sabato 17 novembre 2012

IL PUNTO DI CIOFI. La patrimoniale e la manomorta, di Paolo Ciofi, www.controlacrisi.org


La giornata dello sciopero europeo, con centinaia di migliaia di persone in piazza - operai e lavoratori, studenti e insegnanti, precari e disoccupati - ha posto per la prima volta nel Vecchio continente, in termini di lotta e di mobilitazione di massa degli esclusi, la questione cruciale del rovesciamento delle politiche cosiddette di austerità, in realtà depressive e moltiplicatrici della crisi: un  evento di grande rilievo, che può segnare l’inizio di una svolta. Ma una politica espansiva, che valorizzi congiuntamente lavoro e ambiente, non può essere messa in moto se i più grandi detentori della ricchezza, proprietari universali in Italia e in Europa, non pagano il dovuto ostinandosi a sfasciare il patto sociale. E se gli enormi patrimoni accumulati per effetto della privatizzazione universale, diventati ormai una nuova manomorta che ghermisce i vivi, non vengono mobilitati e investiti nell’economia reale a beneficio della comunità. Ecco perché il nodo della patrimoniale, o meglio di un’imposta sui grandi patrimoni, non può essere eluso: per ragioni di giustizia, e per ragioni più propriamente economiche.
Durante la crisi, i megaricchi proprietari universali hanno concentrato nei paradisi fiscali una cifra tra i 21 e 32 mila miliardi di dollari, equivalente alla somma del pil di Usa, Cina, Giappone e Germania. Su questi dati, solitamente messi in ombra, occorre puntare i riflettori. Come pure su due altre circostanze, macroscopiche ma non considerate rilevanti ai fini della politica economica e fiscale: la traslazione dei debiti privati sui bilanci pubblici, per una cifra di 10 mila miliardi di dollari già a fine 2008; e il mancato pagamento di imposte e tasse da parte dei megaricchi e delle multinazionali. In Italia, una ricerca non smentita di Krls Network of Business Ethics ha accertato che il 78 per cento delle società di capitali a fine 2008 non versava quanto dovuto per le imposte dirette, e che il 92 per cento delle big company trasferiva fittiziamente la residenza nei paradisi fiscali. Secondo la Banca d’Italia, nel 2010 le imposte dirette erano pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al 14 e quelle sul patrimonio a un misero 0,2 per cento.
E’ lo specchio dell’ingiustizia e della manomorta della grande proprietà assenteista che soffoca il Paese. Finalmente qualcuno comincia ad accorgersi del terremoto che ha scosso le relazioni tra le classi in Italia, se è vero che tra il 1990 e il 2010, i redditi da lavoro dipendente hanno perso ben 11 punti di pil equivalenti a circa 170 miliardi di euro. Senza che a questa turbinosa slavina corrispondesse una qualche riduzione del carico fiscale. In compenso, una ristretta minoranza ha accumulato enormi patrimoni esentasse. Cosicché oggi più dell’80 per cento delle entrate dello Stato grava sulle spalle dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.
E siccome il 10 per cento degli italiani possiede una quota della ricchezza nazionale vicina al 50 per cento, questo vuol dire non solo che la ricchezza, dunque la proprietà, è iniquamente distribuita, ma anche che il carico fiscale è inversamente proporzionale all’ammontare della medesima ricchezza. I compassionevoli filantropi, i quali ci dicono che occorre beneficiare i ricchi perché sostengano i poveri, mentono spudoratamente. Oggi sono i più poveri a portare sulle loro spalle i più ricchi.
Un’imposta patrimoniale sui grandi patrimoni ben congegnata è diventata dunque una necessità: non per aumentare indiscriminatamente il carico fiscale, ma per l’esatto contrario. Vale a dire per redistribuire questo carico con giustizia in coerenza con l’articolo 53 della Costituzione, in modo che ciascuno secondo le sue possibilità concorra a contrastare e vincere la crisi. Altrimenti, ci si pone fuori del contratto sociale e della nostra civiltà democratica. È necessario ogni sforzo perché questa elementare verità sia resa a tutti ben chiara. Ed è anche necessario che dopo il 14 novembre le lotte e le mobilitazioni continuino in Europa, estendendole e unificandole dentro un disegno politico. Anche perché solo con una patrimoniale di stampo europeo sarà possibile rilanciare su nuove basi la civiltà del lavoro.

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