In un articolo apparso sul numero precedente della rivista (Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo),
a cui rimandiamo, abbiamo tentato di dimostrare, partendo da un punto
di vista eminentemente oggettivo, come l’enorme diffusione del lavoro
improduttivo, dal punto di vista del sistema capitalistico, tipico della
moderna “società dei servizi”, costituisca “una sottrazione o uno
spostamento o un consumo improduttivo della grande massa di plusvalore
prodotto a livello mondiale”, e quindi, in ultima analisi, “uno dei
fattori, insieme allo sviluppo abnorme del capitale finanziario,
dell’attuale crisi strutturale del capitalismo”. Si può discutere
all’infinito sul carattere produttivo o improduttivo dei singoli lavori
concreti, propri della divisione capitalistica del lavoro, soprattutto
in alcuni “settori di confine” come quello dei trasporti e della
logistica, ma tale discussione non altera, a mio avviso, l’assunto di
fondo sopra descritto. Detto in altri termini si potrebbe anche
sostenere che i costi necessari al mantenimento del sistema
capitalistico sono diventati così elevati da rappresentare, allo stesso
tempo, un freno all’accumulazione del capitale e quindi alla sua
riproduzione allargata, contribuendo così al declino del modo di
produzione capitalistico.
Mi viene in mente, a questo punto, una citazione da P. Baran, secondo cui “il lavoro improduttivo consiste in tutto il lavoro necessario per produrre beni e servizi la cui domanda è attribuibile alle condizioni specifiche e al sistema di relazioni propri del capitalismo e che non esisterebbe in una società più razionalmente organizzata”.(1) Non è molto chiaro cosa Baran intenda per “società più razionalmente organizzata”, ma è evidente dal contesto che egli si riferisce a quelli che, nella sua analisi, definisce gli “sprechi” e le “distorsioni” che si manifestano nel “capitalismo monopolistico”. Ma su questo punto si potrà tornare in seguito.
Ora però è necessario riconsiderare il problema del lavoro produttivo e improduttivo, esaminandolo, questa volta, dal punto di vista soggettivo, cioè negli effetti che esso produce sulla divisione sociale del lavoro a livello mondiale e sulla composizione di classe. Per fare ciò è opportuno, a mio avviso, inserire una ipotesi di lettura in un contesto storico determinato.
Negli anni 60-70 del secolo scorso l’estensione dei rapporti di produzione capitalistici a quasi tutti i settori della riproduzione sociale determinava un allargamento senza precedenti del lavoro salariato a strati di popolazione fino ad allora solo marginalmente coinvolti nei rapporti sociali capitalistici. Un processo, che allora venne chiamato di salarizzazione o proletarizzazione dei ceti intermedi, che coinvolgeva studenti, tecnici, impiegati, insegnanti, ospedalieri, lavoratori della grande distribuzione ecc., la cui condizione di vita e di lavoro si avvicinava sempre più a quella del tradizionale proletariato di fabbrica, anch’esso del resto in grande crescita in quel periodo, sia numericamente che come influenza sociale. Si può dire quindi che le lotte dei salariati, che presero allora l’avvio, come quella degli ospedalieri, o la famosa parola d’ordine della “alleanza operai-studenti-tecnici” poggiassero su solide basi strutturali e materiali, piuttosto che su basi ideologiche, come qualcuno ha sostenuto.(2)
Intorno alla metà degli anni 70 la situazione cambia rapidamente e radicalmente. L’esplodere della crisi economica capitalistica, che poi si protrarrà fino ai nostri giorni, innesca i processi di ristrutturazione nelle grandi fabbriche, decentramento produttivo, delocalizzazione degli impianti, outsourcing, che portano rapidamente a licenziamenti di massa, riduzione drastica del proletariato di fabbrica e al formarsi di un vasto esercito industriale di riserva, flessibile e precario, che venne allora identificato come “proletariato giovanile” o come un “nuovo soggetto sociale”, individuabile attraverso la pratica di comportamenti antagonistici e di forme di lotta sul territorio, inedite rispetto a quelle del proletariato di fabbrica, che andavano sotto il nome di “illegalità diffusa” o “di massa”. A metà degli anni 70 quindi la questione della “ricomposizione di classe proletaria” si poneva nei termini della risoluzione pratica della contraddizione fra proletariato di fabbrica e proletariato diffuso sul territorio, ben al di là quindi della parodia pcista sulla divisione “garantiti-non garantiti” o sulla “seconda società”.
