domenica 25 novembre 2012

Il destino dell'Italia non è (ancora) scritto di Dino Greco



Persino il quotidiano di Carlo De Benedetti, principale supporter del governo Monti e maitre à penser del Partito democratico si sta accorgendo che qualcosa non va e che il distacco della politica dal paese reale sta assumendo i caratteri di una vera e propria frattura, non solo sociale, ma democratica.L'alleanza fra capitale e lavoro, il patto sociale che ha prodotto il welfare oggi in frantumi, come riconosce un preoccupato Ezio Mauro in un recente editoriale, non sono mai stati, però, come invece crede il direttore di Repubblica, frutto di un'alleanza, bensì di un compromesso provvisorio raggiunto dentro un conflitto sociale di ampie proporzioni, dentro una dura lotta di classe (oggi ripudiata dall'interclassismo del Pd) che aveva spostato verso il lavoro, per un intero decennio, i rapporti di forza, ma il cui pendolo è da un trentennio virato dall'altra parte del campo.
Un campo divenuto così forte da avere annichilito quello avverso, da averne disgregato le idee e la consapevolezza di sé, sino al punto di negare l'esistenza e la legittimità di un punto di vista diverso; sino al punto che, malgrado il carattere sistemico della crisi capitalistica, la grande borghesia continua ad esercitare un'egemonia reale; sino al punto che un pezzo della società, l'élite proprietaria, il capitale usurario, hanno sentenziato che “non ce n'è più per tutti” e che tre quarti della popolazione saranno abbandonati alla deriva.
La rottura del vincolo di destino comune inscritto nel compromesso democratico è assunta ormai dalle classi dominanti come un passaggio strategico. Per questo esse muovono all'attacco dei diritti di cittadinanza e archiviano definitivamente il progetto politico della Costituzione e tutta la produzione legislativa da essa scaturita, a partire dal diritto del lavoro, indebolito da vent'anni di manomissioni ed infine decapitato dal colpo di grazia infertogli da Berlusconi prima e da Monti poi.
Questo catastrofico esito è stato possibile per la resa senza condizioni delle forze sociali e politiche che in passato avevano incarnato la rappresentanza del lavoro. Da una parte, un sindacato che si è in larghissima parte trasformato in ammortizzatore, in anestetico di quel conflitto sociale che avrebbe invece dovuto promuovere, guidare e che oggi appare disarmato, sicché le esplosioni di rabbia e di disperazione operaia, abbandonate a se stesse, rifluiscono nell'isolamento e nella sconfitta; dall'altra, il Partito democratico, che ha definitivamente portato a compimento la sua metamorfosi culturale e politica sino a fare propria l'ideologia mercatistica e monetarista, icasticamente riassunta nella Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti posta a base della futura alleanza di centrosinistra: un partito, il Pd, che nel pieno di una crisi drammatica di cui non riesce ad avvertire proporzioni ed effetti sociali mette in scena il teatrino dei pupi delle primarie, in cui rincula pateticamente la concezione residuale di una democrazia malata, tutta effetti speciali, ma sideralmente lontana dai drammi che attraversano la vita delle persone.
In questo surreale scenario si scatena la violenza del potere, la violenza di stato, che riemerge oggi con chirurgica precisione, come in ogni fase di svolta politica: botte ai cittadini della Valle Susa; botte ai facchini dell'Ikea di Piacenza a protezione della multinazionale svedese che licenzia per ritorsione i delegati sindacali; botte agli operai della Carbonsulcis e dell'Alcoa in una Sardegna rasa al suolo, senza che si muova foglia, da un processo di totale deindustrializzazione;  botte, condite da incredibili scene di caccia all'uomo, agli studenti, ai giovani che mercoledì 14 novembre manifestavano contro il furto di futuro che  travolge le loro vite. La sequenza dei lacrimogeni sparati sul corteo dal palazzo di giustizia ha qualcosa di torbidamente simbolico: è la rappresentazione militare di ciò che la politica economico-sociale liberista sta facendo e che non a caso Monti chiama – senza parafrasi – guerra. Muta, dunque, la natura del potere che si libera della democrazia per lasciare il campo alla dittatura diretta, senza intermediari, del capitale.
