Sulla vicenda
dell'Ilva si sta giocando una partita decisiva: gli imprenditori
pretendono di essere esentati dal rispetto delle leggi e trovano un
governo – e una classe politica ormai ridotta a imitazione di X-Factor –
disposto ad assecondarli.
Ci vengono in mente le parole di De Andrè, “prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge”. È già avvenuto con la “riforma del mercato del lavoro”, con l'articolo 18 e tante altre infamie piccol e grandi nel corso degli ultimi decenni.
Lo stesso “accordo sulla produttività” accoglie il principio inconstituzionale che gli accordi tra le parti sociali possano prevalere sulle disposizioni di legge. Non è una forzatura polemica o ideologica, basta leggere al punto 7: “Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge“.
Si comprende dunque come un ministro dell'ambiente – Orwell aveva visto giusto, solo che è il capitalismo reale a parlare la "neolingua" che rovescia tutti i termini nel loro contrario – possa accusare dei magistrati di “volere la chiusura degli impianti” proprio nel giorno in cui tutti i media riportano le intercettazioni in cui decine di politici, sindacalisti, amministratori, poliziotti, funzionari risultano in varia misura a libro paga della stessa azienda. Nel giorno in cui, insomma, sarebbe legittimo pensare che forse tanto entusiasmo aziendalista potrebbe risultare quantomeno inopportuno...
Qui si colloca la linea del conflitto politico e sociale, non certo su quale ventriloquo del padronato vincerà le primarie. E sembra quasi una fortuna che l'indicato “regista” delle operazioni pro-Riva, al secolo Nichi Vendola, sia arrivato soltanto terzo, perdendo dunque l'occasione del ballottaggio più fasullo della storia. Potremmo consigliare di rifare le primarie chiedendo:
preferite quello (Bersani) cui si scrive per far fuori un senatore sinceramente ambientalista (Della Seta),
o quello (Renzi) che non lo avrebbe mai portato nemmeno in Parlamento,
oppure quello che guidava una formazione in liquidazione chiamata “Sinistra, ecologia, libertà” mentre “rassicurava” Riva e sta contrattando l'eventuale nomina a Commissario Europeo se per caso Bersani (non accadrà, tranquilli...) dovesse diventare premier?
Ecco, vista da quest'angolatura, forse 3 milioni di votanti avrebbero trovato altro da fare...
Ci vengono in mente le parole di De Andrè, “prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge”. È già avvenuto con la “riforma del mercato del lavoro”, con l'articolo 18 e tante altre infamie piccol e grandi nel corso degli ultimi decenni.
Lo stesso “accordo sulla produttività” accoglie il principio inconstituzionale che gli accordi tra le parti sociali possano prevalere sulle disposizioni di legge. Non è una forzatura polemica o ideologica, basta leggere al punto 7: “Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge“.
Si comprende dunque come un ministro dell'ambiente – Orwell aveva visto giusto, solo che è il capitalismo reale a parlare la "neolingua" che rovescia tutti i termini nel loro contrario – possa accusare dei magistrati di “volere la chiusura degli impianti” proprio nel giorno in cui tutti i media riportano le intercettazioni in cui decine di politici, sindacalisti, amministratori, poliziotti, funzionari risultano in varia misura a libro paga della stessa azienda. Nel giorno in cui, insomma, sarebbe legittimo pensare che forse tanto entusiasmo aziendalista potrebbe risultare quantomeno inopportuno...
Qui si colloca la linea del conflitto politico e sociale, non certo su quale ventriloquo del padronato vincerà le primarie. E sembra quasi una fortuna che l'indicato “regista” delle operazioni pro-Riva, al secolo Nichi Vendola, sia arrivato soltanto terzo, perdendo dunque l'occasione del ballottaggio più fasullo della storia. Potremmo consigliare di rifare le primarie chiedendo:
preferite quello (Bersani) cui si scrive per far fuori un senatore sinceramente ambientalista (Della Seta),
o quello (Renzi) che non lo avrebbe mai portato nemmeno in Parlamento,
oppure quello che guidava una formazione in liquidazione chiamata “Sinistra, ecologia, libertà” mentre “rassicurava” Riva e sta contrattando l'eventuale nomina a Commissario Europeo se per caso Bersani (non accadrà, tranquilli...) dovesse diventare premier?
Ecco, vista da quest'angolatura, forse 3 milioni di votanti avrebbero trovato altro da fare...
