giovedì 1 novembre 2012

Grillo e la domanda di politica di Alfio Mastropaolo, Il Manifesto

È davvero sciocco scandalizzarsi per com'è andato il voto siciliano, come lo è cantare vittoria. È un voto tutt'altro che oscuro, anzi i siciliani hanno parlato forte e chiaro. In uno scenario di crisi drammatica della più grande impresa locale, che è la regione, c'è davvero da stupirsi se 6 elettori su 10 non sono andati a votare? Grazie alla regione campa più di mezza Sicilia. Nulla di male se la regione offrisse dignitosi servizi pubblici e stimolasse lo sviluppo. Invece, la regione è una greppia indecente, in cui sguazza un mediocrissimo ceto politico, che la politica nazionale ha sempre sostenuto.
La sinistra perché non sapeva cosa fare e da tempo si sente inesorabilmente minoritaria, la destra perché gli assicurava un bel gruzzolo di voti.
A convogliare voti verso destra era il tribalismo elettorale. Nella sua ultima variante, tra mefitici odori di mafiosità, il tribalismo si era dato il volto di Raffaele Lombardo, già vedette locale dell'Udc di Casini. Nel 2006 il suddetto aveva corso alle politiche sotto le insegne del Mpa, movimento sicilianista da lui inventato, nonché in solido - ma guarda! - con la Lega Nord. Nel 2008, sostenuto da Fini e Berlusconi, Lombardo è stato eletto presidente della regione, per dissociarsi alfine dai suoi padrini e allestire un indigeribile pasticcio di governo appoggiato dal Pd. Alla fine, mentre le finanze regionali, sballottate dalla crisi finanziaria, precipitavano verso il disastro, Lombardo s'è arreso e sono state convocate nuove elezioni.
Senonché, stavolta la destra s'è spaccata. Un pezzo con Musumeci, un pezzo con Micciché, con cui si è messo in società pure Lombardo. Né è mancata la spaccatura della sinistra. Quella parte che aveva sostenuto Lombardo ha sostenuto Crocetta, un'altra si è schierata con Fava. Data la dislocazione delle forze in campo, era noto in partenza che chiunque avesse vinto non avrebbe avuto la maggioranza in consiglio: con una prospettiva dei soliti intrallazzi sotto banco cui la seconda repubblica ci ha abituati.
Che l'astensione sia salita dal già elevato 44 per cento al 66 è molto ovvio. E si capisce pure come una parte cospicua di elettori abbia dato retta a Grillo. Che ha se non altro offerto un po' di facce nuove, che promettono di creare parecchi fastidi all'assemblea regionale agli altri partiti. È già qualcosa.
Con l'etichetta di populismo si è giocato abbastanza. Adesso è diventata pericolosa. Grillo non è un populista. È uno che ha visto una nicchia vuota di mercato e ci si è ficcato. Per professione usa le parole, sa qual è il valore dei media e profitta delle altrui debolezze. È vero, non ha un programma, tranne qualche banalità intorno all'euro e fare piazza pulita della politica convenzionale. Ma al momento non ha possibilità di governare. È allo stadio in cui era la Lega agli esordi: pura protesta. È generico, come lo era Berlusconi nel 1994. Ma è stupido rimproverarglielo e non porta a nulla. Piuttosto: se Grillo seguita a vincere, come capitò alla Lega, un programma lo troverà e pure qualche compagno di strada culturalmente attrezzato. I carri dei vincitori sono sempre attraenti.
Quello di Grillo non è populismo, ma è un'altra versione del personalismo da cui la politica italiana è afflitta da troppo tempo. I politologi hanno raccontato che la politica postmoderna, post-ideologica e post-classista è fatta di leader incoronati dagli elettori e i partiti gli sono andati appresso. Improvvisati in ragione del loro appeal mediatico, i leader odierni non hanno solidi partiti alle spalle e dunque restano imprigionati dai poteri forti. In Italia la politica ha pure fatto scempio dello Stato e della pubblica amministrazione e forse per questo stiamo peggio di altri. È capitato così che uno si è fatto incoronare leader e poi ha usato la sua posizione per fare i suoi interessi personali, portandoci al disastro economico e a uno spaventoso degrado della vita pubblica.
Sul voto siciliano farebbero dunque bene a ragionare quelli del Pd, che contano di vincere le prossime politiche e che intanto hanno fortunosamente arraffato la presidenza della regione, grazie alle disgrazie altrui, e che paiono aver dimenticato le loro. Vincere è meglio di perdere, ma, anziché dividersi sull'alleanza con Casini o con Vendola, dovrebbero meditare sul fatto che l'astensione non li ha risparmiati, che sono scesi in quattro anni dal 19 al 12 per cento per centro e che hanno ottime probabilità di vedersi addossare il default finanziario della regione. Vedremo cosa combina Crocetta.
Gli italiani sono allo stremo. La disoccupazione è alle stelle, i consumi ristagnano, la fiscalità è esosa come non mai, i risparmi delle famiglie si assottigliano. Per contrastare l'astensione e quello che si chiama populismo bisognerebbe coinvolgere attivamente gli italiani in una grande disegno di rinascita. Non tramite liturgie democratiche fittizie e personalistiche come le primarie. Ma anzitutto tramite il lavoro, che, lo ricorda la costituzione nel suo primo articolo, è la forma principe d'inclusione sociale e democratica. E se provassimo a alimentarlo tramite un impiego più accorto delle risorse pubbliche - altro che spending review selvaggia - ricavandole, oltre che dalla riduzione dei privilegi della politica, dalla rinuncia alle megaopere rinviabili e alle spese militari superflue, o dal taglio di maxistipendi pubblici e maxipensioni?

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