Un tentativo in tal senso può essere considerata la proposta di coordinamento operaio elaborata negli ultimi mesi del 1976 dai Collettivi politici operai (C.P.O. – Rosso) e dal P.C.m.l. (La Voce Operaia) con l’adesione dei Comitati comunisti per il potere operaio (Senza Tregua) e del Comitato Comunista m.l. di unità e lotta. Nella bozza di piattaforma presentata nell’occasione l’elemento fondamentale della crisi economica veniva individuato nella “crisi del lavoro” cioè nell’attacco del ceto economico e politico del capitale teso a “ottenere, sul terreno multinazionale, la più piena disponibilità della forza lavoro, imporre la massima mobilità sullo scacchiere degli investimenti multinazionali, raggiungere con questi mezzi la soglia di un salto generale nell’intensificazione dello sfruttamento a livello mondiale”. Ci sono anche alcuni riferimenti alla “unificazione del mercato finanziario sotto la dittatura del dollaro” e “all’uso terroristico degli strumenti del credito internazionale”. Il coordinamento avrebbe dovuto rilanciare la lotta sul salario (100.000 lire al mese uguali per tutti, rifiuto dei sacrifici), contro il lavoro (35 ore pagate 40, rigidità operaia, assenteismo, non collaborazione), contro il comando (ristrutturazione territoriale e stratificazione della classe operaia, ronde operaie contro il lavoro nero ecc.), contro la repressione delle lotte da parte dello stato. Inoltre estensione della lotta per il salario sociale (salario alle casalinghe, agli studenti, ai disoccupati) e per i servizi sociali intesi come salario indiretto e “risposta ai bisogni essenziali della classe operaia”. Infine viene ribadita l’importanza “della centralità operaia, della direzione operaia, rispetto all’intero tessuto delle lotte metropolitane”.(3)
Il tentativo di “fronte operaio contro la ristrutturazione” naturalmente fallisce, anche per le pressioni esercitate dalle tendenze alla lotta armata, ma non è questo il punto. Non c’è dubbio che la classe operaia in quel periodo abbia speso le sue migliori energie nella lotta contro il dispotismo di fabbrica, ottenendo anche dei notevoli successi, come è noto. Non altrettanto si può dire della lotta operaia al di fuori delle mura della fabbrica. La lotta operaia anticapitalistica, del cosiddetto “operaio massa”, si svolge essenzialmente sul terreno del salario, estremizzando però la sua portata. Dagli “aumenti salariali uguali per tutti”, espressione del rifiuto della divisione capitalistica del lavoro, al “salario sganciato dalla produttività” come rifiuto dello sfruttamento capitalistico e della sopravvivenza legata al lavoro, al “reddito sociale garantito”, estensione della lotta per il salario alla società e al territorio (casa, servizi, trasporti, scuola, sanità), la lotta operaia usa l’estremizzazione della lotta per il salario, nell’ipotesi che questa alla fine possa far saltare i rapporti sociali capitalistici. Questo porta indubbiamente da una parte ad una accelerazione dei processi di proletarizzazione già in corso e ad una estensione del rapporto di salario a strati vastissimi di lavoratori, ma non intacca minimamente, dall’altra, il carattere di merce dei beni di consumo e dei servizi, vale a dire la “democrazia del mercato”. In effetti comunque si arriva alla fine a quello che gli economisti chiamano “profit squeeze”, vale a dire a una erosione dei profitti tale da mettere in pericolo il processo di accumulazione. Quanto questa erosione dei profitti abbia contato nel successivo manifestarsi della crisi capitalistica saranno appunto gli economisti a dirlo.
