Le domande di un pastore
Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Leopardi
affida alla voce di un pastore nomade le grandi domande sul senso della
vita e dell’universo. Solo, sotto il cielo stellato, il pastore tenta
di spiegare la condizione umana, il ripetersi dell’esistenza di
generazione in generazione, il succedersi dei giorni e delle notti, il
susseguirsi delle stagioni; cerca di capire il perché del dolore e di
quell’inquietudine angosciosa definita dalle parole “tedio” e
“fastidio”, un’inquietudine che è infine tutt’uno proprio con il bisogno
di senso. La spiegazione è tentata dapprima guardando la vita dal
punto di vista della luna, dall’alto, e poi guardandola invece dal
punto di vista delle pecore, dal basso. Il punto di vista del pastore è
per così dire impregiudicato, e spregiudicato: non ci sono
un’ideologia, una religione, un sistema filosofico, una qualunque
petizione di principio che impongano una direzione alla ricerca:
l’importante è dare un significato alla condizione degli uomini e al
rapporto che gli umani hanno con l’universo. Ebbene: Leopardi pone
così, con un linguaggio semplice e diretto ma anche con la massima
serietà e radicalità, le più grandi questioni filosofiche affrontate
nei secoli da tutte le civiltà e tutte le culture.
La sua novità consiste però nella scelta di affidare domande tanto
significative, in uno dei testi più filosoficamente radicali dei Canti, alla voce di un pastore: una figura socialmente e antropologicamente lontanissima da quella del filosofo, il philosophe
parigino della tradizione settecentesca. È in apparenza sorprendente
che Leopardi, con la sua formazione illuministica, non affidi questo
tipo di riflessione a uno specialista della conoscenza, o assumendola su
di sé o delegando la propria voce a una figura come quelle di Parini,
di Bruto o di Saffo, scelte in altre circostanze analoghe. In questo
modo, Leopardi si rifiuta di delegare le grandi domande di senso a una
porzione specifica dell’umanità, e diciamo pure a un ceto sociale
ristretto, quello degli intellettuali. Leopardi sceglie di affidare
quelle domande a un pastore, la figura sociale più umile e meno
“civilizzata” che gli fosse possibile immaginare, e costruisce un alter ego
lontanissimo da sé: un nomade, noi diremmo un rom, e magari uno
zingaro. Si tratta di una rivoluzione concettuale e perfino politica:
senza avere una reggia o un castello o una villa, senza una biblioteca e
lontano da ogni accademia, questo umano che ha in qualche modo i
tratti del primitivo riceve un mandato pieno a rappresentare il punto
di vista dell’umanità di fronte alle grandi questioni di senso. Viene
in questo modo implicitamente rivendicata la maggiore conquista del
pensiero moderno, la concezione unitaria del genere umano: ciò di cui
noi parliamo quando facciamo riferimento all’idea stessa
dell’universale umano.
Un'umanità nuova
Questa scelta così sorprendente e coraggiosa è resa possibile non
certo dalla recente tradizione arcadica e dal favoleggiamento del mondo
pastorale che la caratterizza: lì non si tratta di affrontare le grandi
questioni di senso, ma semmai di scostarle o sospenderle. Questa
scelta è piuttosto resa possibile dal progetto leopardiano di
un’umanità nuova, quale si va disegnando, ora per via negativa ora
anche in modo affermativo come nella Ginestra; un’umanità nuova
nella quale il diritto di porre le più alte domande di senso sia
riconosciuto ad ogni singolo individuo. Leopardi vagheggia un’umanità
liberata da ogni forma di delega intellettuale, non più divisa fra
quanti hanno il diritto di porre le domande filosofiche e coloro, molto
più numerosi, che hanno al massimo il diritto di accoglierle; e
immagina un «onesto e retto conversar cittadino», cioè un dialogo fra
gli umani che può essere costruito soltanto a partire dal diritto di
ogni singolo individuo, foss’anche il pastore nomade e analfabeta della
lontanissima e favolosa Asia, di porre le più alte domande di senso.
La modernità come Leopardi la immagina dovrebbe essere insomma la
possibilità per tutti di ereditare il gesto audace del titano
preromantico, così che l'uomo comune possa infine coincidere con l'eroe
alfieriano salito sulle scene per far guerra ai tiranni. La modernità
come Leopardi la immagina dovrebbe essere quella in cui tutta l'umanità
diviene erede del grande pensiero dell'Illuminismo, e anzi di tutta la
maggiore tradizione filosofica, così che depositario del sapere non
sia un ceto separato e speciale ma l’umanità nel suo insieme.
