Tutto si può dire della lettera
pubblicata ieri dal «manifesto», meno che usi mezze misure. Parlare di
furto di informazione non è uno scherzo: perché, dunque, questi toni?
Credo che la denuncia muova da una convinzione: oggi, nel trattare della
crisi economica e delle politiche che dovrebbero arginarla, la stampa
italiana (ma il discorso vale probabilmente anche su scala europea) non
svolge la funzione che le competerebbe: quella di spiegare in modo
comprensibile gli eventi. Fa perlopiù esattamente il contrario: ripete
l’interpretazione ufficiale, la presenta come l’unica possibile e, così
facendo, impedisce ai non addetti ai lavori di capire che cosa sta
succedendo da cinque anni a questa parte.
In altri termini, la stampa opera come uno schermo opaco, ostacolando la formazione dell’opinione pubblica.
Che cosa continuiamo a leggere sulle pagine dei maggiori quotidiani? E che cosa ci raccontano i telegiornali e gli opinionisti chiamati a dibattere della crisi nei dibattiti televisivi? Una cosa soltanto: la crisi sarebbe nata dall’indebitamento degli Stati, dovuto agli eccessi della spesa pubblica e all’ingordigia dei lavoratori dipendenti. Sarebbe cioè l’effetto di una «crisi fiscale», provocata dall’esorbitante costo delle pensioni, della sanità e della scuola; e sarebbe altresì la conseguenza di salari e stipendi troppo alti, pagati a lavoratori troppo numerosi e poco produttivi. Arrivati a un certo punto, i cosiddetti mercati si sarebbero stancati di finanziare un sistema insostenibile, e avrebbero ragionevolmente preteso garanzie di stabilità e solvibilità dei bilanci pubblici. Stando così le cose, una sola strada appare percorribile: quella di una drastica cura dimagrante, fatta di tagli alla spesa, di più tasse e di licenziamenti.
In sostanza, la grande narrazione dispensata da giornali e televisioni trasmette ai cittadini un quadro senza vie d’uscita che non siano la povertà dilagante e, soprattutto, senza alternative. Ma è sicuro che le cose stiano in questi termini? Non è affatto sicuro. Moltissimi economisti, del calibro di Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Jean-Paul Fitoussi – per fare solo qualche nome – hanno un’opinione del tutto diversa. Ricordano che la crisi è nata dal debito privato (di banche, finanziarie, fondi d’investimento e imprese di assicurazione) e solo in un secondo momento ha coinvolto il debito degli Stati (che hanno usato denaro pubblico per risanare i bilanci privati). Sostengono che la strada dei tagli e del cosiddetto rigore è suicida, poiché impedisce la crescita economica, unica possibile soluzione della crisi. Ripetono che bisognerebbe ridurre le enormi disuguaglianze che caratterizzano le nostre società in questa fase storica. E soprattutto affermano che da questa situazione non si uscirà senza una regolamentazione del sistema finanziario, che argini la speculazione e protegga l’economia reale.
Ognuno, si dirà, è libero di pensarla come vuole. Ma proprio questo è il punto. Come può il cittadino prendere posizione su tali questioni se il giornale che legge e la televisione che lo informa continuano a fare come se questa discussione nemmeno esistesse e l’interpretazione della crisi che ispira le politiche del rigore fosse l’unica possibile?
Qualcuno, leggendo la lettera sul furto d’informazione, ha detto che essa attribuisce alla stampa la colpa della crisi. È una lettura semplicistica e paradossale. Se crediamo davvero che l’informazione libera sia un elemento chiave della democrazia, non dovremmo poi affermare che la stampa si limita a «riportare i fatti», come se i fatti parlassero da soli. Questa maldestra difesa si ritorce contro la stampa, riducendola a portavoce del potere politico. In realtà, l’informazione libera è un ingrediente fondamentale di un sistema democratico perché interpreta i fatti e, così facendo, modifica in misura rilevante la realtà. Le idee, i giudizi, le spiegazioni fornite dagli organi di informazione contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. E non occorre scomodare Orwell per capire che, se queste idee, questi giudizi, queste spiegazioni si riducono alla ripetizione di «verità rivelate», l’opinione pubblica non può svilupparsi, e il consenso che la cittadinanza esprime non può essere definito in senso proprio «democratico».
Un’ultima considerazione. In Italia, come in tante altre parti d’Europa, molta gente vive male e sempre peggio. Milioni di persone perdono il lavoro o temono di perderlo. Milioni di giovani, diplomati e laureati, non trovano uno straccio di occupazione. Non hanno reddito o guadagnano troppo poco per vivere dignitosamente. Milioni di famiglie si indebitano e sono costrette a rinunciare a beni fondamentali, come la salute e la conoscenza. È così difficile, in questa situazione, immaginare l’impatto sociale e politico di un’informazione libera sulle cause della crisi e le possibile vie d’uscita? Forse, se agli italiani che pagano le tasse e vivono sempre più poveramente e precariamente si dicesse che questo stato di cose deriva da un sistema iniquo che può essere cambiato – e non dal volere incontrastabile delle nuove divinità, chiamate Spread e Mercati –, questo paese sarebbe un po’ meno rassegnato di quanto non appaia. Certo, questo provocherebbe qualche inconveniente. Si verificherebbe qualche turbolenza, e il governo di turno – tecnico o non tecnico – dovrebbe sforzarsi di rispondere alle domande poste dal paese. Sarebbe una strada per certi versi più difficile. Ma la politica si muoverebbe più in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione.