Sta di fatto che questo continuo rilancio della lotta sul salario, questo ripartire ogni volta dalle condizioni materiali della classe annullava la tradizionale divisione fra lotta economica e lotta politica, fra sindacato e partito. La lotta economica sulle condizioni materiali era a tutti gli effetti lotta politica, garanzia della autonomia della classe dalle rappresentanze, istituzionali e non. Ma all’apparire della crisi capitalistica, della ristrutturazione, del decentramento produttivo, della deindustrializzazione, quello che sembrava un punto di forza della lotta operaia si trasforma improvvisamente in un suo limite. Quando, dall’interno stesso della classe, dagli strati di proletariato giovanile, esplode il rifiuto del lavoro, l’operaio massa stesso si trova spiazzato. La spaccatura è inevitabile. Chi non ricorda il caso dei nuovi assunti alla Fiat nel 78-79? Contrariamente all’operaio professionale, protagonista del precedente ciclo di lotta dell’inizio del Novecento, l’operaio massa non ha un suo progetto di autogestione della produzione e di organizzazione sociale alternativo a quello capitalistico. Di fronte alla crisi non ha alternative : o riaffermare la centralità della fabbrica, in una strenua difesa della sua centralità come soggetto sociale antagonista o scomparire come tale. La riaffermazione della centralità della fabbrica si dimostra effimera, la scomparsa invece molto concreta. Va comunque detto, a questo punto, che la questione del proletariato industriale, delle sue lotte, della sua composizione sia numerica che sociale, deve essere riconsiderata oggi a livello mondiale, ivi compresi i paesi di nuova industrializzazione, mentre una visione ristretta al solo mondo capitalistico occidentale può risultare alla fine fuorviante.
Allo stesso tempo il “proletariato giovanile o diffuso”, privato delle sue punte più radicali, rifluiva entro i limiti delle compatibilità capitalistiche, in un processo progressivo e inevitabile, come poi vedremo. Alla metà degli anni 90 il processo era ormai compiuto, tanto da consentirne una lettura empirica in un articolo dell’epoca che si occupava della flessibilità della produzione e del lavoro. (4) Si diceva allora:
Mi viene in mente, a questo punto, una citazione da P. Baran, secondo cui “il lavoro improduttivo consiste in tutto il lavoro necessario per produrre beni e servizi la cui domanda è attribuibile alle condizioni specifiche e al sistema di relazioni propri del capitalismo e che non esisterebbe in una società più razionalmente organizzata”.(1) Non è molto chiaro cosa Baran intenda per “società più razionalmente organizzata”, ma è evidente dal contesto che egli si riferisce a quelli che, nella sua analisi, definisce gli “sprechi” e le “distorsioni” che si manifestano nel “capitalismo monopolistico”. Ma su questo punto si potrà tornare in seguito.
Ora però è necessario riconsiderare il problema del lavoro produttivo e improduttivo, esaminandolo, questa volta, dal punto di vista soggettivo, cioè negli effetti che esso produce sulla divisione sociale del lavoro a livello mondiale e sulla composizione di classe. Per fare ciò è opportuno, a mio avviso, inserire una ipotesi di lettura in un contesto storico determinato.
Negli anni 60-70 del secolo scorso l’estensione dei rapporti di produzione capitalistici a quasi tutti i settori della riproduzione sociale determinava un allargamento senza precedenti del lavoro salariato a strati di popolazione fino ad allora solo marginalmente coinvolti nei rapporti sociali capitalistici. Un processo, che allora venne chiamato di salarizzazione o proletarizzazione dei ceti intermedi, che coinvolgeva studenti, tecnici, impiegati, insegnanti, ospedalieri, lavoratori della grande distribuzione ecc., la cui condizione di vita e di lavoro si avvicinava sempre più a quella del tradizionale proletariato di fabbrica, anch’esso del resto in grande crescita in quel periodo, sia numericamente che come influenza sociale. Si può dire quindi che le lotte dei salariati, che presero allora l’avvio, come quella degli ospedalieri, o la famosa parola d’ordine della “alleanza operai-studenti-tecnici” poggiassero su solide basi strutturali e materiali, piuttosto che su basi ideologiche, come qualcuno ha sostenuto.(2)
Intorno alla metà degli anni 70 la situazione cambia rapidamente e radicalmente. L’esplodere della crisi economica capitalistica, che poi si protrarrà fino ai nostri giorni, innesca i processi di ristrutturazione nelle grandi fabbriche, decentramento produttivo, delocalizzazione degli impianti, outsourcing, che portano rapidamente a licenziamenti di massa, riduzione drastica del proletariato di fabbrica e al formarsi di un vasto esercito industriale di riserva, flessibile e precario, che venne allora identificato come “proletariato giovanile” o come un “nuovo soggetto sociale”, individuabile attraverso la pratica di comportamenti antagonistici e di forme di lotta sul territorio, inedite rispetto a quelle del proletariato di fabbrica, che andavano sotto il nome di “illegalità diffusa” o “di massa”. A metà degli anni 70 quindi la questione della “ricomposizione di classe proletaria” si poneva nei termini della risoluzione pratica della contraddizione fra proletariato di fabbrica e proletariato diffuso sul territorio, ben al di là quindi della parodia pcista sulla divisione “garantiti-non garantiti” o sulla “seconda società”.
