Nel suo rapporto sulla povertà, Istat ci
dice che quella relativa (che si verifica quando una famiglia di due
persone ha un reddito mensile spendibile inferiore a 1.011 euro) è
sostanzialmente stabile. Già sarebbe un dato pessimo, ma l’istituto
statistico ci avverte che si tratta di una media derivante dal migliore
andamento delle famiglie di impiegati e dirigenti e dal netto
peggioramento di quelle operaie. Così un’area di 8,1 milioni di persone
pari all’11,1% dei nuclei familiari si trova in condizione di povertà
relativa, mentre 3,4 milioni di questi cittadini hanno varcato la soglia
della povertà assoluta.
Tra questi aumentano di un punto in
percentuale in più rispetto all’anno scorso, le famiglie operaie. Le
cause di questa falcidie dei redditi operai sono più d’una. Anche dove
il lavoro è stato mantenuto, il reddito – già inferiore all’aumento
della produttività – è decurtato dall’aumento della cassa integrazione e
dal crollo del lavoro straordinario (che Sacconi voleva incentivare…).
Poi vi è il fenomeno del ritorno a casa o del part time obbligato delle donne lavoratrici che depriva la famiglia di una buona parte delle entrate. A questo punto si inserisce il dramma dei figli che non trovano lavoro o che si devono accontentare del precariato. I nuovi dati ci vengono forniti da Bankitalia e Unioncamere. Se all’inizio del 2012 il lavoro stabile riguardava solo tre posti su dieci, nel giro di sei mesi la situazione è nettamente peggiorata a due su dieci.
Secondo Bankitalia fra il 2006 e il 2010 le famiglie hanno visto entrare nelle loro tasche 880 euro in meno. Ma se ci si riferisce agli operai la perdita è assai più vistosa: 1.236 euro in meno nel giro di quattro anni. Le loro retribuzioni non hanno aspettato l’inizio della crisi per diminuire, l’hanno anticipata di ben due anni, per correre al ribasso ancora più velocemente dal suo inizio in poi. Contrariamente alla vulgata dominante, non sono i giovani che mantengono i pensionati, ma il contrario, poiché, malgrado la loro erosione dovuta alla mancata indicizzazione, le pensioni in essere resistono meglio dei redditi da lavoro. Questo stato di cose fa sì che anche la nascita di un solo figlio può gettare un’intera famiglia nella condizione di povertà. Come ha giustamente osservato Chiara Saraceno, studiosa di lungo corso di queste tematiche, questo blocca la crescita demografica del paese e dilata il crudele fenomeno della povertà minorile.
Già prima d’ora i bambini e i ragazzi italiani – e particolarmente quelli che vivono nel Mezzogiorno – erano mediamente più poveri dei loro coetanei europei. Adesso il dato è destinato ad aumentare. A ciò va aggiunto il crescente fenomeno dei Neet, acronimo inglese che individua chi tra i giovani non è al lavoro, né a scuola né in un corso di formazione. In questo modo, e questo è forse il frutto più avvelenato della crisi, circa un quarto delle giovani generazioni, già ridotte nel numero dal calo demografico, è destinato alla miseria e alla marginalità ed è deprivato di futuro. Una gioventù bruciata e una classe operaia all’inferno.
Questo è il risultato non solo della crisi economica mondiale provocata dall’attuale modello di sviluppo, ma soprattutto delle politiche rigoriste europee e italiane. Servirebbe l’esatto contrario, ovvero una politica economica che sviluppi le possibilità di lavoro in settori innovativi e al contempo assicuri un reddito minimo – come avviene nel resto d’Europa – agli inoccupati e ai disoccupati per aiutarli a trovare un lavoro decente. Invece il parlamento italiano si è affrettato a ratificare il fiscal compact che ci condanna per venti anni alla riduzione della spesa sociale e degli investimenti pubblici. Il fallimento di Monti e delle politiche europee non si misura solo con lo spread, ma soprattutto con queste dure cifre che ci danno la terribile misura della crisi reale.
Poi vi è il fenomeno del ritorno a casa o del part time obbligato delle donne lavoratrici che depriva la famiglia di una buona parte delle entrate. A questo punto si inserisce il dramma dei figli che non trovano lavoro o che si devono accontentare del precariato. I nuovi dati ci vengono forniti da Bankitalia e Unioncamere. Se all’inizio del 2012 il lavoro stabile riguardava solo tre posti su dieci, nel giro di sei mesi la situazione è nettamente peggiorata a due su dieci.
Secondo Bankitalia fra il 2006 e il 2010 le famiglie hanno visto entrare nelle loro tasche 880 euro in meno. Ma se ci si riferisce agli operai la perdita è assai più vistosa: 1.236 euro in meno nel giro di quattro anni. Le loro retribuzioni non hanno aspettato l’inizio della crisi per diminuire, l’hanno anticipata di ben due anni, per correre al ribasso ancora più velocemente dal suo inizio in poi. Contrariamente alla vulgata dominante, non sono i giovani che mantengono i pensionati, ma il contrario, poiché, malgrado la loro erosione dovuta alla mancata indicizzazione, le pensioni in essere resistono meglio dei redditi da lavoro. Questo stato di cose fa sì che anche la nascita di un solo figlio può gettare un’intera famiglia nella condizione di povertà. Come ha giustamente osservato Chiara Saraceno, studiosa di lungo corso di queste tematiche, questo blocca la crescita demografica del paese e dilata il crudele fenomeno della povertà minorile.
Già prima d’ora i bambini e i ragazzi italiani – e particolarmente quelli che vivono nel Mezzogiorno – erano mediamente più poveri dei loro coetanei europei. Adesso il dato è destinato ad aumentare. A ciò va aggiunto il crescente fenomeno dei Neet, acronimo inglese che individua chi tra i giovani non è al lavoro, né a scuola né in un corso di formazione. In questo modo, e questo è forse il frutto più avvelenato della crisi, circa un quarto delle giovani generazioni, già ridotte nel numero dal calo demografico, è destinato alla miseria e alla marginalità ed è deprivato di futuro. Una gioventù bruciata e una classe operaia all’inferno.
Questo è il risultato non solo della crisi economica mondiale provocata dall’attuale modello di sviluppo, ma soprattutto delle politiche rigoriste europee e italiane. Servirebbe l’esatto contrario, ovvero una politica economica che sviluppi le possibilità di lavoro in settori innovativi e al contempo assicuri un reddito minimo – come avviene nel resto d’Europa – agli inoccupati e ai disoccupati per aiutarli a trovare un lavoro decente. Invece il parlamento italiano si è affrettato a ratificare il fiscal compact che ci condanna per venti anni alla riduzione della spesa sociale e degli investimenti pubblici. Il fallimento di Monti e delle politiche europee non si misura solo con lo spread, ma soprattutto con queste dure cifre che ci danno la terribile misura della crisi reale.
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