Interesse pubbico, proprietà comune
di Claudio Conti
La famiglia Riva è a questo punto la sintesi
dell'imprenditoria italiana. Il contrasto tra interesse privato e
interessi pubblici è qui esemplare. Ogni suo comportamento è “tipico”,
comune a tutti i padroni di una certa dimensione.
Felice Riva ha acquisito lo stabilimento di Taranto nel 1995, in seguito alla crisi e alla liquidazione della Finsider, società del gruppo Iri, quindi di proprietà statale. Una privatizzazione in piena regola, dunque, che è costata a Riva una miseria garantendogli però quasi il monopolio della produzione d'acciaio in Italia. Impianti più piccoli, come Piombino, furono affidati invece a Lucchini. La privatizzazione non era dovuta a una presunta inefficienza del “pubblico” rispetto al privato, ma alla più generale crisi dell'acciaio in Europa, che venne gestita a livello comunitario con tanto di lista degli impianti da chiudere (memorabile il caso di Bagnoli, chiusa appena conclusa una costosissima ristrutturazione).
Riva non ha investito una lira nella modernizzazione dello stabilimento. I macchinari e l'organizzazione generale della produzione sono ancora quelli dell'inaugurazione, nel 1965. Ogni centesimo di profitto non è stato dunque reinvestito nell'attività – nel core business, come dicono i patiti dell'economia borghese - ma nascosto nei paradisi fiscali e quindi riversato nel mare magnum della speculazione finanziaria.
Gli investimenti veri sono stati tutti in corruzione. Riva si è costruito una rete di protezione molto articolata “ungendo” o stipendiando politici nazionali, mezzo ministero dell'ambiente, amministratori locali, poliziotti, giornalisti, funzionari, controllori di vario livello. E naturalmente del sindacato. Anche la Fiom, a Taranto, non si è certo coperta di gloria; l'operazione “pulizia”, scattata circa un anno fa, è stata tardiva e soprattutto incompleta.
Quando la magistratura si è finalmente attivata, questa rete di protezione si è messa in moto all'unisono. Soprattutto a livello ministeriale, mediatico e sindacale. La nuova “autorizzzione integrata ambientale” esce dagli stessi uffici e dalle stesse mani della precedente, del 2011, che nelle intercettazioni l'avvocato dell'Ilva così riassume: “la Commissione ha accettato il 90% delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10%. Non avremo sorprese”.
Questo è l'imprenditoria italiana. Questo è lo Stato italiano, questo il suo governo, “tecnico” o politico che sia.
Questo stesso governo pensa ora di militarizzare l'impianto con un decreto che lo dichiari “zona di interesse strategico”. Una presa in carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l'attività, risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al “privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d'ora in poi; silenzierebbe la stampa, privando la popolazione delle informazioni minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale conflittualità sindacale.
Non si tratterebbe di una nazionalizzazione, è evidente, ma solo di una secretazione di quanto verrà fatto per garantire i profitti privati con risorse pubbliche.
Eppure la nazionalizzazione delle imprese abbandonate dai “prenditori” in fuga è una necessità che emerge dai fatti, da quel che accade in altri paesi europei, dal bisogno di mantenere una struttura industriale tale da supportare le necessità “strategiche” di un paese. Il governo francese, per esempio, sta valutando di ricorrere a questa soluzione per mantenere l'attività degli altoforni francesi a Florange, in Lorena, che ArcelorMittal vorrebbe dismettere. Ne ha dato annuncio addirittura il presidente Hollande, in conferenza stampa congiunta con il premier belga Elio Di Rupo.
L'unica cosa che non si può fare è assistere passivamente allo smantellamento di quel che è stato costruito con i nostri sacrifici – soldi pubblici, tasse uscite dalle nostre tasche – soltanto perché abbiamo un governo di banchieri che teorizza e pratica la distruzione dei beni pubblici in favore delle imprese private. Non ci interessa neppure sapere se queste “imprese” siano dirette da industriali veri (come Lakshmi Mittal, che in Italia possiede la Magona di Piombino, e vorrebbe chiudere anche quella) o capintesta “prendi i soldi e scappa” come i Riva. Vale anche per l'Alcoa e per altre cento situazioni dello stesso genere.