Può darsi che basti tracciare una strada non deragliabile, chiunque governi nel futuro, come Monti ha detto qualche settimana fa a New York davanti al gotha finanziario mondiale. Come può darsi che l'oligarchia dei poteri economici dominanti gli chieda di continuare a farlo in proprio, ma nell'uno come nell'altro caso la rotta è chiarissima.
Se non ci si vuole rassegnare a commentare ciò che accade e a guardare dal buco della serratura gli sviluppi della politica politicante, occorre lavorare con una chiarezza e una determinazione che sino ad ora sono mancate su quattro terreni di fondo.
Innanzitutto dobbiamo renderci capaci di un'analisi della crisi e di una proposta tali da produrre una nuova narrazione di senso comune. In questo senso abbiamo fatto molto, quando altri brancolavano nel buio, ma ancora non ci siamo.
L'invocazione di un'Europa democratica, nel contesto presente, è un canto alla luna: si rischia di dire cose astrattamente giuste, ma prive di realtà, e di lavorare inconsapevolmente per il re di Prussia, perché ogni scelta è oggi sovraordinata dai poteri forti e costretta a scorrere su binari che frantumano ogni margine di sovranità nazionale.
Allora va bene disdettare unilateralmente tutti i patti iugulatori (da Maastricht all'obbligo del pareggio di bilancio al Fiscal compact), mirando al cuore stesso di un sistema e di un blocco di potere. Ma bisogna sapere che in un'Europa che esiste solo in virtù di un vincolo monetario e di un patto di stabilità, un secondo dopo avere fatto saltare il banco saremo fuori dall'euro, e a quel punto bisognerà avere già un'idea compiuta, una strategia, un progetto di governo, una prospettiva economica e sociale diversa da indicare al paese dentro una recuperata sovranità nazionale. Cosa, come è facile capire, alquanto complicata e impegnativa, ma se non lo facciamo o restiamo nel vago vincono gli altri: per abbandono del campo di gioco.
Nello stesso tempo bisogna mettere in rete, unificare i movimenti, le sollevazioni parziali, quasi sempre scollegate fra loro (e talvolta contraddittorie) per imprimere ad esse il carattere di un movimento politico di massa senza il quale ogni buon proposito e  ogni buona idea finiscono in chiacchiera o in accademia.
Poi, in relazione alla prossima scadenza elettorale, va costruita una proposta di governo complessiva, fatta di pochi, chiari punti di snodo: non propagandistici, eppure radicali, radicali e per ciò stesso credibili. Non basta cioè dire: siamo contro Monti. Dobbiamo fare capire a tutti cosa faremmo noi al suo posto.
Infine, bisogna liberarsi di ogni tentazione settaria, di ogni ripiegamento autistico, di ogni logica autoreferenziale per unire, solo ed unicamente sulla base del programma, dei contenuti, tutte le forze che in quel programma si riconoscono.
Questo obiettivo deve essere perseguito non solo attraverso l'interlocuzione fra stati maggiori centrali, ma liberando, nei territori, l'iniziativa e il protagonismo dei nostri circoli, guardando alla nostra sinistra e alla nostra destra, senza preclusioni, coinvolgendo tutte le soggettività sociali e politiche che abbiamo incontrato e avuto a fianco nel proteiforme conflitto di questi anni, in ogni piega della società.
Bisogna muoversi rapidamente, perché siamo già in ritardo.
L'attesa, la paura dell'isolamento, dell'inadeguatezza delle forze dell'alternativa, diventa una profezia che si autodetermina e che rischia di portarti lì, esattamente dove non devi andare, nella marginalità e nell'irrilevanza: stare attaccati al bordo della piscina per paura dell'acqua alta significa non comprendere che quel bordo non c'è più e che si rischia di annegare nei propri dubbi.
Insomma, è proprio agendo che sparigli le carte e diventi protagonista. Se ti affidi agli altri, se aspetti che la realtà evolva per dinamiche proprie senza porvi mano, certifichi la tua subalternità, la tua vocazione gregaria e – alla fine – la tua meritata invisibilità politica.

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