L’originalità dei romantici, l’unicità del sublime gesto creativo del
genio, è sostituito da un sapere che coinvolga tutti: non il sapere
diffuso e diviso della civiltà di massa, contro la quale Leopardi non
manca di appuntare i suoi strali, ma un sapere vero che ricongiunga ciò
che l’umanità conosce per mezzo della propria condizione materiale, e
che potremmo definire in termini di folclore nel senso altamente
gramsciano, e le acquisizioni utili, cioè filosoficamente fondate,
prodotte dal ceto intellettuale.
Il controdiscorso della scuola pubblica e di massa
Questo è stato e, vorrei dire, è ancora il progetto della scuola
pubblica, cioè della scuola moderna, della scuola di massa. Ci siamo
colpevolmente abituati a considerare l'aggettivo “pubblico” e la
definizione “di massa” in senso riduttivo e perfino dispregiativo,
stabilendo un’equazione fra ciò che è pubblico e ciò che è inefficiente e
attribuendo alla massificazione un connotato solamente peggiorativo,
così che la scuola pubblica di massa rischia di sembrarci tout court
una scuola che non funziona. E invece la scuola pubblica di massa
costituisce una delle poche ragioni di orgoglio che la modernità possa
vantare, e uno dei suoi pochi successi indiscutibili, benché parziali e
purtroppo precari. La modernità, come sappiamo bene, è stata
attraversata da contraddizioni e mostruosità inaudite, fino alle guerre
mondiali, ai campi di sterminio e alla bomba atomica; ma ha svolto
anche un suo «controdiscorso» (come lo chiama Habermas), cioè ha
tentato anche un progetto di liberazione audace e inedito. La scuola
pubblica di massa costituisce uno dei tratti più alti di questo
controdiscorso, una delle sue eredità meno discutibili, come d’altra
parte la sanità e la giustizia pubbliche e di massa. Non saprei proprio
immaginare una rinuncia a questo progetto che non costituisca per il
genere umano un regresso secco e grave. Chiunque manchi di impegnarsi
perché la scuola (e l’università), la giustizia e il sistema sanitario
pubblici e di massa funzionino meglio, e in nome delle loro
manchevolezze a volte anche gravi si creda legittimato a ridurne lo
spazio, non lavora per il bene dell’umanità e per il suo “progresso”
reale ma per interessi diversi, di individui singoli magari, ma non
certo dell’universale umano e dell’universalità degli umani.
Diventare cittadini
Al di là di ovvie contraddizioni che non è il caso qui di rievocare,
la stagione storica che segue la rivoluzione industriale e vede la
nascita delle società moderne tenta una trasformazione epocale che si
può riassumere in questa formula: far sì che gli abitanti d'Europa
provenienti dall'ancien régime smettano di essere sudditi e
divengano cittadini. È il progetto dei rivoluzionari di Francia e dei
riformisti d’Inghilterra; un progetto del quale Napoleone si mostra a
suo modo erede ed esecutore nel momento in cui – sia pure con la forza
delle armi, con la ferocia dell’occupazione nazionalista e con la
sgradevolezza dell’autoritarismo imperiale – costruisce e diffonde in
Europa un moderno sistema giudiziario e, non meno significativo, un
sistema scolastico capillare e pubblico. La scuola è il modo più diretto
ed efficace di trasformare i sudditi in cittadini, cioè di fare di
ogni individuo ciò che Leopardi fa del suo pastore errante. Sono gli
anni in cui nasce fra l’altro l'opinione pubblica, con il
riconoscimento da parte del senso comune di un diritto universale a
pronunciarsi sui vari argomenti anche da parte dei non specialisti.
L'opinione pubblica è quel libero foro delle idee, come lo chiama
l'illuminista napoletano Filangieri, di fronte al quale ogni tesi e
ogni punto di vista devono essere sostenuti e dimostrati.
Il progetto indebolito della scuola
Certo, il diffondersi dei mass media e di innumerevoli mezzi di
persuasione più o meno occulta ha indebolito e corrotto il progetto
teorico della scuola di massa e le prerogative dell’opinione pubblica.