Un tentativo in tal senso può essere considerata la proposta di coordinamento operaio elaborata negli ultimi mesi del 1976 dai Collettivi politici operai (C.P.O. – Rosso) e dal P.C.m.l. (La Voce Operaia) con l’adesione dei Comitati comunisti per il potere operaio (Senza Tregua) e del Comitato Comunista m.l. di unità e lotta. Nella bozza di piattaforma presentata nell’occasione l’elemento fondamentale della crisi economica veniva individuato nella “crisi del lavoro” cioè nell’attacco del ceto economico e politico del capitale teso a “ottenere, sul terreno multinazionale, la più piena disponibilità della forza lavoro, imporre la massima mobilità sullo scacchiere degli investimenti multinazionali, raggiungere con questi mezzi la soglia di un salto generale nell’intensificazione dello sfruttamento a livello mondiale”. Ci sono anche alcuni riferimenti alla “unificazione del mercato finanziario sotto la dittatura del dollaro” e “all’uso terroristico degli strumenti del credito internazionale”. Il coordinamento avrebbe dovuto rilanciare la lotta sul salario (100.000 lire al mese uguali per tutti, rifiuto dei sacrifici), contro il lavoro (35 ore pagate 40, rigidità operaia, assenteismo, non collaborazione), contro il comando (ristrutturazione territoriale e stratificazione della classe operaia, ronde operaie contro il lavoro nero ecc.), contro la repressione delle lotte da parte dello stato. Inoltre estensione della lotta per il salario sociale (salario alle casalinghe, agli studenti, ai disoccupati) e per i servizi sociali intesi come salario indiretto e “risposta ai bisogni essenziali della classe operaia”. Infine viene ribadita l’importanza “della centralità operaia, della direzione operaia, rispetto all’intero tessuto delle lotte metropolitane”.(3)
Il tentativo di “fronte operaio contro la ristrutturazione” naturalmente fallisce, anche per le pressioni esercitate dalle tendenze alla lotta armata, ma non è questo il punto. Non c’è dubbio che la classe operaia in quel periodo abbia speso le sue migliori energie nella lotta contro il dispotismo di fabbrica, ottenendo anche dei notevoli successi, come è noto. Non altrettanto si può dire della lotta operaia al di fuori delle mura della fabbrica. La lotta operaia anticapitalistica, del cosiddetto “operaio massa”, si svolge essenzialmente sul terreno del salario, estremizzando però la sua portata. Dagli “aumenti salariali uguali per tutti”, espressione del rifiuto della divisione capitalistica del lavoro, al “salario sganciato dalla produttività” come rifiuto dello sfruttamento capitalistico e della sopravvivenza legata al lavoro, al “reddito sociale garantito”, estensione della lotta per il salario alla società e al territorio (casa, servizi, trasporti, scuola, sanità), la lotta operaia usa l’estremizzazione della lotta per il salario, nell’ipotesi che questa alla fine possa far saltare i rapporti sociali capitalistici. Questo porta indubbiamente da una parte ad una accelerazione dei processi di proletarizzazione già in corso e ad una estensione del rapporto di salario a strati vastissimi di lavoratori, ma non intacca minimamente, dall’altra, il carattere di merce dei beni di consumo e dei servizi, vale a dire la “democrazia del mercato”. In effetti comunque si arriva alla fine a quello che gli economisti chiamano “profit squeeze”, vale a dire a una erosione dei profitti tale da mettere in pericolo il processo di accumulazione. Quanto questa erosione dei profitti abbia contato nel successivo manifestarsi della crisi capitalistica saranno appunto gli economisti a dirlo.
