiques et politiques,
Gallimard, Paris, 1988. Una lettura parallela della Luxemburg e della
Weil, come anche di Hannah Arendt, è ora: Andrea Nye, Philosophia: The
thought of Rosa Luxemburg, Simone Weil and Hannah Arendt, Routledge,
London 1994. D’altronde, la stessa Arendt è autrice di uno splendido
saggio, “Rosa Luxemburg 1871-1919”, tradotto in italiano su Micromega,
n. 3/89, pp. 43-60. Lo scritto era in origine una recensione alla
biografia di Nettl ricordata più sopra, e fu poi raccolto in un volume
curiosamente intitolato Men in Dark Ti- mes, Harcourt Brace & New
World, New York. O forse non tanto curiosamente, se si ricorda questa
storia: insieme a Clara Zetkin, Rosa Luxemburg si trovò a cammi- nare
troppo vicino a esercitazioni militari di tiro; dopo, a casa di Kautsky,
alla pre- senza di molti dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca,
Bebel si provò scherzo- samente a immaginare l’iscrizione tombale per le
due ‘fucilate’; al che Rosa Luxemburg replicò dicendo che si sarebbe
dovuto semplicemente scrivere “qui giacciono gli ultimi due uomini della
socialdemocrazia tedesca”.
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