Ma resta – quale controdiscorso incompiuto e perfino in pericolo –
questa tendenza fondamentale di fare della scuola pubblica il luogo nel
quale tutti gli individui acquistano il diritto di porre le domande del
pastore errante di Leopardi, nel quale tutti si conquistano il diritto
di tentare le risposte un tempo riservate ai sacerdoti, ai re o ai philosophes
di Parigi: un'eredità preziosa da non abbandonare per cinismo o per
scoraggiamento, pena ammettere il tramonto di una significativa porzione
di quel controdiscorso e collaborare al trionfo di una prospettiva
elitaria di esclusione, cioè della più barbarica logica proprietaria.
Scuola “larga”, democrazia “larga”
In Italia la realizzazione del modello di scuola pubblica di massa è
avvenuta per gradi, e dall'Unità in poi ci sono stati progressivi
allargamenti della scolarità pubblica, con le varie leggi Coppino,
Casati, Gentile, ecc. Neppure il fascismo ha arrestato questo movimento,
riconducendolo semmai a criteri di classe, distinguendo il più
nettamente e precocemente possibile i diversi scolarizzati fra un
destino di dirigenti e uno di subalterni: da una parte il liceo,
dall’altra le scuole professionali. In generale, risulta evidente come
l’allargamento della scuola pubblica viaggi di pari passi con
l’allargamento della democrazia e degli stessi più elementari diritti
politici, come quello del voto: se negli anni che seguono la
proclamazione del Regno d’Italia la scuola è ancora un’istituzione
d’élite, ecco che la partecipazione al voto riguarda a sua volta poche
centinaia di migliaia di persone; così come la crescita successiva del
numero degli scolarizzati coincide con quella degli ammessi ai diritti
politici. Si tratta di superare, non senza molte resistenze e qualche
ritorno indietro, le discriminazioni censitarie e di genere. È solamente
nel 1946, per il referendum costituzionale, che la partecipazione alle
urne è infine aperta universalmente a prescindere dal sesso e dalla
ricchezza (e dal possesso di un certo grado di alfabetizzazione: un
altro vincolo talvolta imposto, e, non serve dirlo, per lo più
tristemente coincidente con quello del censo).
Gli anni Sessanta e il modello democratico
Non è sbagliato tuttavia affermare che la scuola moderna di massa
arriva ad affermarsi davvero in Italia solamente nel corso degli anni
Sessanta del Novecento, con l’introduzione dell’obbligo scolastico e con
il processo di democratizzazione antiautoritaria indotto dalle
convergenti contestazioni della Scuola di Barbiana (e di don Milani) e
del movimento studentesco del Sessantotto. L’obbligo scolastico ha a che
fare con la delicata dialettica fra diritti e doveri che permea le
democrazie partecipative moderne, e all’interno della quale rientra
anche la partecipazione al voto politico quale diritto-dovere del
cittadino. Nello specifico, l'idea che tutti debbano andare a scuola per
acquisire i diritti e i doveri del cittadino sottintende che fra i
doveri del cittadino vi sia quello di essere informato, di possedere un
certo livello di cultura e una adeguata capacità critica; cioè, anche,
di condividere con i connazionali un sapere comune.
In questa prospettiva si confrontano due modelli di scuola pubblica
di massa. Il primo modello, che possiamo genericamente chiamare
democratico, è quello di De Sanctis, di Calamandrei, di don Milani e di
molti altri, e vede nella scuola il luogo in cui i bambini e gli
adolescenti diventano liberi cittadini. Secondo questo modello la scuola
non serve a preparare al mondo del lavoro, non serve, o serve solo
secondariamente, a imparare un mestiere, ma serve ad avere idee
personali, a conquistare le facoltà intellettuali per elaborare un
pensiero proprio, per prendere posizione sulle grandi questioni, anche
politiche, per partecipare attivamente alla vita collettiva, così come
la nostra Costituzione chiede ai cittadini quando, nel primo articolo,
dichiara che «la sovranità appartiene al popolo». Ora, quale sovranità
potrebbe mai essere quella che appartiene a un popolo di ignoranti, di
cittadini dotati del potere teorico di scegliere ma non della capacità
di gestirlo? L'articolo 34, che esplicita la natura pubblica della
scuola, deriva dunque intimamente dall'articolo 1: se la sovranità
appartiene al popolo, allora il popolo deve possedere la capacità di
esercitarla. Il modello della scuola moderna, di massa e dunque per
tutti, è un modello di scuola che risponde a questi presupposti. Il fine
della scuola è quello di consegnare davvero a tutti il sapere, il
sapere critico, con una cultura varia e non specialistica; e di
consegnare dunque la capacità di esercitare il potere e di controllarlo.