Sta di fatto che questo continuo rilancio della lotta sul salario, questo ripartire ogni volta dalle condizioni materiali della classe annullava la tradizionale divisione fra lotta economica e lotta politica, fra sindacato e partito. La lotta economica sulle condizioni materiali era a tutti gli effetti lotta politica, garanzia della autonomia della classe dalle rappresentanze, istituzionali e non. Ma all’apparire della crisi capitalistica, della ristrutturazione, del decentramento produttivo, della deindustrializzazione, quello che sembrava un punto di forza della lotta operaia si trasforma improvvisamente in un suo limite. Quando, dall’interno stesso della classe, dagli strati di proletariato giovanile, esplode il rifiuto del lavoro, l’operaio massa stesso si trova spiazzato. La spaccatura è inevitabile. Chi non ricorda il caso dei nuovi assunti alla Fiat nel 78-79? Contrariamente all’operaio professionale, protagonista del precedente ciclo di lotta dell’inizio del Novecento, l’operaio massa non ha un suo progetto di autogestione della produzione e di organizzazione sociale alternativo a quello capitalistico. Di fronte alla crisi non ha alternative : o riaffermare la centralità della fabbrica, in una strenua difesa della sua centralità come soggetto sociale antagonista o scomparire come tale. La riaffermazione della centralità della fabbrica si dimostra effimera, la scomparsa invece molto concreta. Va comunque detto, a questo punto, che la questione del proletariato industriale, delle sue lotte, della sua composizione sia numerica che sociale, deve essere riconsiderata oggi a livello mondiale, ivi compresi i paesi di nuova industrializzazione, mentre una visione ristretta al solo mondo capitalistico occidentale può risultare alla fine fuorviante.
Allo stesso tempo il “proletariato giovanile o diffuso”, privato delle sue punte più radicali, rifluiva entro i limiti delle compatibilità capitalistiche, in un processo progressivo e inevitabile, come poi vedremo. Alla metà degli anni 90 il processo era ormai compiuto, tanto da consentirne una lettura empirica in un articolo dell’epoca che si occupava della flessibilità della produzione e del lavoro. (4) Si diceva allora:
“La condizione
fondamentale della flessibilità del lavoro è indubbiamente
l’abbassamento dei salari reali unito all’aumento della disoccupazione.
Senza queste condizioni non si potrebbe realizzare il presupposto
fondamentale della flessibilità del lavoro che è la disponibilità da
parte della forza lavoro ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Detto
questo però una tale disponibilità può assumere le forme più diverse nei
vari settori di lavoro. Presso il settore più stabile dei lavoratori
occupati si verifica un adattamento degli orari di lavoro all’andamento
della produzione secondo le regole del “just in time”.
Ciò significa orari flessibili, part-time, lavoro notturno, lavoro stagionale ecc. Il tutto inquadrato in un generale aumento degli orari di lavoro per i lavoratori impiegati stabilmente, come ha sottolineato P. Basso in un suo recente articolo sugli orari di lavoro. (5)
Esiste poi il vasto arcipelago del lavoro precario e saltuario, giovanile e/o dei lavoratori immigrati, ma che va estendendosi a strati di lavoratori che via via si ritrovano senza un lavoro stabile. Qui la flessibilità totale è la regola insieme con i bassi salari e le condizioni dure di lavoro. Tuttavia anche qui possiamo individuare diverse fasce. Nella fascia bassa dei lavori precari troviamo i lavori manuali nei settori più tradizionali : cooperative di trasporto, pulizie, mense e ristorazione, manutenzione ecc. ; ma anche i lavori meno tradizionali come i nuovi servizi alla persona o le attività di organizzazione del tempo libero. Nella fascia medio-alta dei lavori precari troviamo i cosiddetti “lavoratori autonomi di seconda generazione”, le nuove professioni nei settori dei servizi alle imprese, dell’informatica, della finanza. Dice di essi la LUMHI (Libera Università di Milano e dell’Hinterland) costituita recentemente ad opera di personaggi ben noti del tardo operaismo:
“Sono
i professionisti del settore “servizi alle imprese”, prodotti dai
fenomeni di terziarizzazione, di outsourcing, di informatizzazione, di
finanziarizzazione, oppure prodotti dallo sviluppo dei nuovi servizi
alla persona, delle nuove abitudini di vita, di consumo del tempo
libero, di comunicazione… Si illudono di rappresentare la “fascia alta”
del mercato del lavoro postfordista, ma le più recenti indagini ci
dicono che sono “a rischio di povertà”… L’età aurea del postfordismo è
finita e gli eroi yuppies di un tempo si avvicinano sempre più alla
“fascia bassa” del mercato del lavoro, alla galassia del “self
employment”… Dire che i primi rappresentano la “nuova borghesia” e gli
altri il “nuovo proletariato” è una banalità priva di senso. E’ più
sensato dire che ambedue rappresentano il fenomeno epocale del “declino
del lavoro salariato”.(6)
Ma a me sembra più sensato dire che siamo in presenza di una generalizzazione su vasta scala del lavoro precario e super sfruttato solo formalmente e giuridicamente camuffato come lavoro autonomo per scaricare una parte consistente dei costi sul lavoratore stesso. Quello che soprattutto non mi convince in queste teorizzazioni è che si possa parlare già oggi di fatto per questi lavoratori di un "superamento del lavoro salariato, o di un declino del rapporto di lavoro salariato rimanendo sempre nell’ambito del sistema capitalistico”.