Che cosa continuiamo a leggere sulle pagine dei maggiori quotidiani? E che cosa ci raccontano i telegiornali e gli opinionisti chiamati a dibattere della crisi nei dibattiti televisivi? Una cosa soltanto: la crisi sarebbe nata dall’indebitamento degli Stati, dovuto agli eccessi della spesa pubblica e all’ingordigia dei lavoratori dipendenti. Sarebbe cioè l’effetto di una «crisi fiscale», provocata dall’esorbitante costo delle pensioni, della sanità e della scuola; e sarebbe altresì la conseguenza di salari e stipendi troppo alti, pagati a lavoratori troppo numerosi e poco produttivi. Arrivati a un certo punto, i cosiddetti mercati si sarebbero stancati di finanziare un sistema insostenibile, e avrebbero ragionevolmente preteso garanzie di stabilità e solvibilità dei bilanci pubblici. Stando così le cose, una sola strada appare percorribile: quella di una drastica cura dimagrante, fatta di tagli alla spesa, di più tasse e di licenziamenti.
In sostanza, la grande narrazione dispensata da giornali e televisioni trasmette ai cittadini un quadro senza vie d’uscita che non siano la povertà dilagante e, soprattutto, senza alternative. Ma è sicuro che le cose stiano in questi termini? Non è affatto sicuro. Moltissimi economisti, del calibro di Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Jean-Paul Fitoussi – per fare solo qualche nome – hanno un’opinione del tutto diversa. Ricordano che la crisi è nata dal debito privato (di banche, finanziarie, fondi d’investimento e imprese di assicurazione) e solo in un secondo momento ha coinvolto il debito degli Stati (che hanno usato denaro pubblico per risanare i bilanci privati). Sostengono che la strada dei tagli e del cosiddetto rigore è suicida, poiché impedisce la crescita economica, unica possibile soluzione della crisi. Ripetono che bisognerebbe ridurre le enormi disuguaglianze che caratterizzano le nostre società in questa fase storica. E soprattutto affermano che da questa situazione non si uscirà senza una regolamentazione del sistema finanziario, che argini la speculazione e protegga l’economia reale.
Ognuno, si dirà, è libero di pensarla come vuole. Ma proprio questo è il punto. Come può il cittadino prendere posizione su tali questioni se il giornale che legge e la televisione che lo informa continuano a fare come se questa discussione nemmeno esistesse e l’interpretazione della crisi che ispira le politiche del rigore fosse l’unica possibile?
Qualcuno, leggendo la lettera sul furto d’informazione, ha detto che essa attribuisce alla stampa la colpa della crisi. È una lettura semplicistica e paradossale. Se crediamo davvero che l’informazione libera sia un elemento chiave della democrazia, non dovremmo poi affermare che la stampa si limita a «riportare i fatti», come se i fatti parlassero da soli. Questa maldestra difesa si ritorce contro la stampa, riducendola a portavoce del potere politico. In realtà, l’informazione libera è un ingrediente fondamentale di un sistema democratico perché interpreta i fatti e, così facendo, modifica in misura rilevante la realtà. Le idee, i giudizi, le spiegazioni fornite dagli organi di informazione contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. E non occorre scomodare Orwell per capire che, se queste idee, questi giudizi, queste spiegazioni si riducono alla ripetizione di «verità rivelate», l’opinione pubblica non può svilupparsi, e il consenso che la cittadinanza esprime non può essere definito in senso proprio «democratico».
Un’ultima considerazione. In Italia, come in tante altre parti d’Europa, molta gente vive male e sempre peggio. Milioni di persone perdono il lavoro o temono di perderlo. Milioni di giovani, diplomati e laureati, non trovano uno straccio di occupazione. Non hanno reddito o guadagnano troppo poco per vivere dignitosamente. Milioni di famiglie si indebitano e sono costrette a rinunciare a beni fondamentali, come la salute e la conoscenza. È così difficile, in questa situazione, immaginare l’impatto sociale e politico di un’informazione libera sulle cause della crisi e le possibile vie d’uscita? Forse, se agli italiani che pagano le tasse e vivono sempre più poveramente e precariamente si dicesse che questo stato di cose deriva da un sistema iniquo che può essere cambiato – e non dal volere incontrastabile delle nuove divinità, chiamate Spread e Mercati –, questo paese sarebbe un po’ meno rassegnato di quanto non appaia. Certo, questo provocherebbe qualche inconveniente. Si verificherebbe qualche turbolenza, e il governo di turno – tecnico o non tecnico – dovrebbe sforzarsi di rispondere alle domande poste dal paese. Sarebbe una strada per certi versi più difficile. Ma la politica si muoverebbe più in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione.
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