Quel che serve a tutti, che è interesse pubblico, va conservato. In mani pubbliche e con il controllo primario dei lavoratori. Quei lavoratori che ieri a Taranto gridavano “i padroni siamo noi” ci dicono la più semplice e sincera delle verità.
Felice Riva ha acquisito lo stabilimento di Taranto nel 1995, in seguito alla crisi e alla liquidazione della Finsider, società del gruppo Iri, quindi di proprietà statale. Una privatizzazione in piena regola, dunque, che è costata a Riva una miseria garantendogli però quasi il monopolio della produzione d'acciaio in Italia. Impianti più piccoli, come Piombino, furono affidati invece a Lucchini. La privatizzazione non era dovuta a una presunta inefficienza del “pubblico” rispetto al privato, ma alla più generale crisi dell'acciaio in Europa, che venne gestita a livello comunitario con tanto di lista degli impianti da chiudere (memorabile il caso di Bagnoli, chiusa appena conclusa una costosissima ristrutturazione).
Riva non ha investito una lira nella modernizzazione dello stabilimento. I macchinari e l'organizzazione generale della produzione sono ancora quelli dell'inaugurazione, nel 1965. Ogni centesimo di profitto non è stato dunque reinvestito nell'attività – nel core business, come dicono i patiti dell'economia borghese - ma nascosto nei paradisi fiscali e quindi riversato nel mare magnum della speculazione finanziaria.
Gli investimenti veri sono stati tutti in corruzione. Riva si è costruito una rete di protezione molto articolata “ungendo” o stipendiando politici nazionali, mezzo ministero dell'ambiente, amministratori locali, poliziotti, giornalisti, funzionari, controllori di vario livello. E naturalmente del sindacato. Anche la Fiom, a Taranto, non si è certo coperta di gloria; l'operazione “pulizia”, scattata circa un anno fa, è stata tardiva e soprattutto incompleta.
Quando la magistratura si è finalmente attivata, questa rete di protezione si è messa in moto all'unisono. Soprattutto a livello ministeriale, mediatico e sindacale. La nuova “autorizzzione integrata ambientale” esce dagli stessi uffici e dalle stesse mani della precedente, del 2011, che nelle intercettazioni l'avvocato dell'Ilva così riassume: “la Commissione ha accettato il 90% delle nostre osservazioni e la visita allo stabilimento riguarda solo il 10%. Non avremo sorprese”.
Questo è l'imprenditoria italiana. Questo è lo Stato italiano, questo il suo governo, “tecnico” o politico che sia.
Questo stesso governo pensa ora di militarizzare l'impianto con un decreto che lo dichiari “zona di interesse strategico”. Una presa in carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l'attività, risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al “privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d'ora in poi; silenzierebbe la stampa, privando la popolazione delle informazioni minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale conflittualità sindacale.
Non si tratterebbe di una nazionalizzazione, è evidente, ma solo di una secretazione di quanto verrà fatto per garantire i profitti privati con risorse pubbliche.
Eppure la nazionalizzazione delle imprese abbandonate dai “prenditori” in fuga è una necessità che emerge dai fatti, da quel che accade in altri paesi europei, dal bisogno di mantenere una struttura industriale tale da supportare le necessità “strategiche” di un paese. Il governo francese, per esempio, sta valutando di ricorrere a questa soluzione per mantenere l'attività degli altoforni francesi a Florange, in Lorena, che ArcelorMittal vorrebbe dismettere. Ne ha dato annuncio addirittura il presidente Hollande, in conferenza stampa congiunta con il premier belga Elio Di Rupo.
L'unica cosa che non si può fare è assistere passivamente allo smantellamento di quel che è stato costruito con i nostri sacrifici – soldi pubblici, tasse uscite dalle nostre tasche – soltanto perché abbiamo un governo di banchieri che teorizza e pratica la distruzione dei beni pubblici in favore delle imprese private. Non ci interessa neppure sapere se queste “imprese” siano dirette da industriali veri (come Lakshmi Mittal, che in Italia possiede la Magona di Piombino, e vorrebbe chiudere anche quella) o capintesta “prendi i soldi e scappa” come i Riva. Vale anche per l'Alcoa e per altre cento situazioni dello stesso genere.
Quel che serve a tutti, che è interesse pubblico, va conservato. In mani pubbliche e con il controllo primario dei lavoratori. Quei lavoratori che ieri a Taranto gridavano “i padroni siamo noi” ci dicono la più semplice e sincera delle verità.
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