Il tentativo più importante di intervento teorico-pratico e di organizzazione del proletariato giovanile è stato sicuramente quello di alcuni settori dell’Autonomia Operaia e, in particolare dell’area che faceva riferimento alla rivista “Rosso” (1973 -1979). A questa rivista si deve principalmente l’elaborazione teorica che puntava all’individuazione del nuovo soggetto definito come “operaio sociale”. Le caratteristiche principali di questo nuovo soggetto possono essere, a mio avviso e in estrema sintesi, così delineate :
1)
il sapere diffuso proprio dell’intellettualità di massa in parallelo
con la crescita dell’incorporazione della scienza e della conoscenza nei
processi produttivi e nella cooperazione sociale;
2) il rifiuto del lavoro;
3) la riappropriazione di reddito al di fuori del rapporto di lavoro salariato;
4) l’espandersi dei bisogni e dei desideri proletari oltre i limiti di sussistenza imposti dalla vendita della forza lavoro, oltre e attraverso il mondo dei consumi borghesi e la stessa controcultura.(7)
2) il rifiuto del lavoro;
3) la riappropriazione di reddito al di fuori del rapporto di lavoro salariato;
4) l’espandersi dei bisogni e dei desideri proletari oltre i limiti di sussistenza imposti dalla vendita della forza lavoro, oltre e attraverso il mondo dei consumi borghesi e la stessa controcultura.(7)
Il “riflusso entro i limiti delle compatibilità capitalistiche” si esercita su ognuna di queste insorgenze in maniera puntuale e sistematica.
Nel lavoro su “Rosso” prima citato gli autori si interrogano sul perché della “imperfezione” di una ipotesi altrimenti dirompente. “Una certa immaturità dei soggetti sociali? Il mancato risolversi della transizione capitalistica verso un paradigma definitivamente caratterizzato dalla sussunzione reale?”. Quanto all’immaturità dei soggetti sociali si può senz’altro convenire che la base sociale dell’autonomia operaia era ancora troppo fragile. La crisi non aveva ancora macinato abbastanza, o meglio era solo all’inizio. La “sussunzione reale” del nuovo soggetto avrebbe comportato una serie di trasformazioni pur all’interno del modo di produzione capitalistico che, per dirla più chiaramente, potevano essere : la realizzazione della fabbrica automatica, un salto tecnologico generalizzato che avrebbe dovuto comportare un rivoluzionamento del modo di produrre e di vivere. Ma così non è stato. Per fare un esempio vicino a noi la Zanussi, nota industria di elettrodomestici di Pordenone, l’aveva già progettata nei primi anni 80. Ma nel 2005 apparve sulla stampa quotidiana, senza troppo clamore, una notizia emblematica : la Zanussi aveva definitivamente rinunciato al suo progetto di fabbrica automatica. L’automazione completa della fabbrica era ritenuta più costosa e, tutto sommato, meno “flessibile” dell’uso della manodopera. E’ noto infatti che l’introduzione di nuove tecnologie nella produzione incontra nel capitalismo un limite di fondo. Infatti la difficoltà di valorizzare adeguatamente la massa sempre crescente del capitale fisso è l’elemento che, in ultima analisi, porta alla crisi dell’accumulazione.(8)
Anche l’introduzione della microelettronica e dell’informatica nel processo produttivo non ha per niente ridotto il prezzo del capitale fisso, anzi molte rilevazioni statistiche tendono invece a provare che l’introduzione della microelettronica nel processo produttivo, dopo il primo e fugace entusiasmo, è stata molto meno massiccia di quanto ci si poteva aspettare e segna comunque il passo. Ci troviamo quindi di fronte a un forte rallentamento della crescita della produttività, dovuto alle evidenti difficoltà in cui si dibatte l’accumulazione. La microelettronica ha avuto la più grande diffusione nel campo della comunicazione, dell’informazione, della raccolta e trasmissione dati, nel campo amministrativo, finanziario e del controllo sociale, nei