«Il nostro Sistema sanitario nazionale potrebbe non essere garantito
se non si individuano nuove modalità di finanziamento», ha dichiarato il
premier Monti martedì scorso. Tradotto: niente certezza della cura, la
sanità dobbiamo pagarcela da soli. Poco male: per noi “casta” dei
giornalisti è già così. Abbiamo una cassa sanitaria professionale, si
chiama Casagit, che ci garantisce senza spendere un euro un’assistenza
sanitaria completa, comprese le lenti da vista, le costosissime cure
dentistiche, riabilitazioni ortopediche. In pulitissime cliniche, senza
lista d’attesa. Splendido, no? Per la precisione, cotanto lusso non è
proprio gratis. Lo paghiamo nella nostra busta paga, un contributo
mensile, tanto più alto quanto più elevato è il salario. Quindi, se lo
Stato abbandona il diritto alla cura, per chi scrive e per i suoi
colleghi non è un problema. Oddio, non proprio per tutti i colleghi. I
giornalisti contrattualizzati, che sono sempre meno, stanno in una botte
di ferro. Ma i nostri collaboratori, quelli che sono pagati a pezzo, i
portavoce degli uffici stampa, la pletora di partite Iva delle
televisioni, loro la Casagit non ce l’hanno. Peggio per loro, no?
Ecco, la questione posta da Mario Monti funziona proprio così.
Siccome non possiamo permetterci più il diritto “universale” alla
salute, non esiste altra soluzione che “privatizzare” la sicurezza
sociale. La conseguenze è che solo chi lavora, è già forte
contrattualmente e ha paghe
più alte, può godere di quel diritto. Come in America: se lavori hai la
sanità, se no fatti tuoi. Si chiama “welfare contrattuale”, è una
battaglia della Cisl che sul tema aveva avviato un profondo dialogo con
l’ex ministro Maurizio Sacconi. Il tema è precipitato anche nel recente
accordo sulla produttività, non firmato dalla Cgil, dove si prevede di
detassare i contributi per il welfare contrattuale a livello nazionale e
aziendale. Secondo quell’accordo, addirittura, potrebbero esserci
sistemi di welfare diversi tra diverse aziende di uno stesso settore
produttivo. Se lavori in Maserati hai il welfare, se stai in Fiat no. E
tutti gli altri? Non resta che chiedere la carità. Non è una boutade. Lo
scriveva proprio Sacconi, nel suo libro bianco sul welfare. Servirebbe
l’opposto: poiché il mondo del lavoro è cambiato, e la certezza
dell’impiego è purtroppo un ricordo del passato, ci vuole un welfare
universalistico, che sostenga tutti: lavoratori e disoccupati, precari e
dipendenti stabili, anziani e giovani. Susanna Camsussosostiene che
l’accordo sulla produttività «sancisce il principio che prestazioni
pubbliche quali la sanità e il welfare possono trovare forme
complementari solo per una parte della popolazione, sottraendo risorse
pubbliche a beneficio di tutti». Tradotto: se i protetti “fanno da sé”
pagano meno tasse. E se pagano meno tasse si riducono le protezioni per
tutti i non protetti. Il welfare al contrario, l’egoismo fatto
principio. Possiamo dirlo chiaramente? Il premier, con questa
dichiarazione, dimostra la sua rispettabilissima natura politica. Il
professore si troverebbe del tutto d’accordo con le proposte portate
avanti da Romney che si opponeva al Medical care di Obama. è
ideologicamente e politicamente l’ultimo epigono di una stagione
dell’economia e della politica globale che si chiama neoliberismo. Che
ha portato alla più grande “redistribuzione” di risorse dal lavoro ai
ricchi che la storia recente ricordi. Ci risponderanno che il welfare è
un lusso che non possiamo permetterci, ce lo dice l’Europa, che ci
impone di tagliare la spesa pubblica. Ma se l’Europa davvero ha
l’obiettivo politico di distruggere i sistemi di welfare nazionali,
allora questa non è la nostra Europa. Non perché siamo “antieuropei”. Ma
perché Bruxelles (e Berlino) ha dimenticato di essere europea. Ormai è
americana, peggio di Romney.
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