lunedì 26 novembre 2012

La truffa dell'accordo di produttività di Leonardo Caponi

Bisogna spiegare bene la truffa (per i lavoratori) dell’accordo sulla produttività poiché altrimenti, in questa situazione di incultura e regressione politica e sindacale dilagante, può sembrare giusta e moderna l’idea che “chi lavora di più e contribuisce di più allo sviluppo della propria azienda, guadagna anche di più”. Cosa che, detta così, non fa una piega, ma che inquadrata, come si dice, nel contesto generale, tradisce i caratteri di un grande inganno. Dirigenti della CGIL, che (per ora e speriamo anche in seguito) non ha firmato l’accordo e dei partiti di sinistra hanno replicato con  dichiarazioni giustissime, ma sintetiche (o così sono state presentate), che, senza un ulteriore sviluppo dei temi che propongono, potrebbero risultare inefficaci a svelare il nuovo pesante regresso che viene imposto alla civiltà del lavoro e alla condizione dei lavoratori.
 
   Sono chiamate in causa questioni di principio e, per così dire, le loro applicazioni pratiche. Per quanto riguarda le prime, l’accordo sulla produttività costituisce una nuova pietra tombale della grande stagione contrattuale che, a partire dalla fine degli anni’60, ha segnato in Italia un generale avanzamento della condizione e dei diritti dei lavoratori che fu (bisogna sempre ricordarlo) motore dei più alti indici di sviluppo dell’economia mai registrati. Il principio base della politica sindacale era a “uguale lavoro, uguale salario”, con l’idea che unificare i lavoratori di ogni categoria in un fronte coeso e compatto potesse costituire la massa critica atta a contrastare lo strapotere padronale e a garantire, collettivamente e per ciascuno, miglioramenti salariali e normativi altrimenti irraggiungibili.
   Quella idea era profondamente giusta. Non è un caso che oggi è essa ad essere rovesciata. Alla contrattazione collettiva e nazionale si sostituisce quella aziendale e individuale e questo (che è l’obiettivo del governo e degli imprenditori) indebolirà la capacità contrattuale dei lavoratori, sia in gruppo che singoli. Essi saranno più deboli e, di conseguenza, la loro condizione, che dipende dai rapporti di forza, non dalle regalie del padrone o dalle fasi di sviluppo, sempre o spesso contingenti, di una impresa, sarà peggiore. Del resto, in realtà, la possibilità di accordi aziendali per aumenti salariali collegati ad aumenti di produttività sono già consentiti dall’ordine delle cose corrente e largamente praticati. La novità, negativa purtroppo, di questo ultimo accordo consiste nel fatto che fino ad oggi la contrattazione aziendale era aggiuntiva e “migliorativa” di quella nazionale; ora diventa, per così dire “sostitutiva” di quest’ultima che, alla fine, attraverso i vari provvedimenti assunti in sede legislativa e contrattuale, viene in realtà negata nella sua stessa possibilità di esistenza . Il contratto nazionale, infatti, sarà (questo c’è scritto nel testo dell’intesa non firmata dalla CGIL) condizionato e subordinato all’andamento generale dell’economia e del settore di competenza (rispuntano i “mercati”!) e da altre variabili delle quali il lavoratore è puro soggetto passivo. Sarà, in sostanza, bloccato. I margini di recupero andranno conseguentemente cercati nella contrattazione aziendale e negli accordi di produttività. E qui sta la truffa! Perché? Perchè gli accordi di produttività (anche dove ci saranno margini per farli) non saranno mai compensativi (almeno per la grande maggioranza dei lavoratori) delle perdite di quello “nazionale”.
    Tra l’altro - paradosso del caso, e considerazione di primaria importanza -,  si potrebbe ben dire che i lavoratori, i loro aumenti, se li pagheranno da soli! Gli accordi aziendali saranno infatti incentivati con sgravi fiscali (solo su quella parte “di produttività” del salario), finanziati dallo Stato con la fiscalità generale: fate i conti di chi paga le tasse in questo Paese (in realtà solo i modelli 101) e vi renderete conto dell’impianto truffaldino che è alla base di questa “innovativa” intesa.
   L’accordo sulla produttività scarica interamente sul lavoro umano e quindi sui dipendenti, la responsabilità della competitività, assolvendo completamente l’impresa e i pubblici poteri. E’ una cosa ignobile poiché in realtà, nei tempi moderni e per un Paese come l’Italia, le ragioni della bassa competitività dipendono molto di più da altre cause (inefficienze generali del sistema e dell’impresa ecc.) che dallo sfruttamento del lavoro umano. Esso, in Italia, già oggi è, in generale, ad un livello di grande intensità: ritmi orari, turnazioni sono al limite, testimoniate dalle cifre, spaventose e inaccettabili, anche se “oscurate”, di morti, infortuni, malattie professionali. L’idea, infame, che si “lavora poco e i dipendenti vanno spremuti di più” esenta l’impresa dai suoi obblighi di migliorare, innovare, qualificare i processi e i prodotti e quindi, oltre che ingiusta e non veritiera, è anche inutile dal punto di vista economico e competitivo.
   E, a proposito della innovatività e della coerenza europea di questo accordo, è risibile pensare che esso propone di introdurre la “cogestione” (cioè la partecipazione dei dipendenti al capitale dell’impresa) in Italia, nel momento in cui questa esperienza, di fronte al suo fallimento, viene derubricata in quegli stessi Paesi, a guida socialdemocratica, in cui fu introdotta per prima.    
   Ma in realtà questo accordo è assai poco mitteleuropeo e molto oscurantista. La sua cifra finale, finale in tutti i  sensi, come collocazione nel testo e cultura generale, è data purtroppo  dalla parte sulla installazione delle telecamere per sorvegliare il lavoro dei dipendenti. La fabbrica o l’ufficio, come una galera! Complimenti a chi, tra i rappresentanti dei lavoratori, l’ha sottoscritto!
   Ricordo, negli anni ‘70, un bel comizio di Rinaldo Scheda (dirigente di spicco della CGIL) in Piazza Tacito a Terni davanti agli operai delle Acciaierie. Col suo linguaggio figurato rievocò l’ombra degli gli anni ’50, quando “l’operaio entrato in fabbrica doveva lasciare nell’armadietto insieme al cappotto anche la sua coscienza” e ammonì sul fatto che bisognasse impedire di tornarci. A quella generazione della sinistra l’impresa riuscì e si aprì una memorabile fase di sviluppo. Oggi abbiamo di fronte, in condizioni forse più difficili, lo stesso compito.

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