servizi alle imprese e alla pubblica amministrazione, tutti campi in cui si sono riversati i “lavoratori autonomi di seconda generazione” la cui “sussunzione”, detta in termini marxiani, è stata solo “formale”, cioè limitata all’acquisto di prodotti del “lavoro immateriale”. D’altra parte però il lavoro mentale ha subito, in larga parte, lo stesso processo già toccato al lavoro manuale, vale a dire l’incorporamento del lavoro vivo nel lavoro morto, cioè nel macchinario, impersonificato in questo caso dal microprocessore. Tuttavia, pur nell’aumento relativo del lavoro immateriale, la divisione fra lavoro manuale e intellettuale rimane comunque fondante del modo di produzione capitalistico, anche se andrebbe ovviamente attualizzata.
A venti anni di distanza converrà forse ritornare sulla questione del “postfordismo” e ritentare una lettura nei termini di una rivoluzione mancata : non dal proletariato certo, ma dal capitale. Il capitale si è dimostrato infatti incapace di allargare e di stabilizzare quello che pomposamente era stato definito un “nuovo paradigma produttivo” forse perché l’affermarsi di un nuovo “paradigma” finiva con l’entrare in contrasto con i limiti strutturali del capitalismo stesso. Come nota Eleonora Fiorani, studiosa milanese di antropologia, “nella situazione attuale i differenti modi di regolazione e accumulazione non si sono sostituiti l’uno con l’altro ; fordismo, post e neofordismo coesistono, come la produzione di massa e quella flessibile, l’economia di scala e le economie di campo di attività : è questa ambivalenza che fa la peculiare logica della globalizzazione”.(9)
Ma dove c’è una rivoluzione mancata si insinuano e coesistono forme involutive, o di resistenza, o abbozzi di nuovi cambiamenti. E’ quanto avviene per il tempo di lavoro. La storica battaglia del “movimento operaio” per la riduzione dell’orario di lavoro si è fermata al limite delle mitiche “otto ore”. Dopo di che, da almeno trenta anni a questa parte, la controtendenza all’aumento dell’orario di lavoro in tutti i settori è stata la regola, come ha ben dimostrato P. Basso nel suo lavoro prima citato. Una simile tendenza si può rilevare “in un modo tutto particolare proprio in quel mondo dei servizi raffigurato a destra e a manca come l’Eldorado postmoderno del lavoro leggero, pulito, relativamente breve, gratificante”. Ricordo ancora una vignetta in copertina di una copia dell’ Espresso dei primi anni ottanta in cui si vedeva uno yuppie dell’epoca, debitamente incravattato, che esclamava : “Ho appena aperto una agenzia immobiliare, sempre meglio che lavorare, no?”. Negli anni 80 la gestione capitalistica della crisi arriva ad usare i comportamenti soggettivi individuali contro il lavoro per distorcerli ai propri fini. Il rifiuto del lavoro diviene inevitabilmente rifiuto del lavoro operaio e, come tale, corre parallelo ai processi di deindustrializzazione, di decentramento produttivo, di “terziarizzazione” della società, ne diviene prodotto e, allo stesso tempo, acceleratore, si converte in una generale espansione del lavoro improduttivo. Il dispiegarsi della crisi capitalistica compie il resto dell’opera in un mercato della forza lavoro ormai divenuto mondiale. Ritorna di moda il plusvalore assoluto.(10)
Passata l’epoca delle autoriduzioni e degli “espropri proletari” una parte dell’ingente debito pubblico di quegli anni viene utilizzata per finanziare una serie di ammortizzatori sociali necessari per tenere a bada le esigenze di reddito della massa dei licenziati e cassintegrati, del nascente precariato, degli assunti nel pubblico impiego ecc. Come pure può avere funzionato da ammortizzatore il costante aumento del credito al consumo a interessi via via decrescenti per compensare il calo progressivo dei salari reali. Ma i debiti alla fine vanno comunque pagati come la vicenda dei “mutui subprime” insegna.