Lo scopo della scuola moderna, cioè pubblica e di massa, è di essere
cittadini e non sudditi: in nessun modo e in nessuna forma.
Questo modello di scuola, che ho chiamato sinteticamente democratico,
appare vincente negli anni Sessanta del Novecento, quando un vasto
movimento che abbraccia le richieste di don Milani e quelle della
contestazione studentesca condivide un’idea di scuola che miri alla
liberazione delle capacità intellettuali di tutti e al superamento delle
diseguaglianze sociali. È una prospettiva che diviene egemone, che
detta il calendario delle riforme e modifica capillarmente la vita
interna dell’istituzione scolastica e delle classi, diffondendo pratiche
virtuose, come per esempio il sostegno agli studenti in difficoltà, e
modalità di coinvolgimento democratico nella gestione della scuola
(come avviene con i cosiddetti Decreti delegati).
Il modello economico: dall'unità al dominio del presente
Accanto a questo progetto democratico di scuola come luogo di
formazione del cittadino e dunque del sapere critico, non è mai venuto
meno un modello assai diverso, portato a vedere nella scuola uno
strumento del mercato, e dunque un’anticamera del lavoro. Questa
concezione implica la rivendicazione di un legame con il mondo delle
imprese, spesso inteso quale subalternità dei percorsi didattici alle
esigenze del mondo del lavoro. Relegato nei gradi più bassi
dell’istruzione nei modelli postunitari e poi nella struttura scolastica
voluta da Gentile durante il fascismo, e sconfitto negli anni
Sessanta, questo modello ha ripreso vigore nel corso degli anni
Ottanta, divenendo a poco a poco quello dominante, fino agli esiti
letali del berlusconismo fra gli anni Novanta del Novecento e questa
prima parte del nuovo secolo. Questo nuovo modello, tristemente
condiviso in modo trasversale dalle forze politiche, come è
caratteristico del berlusconismo, ha puntato sull’autonomizzazione
economica delle scuole, cioè sul disinvestimento pubblico di risorse;
ha puntato sull’efficienza economica, cioè sulla rinuncia a spendere
per fare della scuola la sede di un riequilibrio sociale; ha
valorizzato in ogni modo i principi oggettivi della valutazione,
verificando e non combattendo la disparità fra gli eguali, facendo cioè
ricadere sulle vittime delle inadempienze sociali il peso della
disparità anziché farsene carico, come intendeva fare la scuola
democratica; ha costruito un asfittico codice culturale fatto di
crediti, debiti, offerta formativa, mirando non più alla preparazione
del cittadino ma alla creazione di forza lavoro adeguata al mercato,
secondo una prospettiva tanto più assurda e perfino irridente negli
anni della disoccupazione giovanile dilagante.
L'io-massa produttore e consumatore
In questa idea di scuola che prepara alla professione si rivela un
aspetto non secondario del progetto alternativo a quello della scuola di
massa, un progetto tipico del neocapitalismo, cioè del capitalismo
riorganizzato secondo principi neoliberisti a partire dagli anni
Settanta in Gran Bretagna con la Teatcher e negli Stati Uniti con
Reagan; un progetto divenuto colpevolmente egemone anche in Italia
perfino tra le forze politiche eredi della tradizione democratica: la
concezione dell'io quale io-massa, non certo capace dell’«onesto e retto
conversar cittadino» del pastore leopardiano e delle sue domande
universali, ma al dunque in grado di fare due cose soltanto, produrre e
consumare. Perfino la scuola viene chiamata e valutata sulla base di
questa capacità di contribuire alla creazione di un io-massa capace solo
di produrre e consumare (anche per mezzo del divertimento, che è il
modo più tipico del consumo nelle società neocapitalistiche). Alla
scuola si chiede di formare forza lavoro, e alle discipline strategiche
per la formazione del cittadino (la storia, la filosofia, la
letteratura) resta al massimo la funzione di educare alla fruizione
della bellezza, possibilmente mediata dalla televisione e dall’universo
digitale. Non a caso nei nuovi programmi varati durante il ministero
Gelmini si chiede al docente d’italiano di insegnare agli studenti, fra
le altre cose, l’uso dei prodotti multimediali e perfino le modalità
della loro costruzione.