Si ritorna quindi alla questione dei consumi proletari. Non è facile rintracciare in Marx una compiuta teoria dei bisogni. Dal complesso della sua analisi si può comunque evincere che i bisogni sono socialmente determinati, per cui, nel nostro tempo, essi sono definiti dal modo di produzione capitalistico. Questo concetto è concretamente sviluppato nei Grundrisse:
“La
produzione del plusvalore relativo, derivante dalla crescita delle
forze produttive, richiede la creazione di nuovi consumi ; momento
centrale della circolazione, la sfera dei consumi deve crescere insieme
alla sfera della produzione. Conseguentemente a) i consumi esistenti
devono essere espansi, b) i bisogni vengono ampliati coinvolgendo nuovi
strati di popolazione e c) vengono creati nuovi bisogni e nuovi valori
d’uso vengono scoperti e prodotti”.(11)
Per quanto la gran parte di questo scritto sia inserita nel contesto della “missione civilizzatrice” del capitalismo e non implichi, di per sé, una critica dei bisogni così creati, si può pensare che Marx tenesse contemporaneamente in considerazione i due contraddittori aspetti della realtà che analizzava, vale a dire il ruolo positivo del capitalismo, che crea uno sviluppo dei bisogni umani, e il suo ruolo negativo che distorce e mercifica questi bisogni. Comunque l’espandersi dei bisogni e dei desideri proletari, cui prima si accennava, potrebbe alla fine rimettere in discussione il confine fra consumi di massa e consumi che oggi vengono considerati “di lusso”. A questo proposito mi vengono in mente dei versi del poeta futurista russo Majakovskij che dicono :
“per l’orda sfrenata dei miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie”
non basta l’oro di tutte le Californie”
Trarre delle conclusioni da queste prime considerazioni sparse sulla composizione di classe non è facile. Quanto meno sarebbe necessario un ulteriore approfondimento di analisi e di inchiesta. In termini molto generali possiamo dire che, nella condizione attuale di crisi strutturale del capitalismo, il movimento di deintegrazione dei lavoratori prevale su quello di integrazione, ma che quest’ultimo riguarda comunque, almeno nel mondo occidentale, strati corposi di lavoro improduttivo legato alla circolazione del capitale finanziario, commerciale ecc. , alle attività di controllo e di repressione, alla difesa della proprietà privata, alla società dello spettacolo. E che una ridefinizione di un percorso di ricomposizione di classe non può essere pensato e praticato che a livello mondiale.
Bastino, per adesso, alcuni esempi per rendere l’idea. Novembre 2005 : la rivolta del proletariato metropolitano, precario e dequalificato, infiamma le banlieues parigine. Marzo 2006 : l’opposizione degli studenti al CPE, a difesa di alcune garanzie, assume toni di scontro violento e si generalizza a tal punto da costringere il governo francese a ritirare il provvedimento. Fra i due movimenti non si instaura alcun collegamento evidente, anzi si registrano alcuni episodi di tensione fra le due componenti. Nel corso del 2011 le masse subordinate della Tunisia e dell’Egitto, qualificabili probabilmente come proletariato di riserva, inscenano una rivolta dagli esiti comunque tuttora imprevedibili. Nel settembre di quest’anno gli operai della Foxconn di Shenzhen si ribellano contro i bassi salari e le condizioni di lavoro disumane. La lotta, una delle mille che avvengono in Cina quotidianamente, buca fortuitamente lo schermo dei media occidentali a causa della contemporanea uscita nei centri commerciali dell’iPhone5 della Apple, che viene prodotto in quella fabbrica, a costi naturalmente molto bassi. Un giornalista intraprendente ha quantificato i costi di produzione di questo oggetto dei desideri in 150 euro. Il prezzo al pubblico è di circa 600(12).
Forse è arrivato il momento di pensare e di praticare una nuova forma di internazionalismo proletario.
*Redazione di Connessioni
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