Il modello di umanità che si esprime da questa logica aggiorna il
concetto gramsciano di «gorilla ammaestrato», e contribuisce alla
«colonizzazione dell’inconscio» della quale ha parlato lo statunitense
Fredric Jameson, il maggiore studioso della cultura postmoderna. Non è
un caso che, più di recente, lo psicoanalista Massimo Recalcati abbia
espresso il timore che si vada profilando un uomo nuovo, «senza
inconscio». Temevamo, sulla scorta anche della fantascienza, che i
mutanti a venire avessero un corpo e un volto irriconoscibili. E invece
irriconoscibile rischia di diventare la vita interiore dei soggetti.
La scuola, la lentezza, la profondità
Mentre vediamo bene quanto vada restringendosi lo spazio
dell’interiorità, ci auguravamo che la scuola costituisse una resistenza
a questo processo, una controforza capace di rallentarlo e magari di
impedirlo. A scuola gli studenti sono costretti a un’esperienza di
straniamento: sottratti al dominio tecnologico della realtà multimediale
e digitale, privati per alcune ore di tv, cellulare, I-pad, play
station, pc e tablet, sono chiamati a un rallentamento della conoscenza,
passando dalla velocità e superficialità che caratterizza il mondo
esterno (il «sublime isterico» di cui ha parlato Jameson) alla lentezza e
magari alla profondità di questa oasi di antico, dove sembra dilagare
dispettosamente l’assunto di Nietzsche che vede nella lentezza della
lettura ciò che qualifica il buon lettore. Ci auguravamo che la scuola
resistesse a testimoniare questa dimensione, con i suoi libri di carta e
i suoi banchi, imponendo per la lettura dell’Infinito di
Leopardi o per la riflessione sulle leggi della termodinamica lo stesso
tempo che fuori consente di chattare con tre amici su Facebook,
prenotare un viaggio aereo, leggere due quotidiani e risolvere un
solitario. Ci auguravamo che non smettessimo di imparare l’uso delle
gambe solo perché esistono mezzi tecnici di trasporto meno faticosi e
più veloci. Non perché la velocità e la superficialità non abbiano i
loro vantaggi, ma perché la perdita della lentezza e della profondità (e
della complessità) comporta la rinuncia a una porzione importante di
civiltà che ha costituito per secoli la base della nostra identità di
specie, così che se non altro la prudenza ne suggerisce la tutela.
L'omologazione integrale
E invece questa speranza si sta rivelando infondata. Non perché la
scuola si incontra con il mondo multimediale e digitale, come è
inevitabile e produttivo, ma perché rischia di esserle rapidamente
imposto, con un autoritarismo pedagogico inaudito, di cedere a quel
mondo e di conformarsi alle sue leggi. È quanto il ministro Profumo e i
suoi esperti sembrano destinarle, dichiarando l’obiettivo, paradossale
per la funzione pubblica che rivestono, di togliere dalle mani degli
studenti i libri e di metterci i tablet; ignorando l’allarme lanciato da
molti sui danni derivanti dall’eccessiva esposizione degli adolescenti
agli strumenti digitali: incapacità di concentrazione, insonnia,
fragilità emotiva, ecc. Mentre molti studiosi parlano autorevolmente di
una dipendenza paragonabile alle tossicodipendenze, al ministero della
Pubblica Istruzione si punta alla sostituzione dei libri di carta con i
tablet. La rivoluzione passiva imposta alla scuola da vent’anni di
governi dissennati, e che pareva aver trovato con Maria Stella Gelmini
il suo compimento ultimo, minaccia di fare un altro diabolico passo
verso l’irreparabile, cioè verso l’omologazione integrale dell’universo
scolastico al mondo che lo circonda.
La rivoluzione passiva
La rivoluzione passiva che ha colpito la scuola è la stessa che ha
coinvolto altri pilastri della società moderna, a partire dal sistema
sanitario: la subordinazione di ogni altra finalità a quella economica.
Un principio di fatto condiviso, sia pure secondo declinazioni
significativamente diverse, da tutti gli orientamenti politici che
abbiano avuto, non solo in Italia, responsabilità di governo.
L’autonomia delle scuole (e delle università), cioè l’autonomia
economica, è stata affiancata a una ridefinizione dei loro obiettivi già
linguisticamente piegata all’egemonia del mercato: “offerta
formativa”, “debiti”, “crediti”. Il linguaggio del mercato è entrato
nel sistema formativo e ha imposto le sue leggi, scoprendo la fragilità
del grande progetto democratico della scuola pubblica di massa: serve
davvero tutta questa formazione quando il 90% degli studenti farà un
lavoro che potrà al dunque imparare in una settimana o in un mese? Di
qui – comunque li si voglia leggere e giustificare – i disinvestimenti
di denaro pubblico sulla formazione, accompagnati dall’ipocrita pretesa
dell’efficienza e della meritocrazia. Di qui l’attacco sistematico, e
vincente, al prestigio innanzitutto simbolico dei docenti, costretti a
misurarsi con una delegittimazione sociale della quale la
subordinazione a criteri manageriali e la scarsa retribuzione è solo la
punta di un iceberg. Di qui la precarizzazione del lavoro anche e
soprattutto nella scuola e nell’università, a testimoniare in modo
incontrovertibile la marginalità di queste istituzioni e aggredire il
valore della cultura.
I calcoli grossolani
Deve fra l’altro essere osservato che anche accogliendo la logica
economica quale unico parametro del valore, con quella perfetta
riduzione del valore d’uso al valore di scambio che Marx aveva
ipotizzato quale trionfo della barbarie, la pretesa di valutare sul
breve periodo il “ritorno” economico degli investimenti in formazione è
un errore grossolano. Un investimento in questo campo impiega per sua
natura decenni e perfino secoli a rivelarsi produttivo, come il
prestigio e il vantaggio anche economico concessi al nostro paese dal
suo Rinascimento stanno a testimoniare in modo evidente. E se proprio si
dovesse invocare in una battuta il tipo di logica economica della
quale la scuola ha bisogno per migliorare, allora dovremmo ragionare
sui vantaggi di un raddoppio immediato degli stipendi dei docenti (e
non certo del già insostenibile orario di lavoro, che solo un ministro
disinformato può confondere con l’orario-cattedra): il raddoppio dello
stipendio attirerebbe forza lavoro motivata e brillante, e non solo
residuale o spinta da valori personali, cioè da disponibilità al
volontariato. E non si dica che la crisi impedisce questo investimento,
se risorse ben maggiori sono state indirizzate a vantaggio di un ceto
improduttivo e parassitario del quale il “sistema Bertolaso” ha
costituito solo l’organizzazione più audace, ricevendo negli anni
dell’ultimo governo Berlusconi la gestione di oltre dieci miliardi,
mentre alla scuola e all’università ne venivano tagliati otto…
L'anticultura, la fame, la calunnia
Il progetto anticulturale che affama la scuola e l’università, che
delegittima il lavoro degli insegnanti, che calunnia il valore formativo
dell’editoria scolastica, sostenuto passivamente da tutti gli organi
di informazione e diventato dunque senso comune, costituisce una
porzione della mancanza di futuro che ha colpito i giovani, oltre che
una ragione della crisi economica in atto. E anche in questa
prospettiva non sarà ozioso chiedersi quale futuro aspetta chi oggi ha
vent’anni o meno. Con ogni probabilità sarà un lavoratore precario
sottopagato; non avrà la pensione o ne avrà una solo per sopravvivere;
non potrà mandare i figli all’università. Quando questa miope logica
economica avrà compiuto un altro passo, e gli investimenti pubblici
sulla formazione saranno conseguentemente ridotti ancora, i 50.000 euro
che servono a portare alla laurea magistrale uno studente (la cui
famiglia contribuisce oggi per meno di 10.000) diventeranno infatti un
problema, come è già in Gran Bretagna e negli Usa.
L'articolo 34 e noi
Se vogliamo opporci a questo disastro, dobbiamo prendere alla lettera
l’articolo 34 della nostra Costituzione: «La scuola è aperta a tutti»
deve voler dire che non dobbiamo rinunciare a sostenere la scuola
pubblica di massa. L'aggettivo più odioso tra quelli che circolano in
questi anni è “esclusivo”, il più frequente nella pubblicità di
prodotti, anche di massa: pare dunque irresistibile l’attrazione verso
felicità e beni dai quali altri sono esclusi. Dobbiamo fare in modo che
almeno la scuola segua un destino diverso, che non escluda nessuno, che
non sia un bene “esclusivo”. La scuola e l’università. Abbiamo la
ricchezza per farlo; non deve mancarcene la volontà.
Difendere la scuola pubblica di massa oggi vuol dire resistere al
progetto barbarico del neoliberismo e riprendere il controdiscorso della
modernità, sia pure con i suoi limiti e le sue contraddizioni; non
solo per dare al mercato i suoi lavoratori e i suoi consumatori
silenziosi, ma per dare ancora a tutti il diritto di fare alla luna le
domande del pastore leopardiano.
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