La vicenda di Syriza in Grecia parla indubbiamente anche a noi in
Italia. Dice alcune cose chiare: che la sinistra può avere senso e ruolo
se non si perde in una sterile discussione sulle alleanze o sulle
mediazioni, che restano proiettate tutte all'interno del teatro dato
della politica istituzionale. Che il punto qui è anche uscire da una
concezione angusta della sinistra, per farsi carico di una crisi della
democrazia che si risolve solo con la democrazia: dando voce, spazio e
rappresentanza a ciò che vive fuori dalle istituzioni. Siamo in una una
sorta di fase costituente, che è stata aperta dal capitale, nella quale
ci si vuole liberare della mediazione con il lavoro e insieme della
democrazia. Non c'è niente da decidere infatti. Non ci sono alternative.
Si tratta solo di affidarsi a tecnici competenti. La democrazia
costituzionale si salva se si è capaci di tornare a costruire relazioni
nella società, corpi intermedi, spazi pubblici allargati, e a porre
domande radicali di senso. In Grecia si è votato fra opzioni chiare e in
grado di entrare nel merito delle questioni che sono sul tappeto per
l'intera Europa. Come si esce dalla crisi economica, con quale modello
di società e di vita, di rapporto con l'ambiente e la natura. Ci si è
detti chiaramente europeisti, ma per un'altra Europa. Da noi invece si
ragiona di un centro-sinistra che è diventato una nebulosa indefinita
che tutto contiene – e tutto distrugge. E si discute di primarie fra
soggetti politici che vanno dal neoliberismo senza se e senza ma di
Renzi, all'antiliberismo etico ed estetico di Vendola. Come se la
soluzione fosse chiedere al popolo la linea dell'alleanza. Il popolo
decide fra opzioni radicalmente diverse, certo, ma quelle sono allora
elezioni politiche, non primarie. Che prevederebbero un terreno comune
nel confronto, una qualche appartenenza comune legata a contenuti.
Senza, il gioco rischia inevitabilmente di essere allo sfascio. Chi
vince resta e chi perde se ne va. Il modello di Syriza, tuttavia, mi
pare insufficiente per l'Italia. L'idea di sommare semplicemente le
forze politiche in una federazione che riconosce sì le differenze, ma le
lascia anche libere di consolidarsi nel loro patriottismo di sigla e di
lettura della realtà, a me pare che decisamente non basti. Perché la
soluzione per la sinistra e la democrazia italiana non sta nella somma
dell'esistente – peraltro assai difficile se i protagonisti sono gli
stessi dei disastri di questi anni, così chiusi nei loro gruppi
dirigenti, nei modelli organizzativi tipici del partito novecentesco,
gelosi delle loro tradizioni e delle loro sconfitte. Per trovare una
soluzione all'afasia e all'insignificanza della politica occorre,
secondo me, guardare decisamente fuori. Fuori da noi. Cercare fra gli
assenti alle nostre riunioni. Pensare ai giovani e a tutte e tutti
coloro che fanno politica lontano dai canoni della militanza vecchio
stile – del tipo mi faccio il culo oggi per vincere domani e cambiare il
mondo dopodomani: dal potere. In realtà quel mondo è apparso spesso
negli ultimi dieci anni. A partire dal movimento che ha riempito Genova e
Firenze nel 2001 e 2002, per finire alle piazze piene di donne e uomini
del 2011. E' un mondo che ha fatto politica in altro modo e ha
costruito l'esperienza straordinaria del movimento per l'acqua, che ha
portato alla vittoria del referendum. Che ha difeso la Costituzione,
finalmente riconosciuta come la grammatica di un discorso collettivo, la
carta di identità di un popolo e dei suoi valori. È anche un mondo che
tutte le volte che ha intravisto dei varchi per arrivare a incidere
sulle istituzioni li ha usati. Penso alle primarie e alle amministrative
di Milano. E poi Napoli, e poi Genova. Però a me sembra che questa
parte ancora viva della società italiana - viva malgrado gli anni del
berlusconismo e poi i mesi del post-berlusconismo, che sembrano così
interessati a completarne (con altro stile) l'opera – chieda un
cambiamento radicale delle forme e dei contenuti della politica. Non
semplicemente aggiungere, sulla base di un comune denominatore minimo,
ciò che esiste, frammentato in tante sigle a sinistra. Non semplicemente
costituire liste civiche che completino l'offerta sul mercato
elettorale, per rendere più attraente e presentabile il solito paesaggio
triste di volti e marchi. Occorre un rinnovamento radicale delle forme
politiche. Una rivoluzione democratica nei soggetti che rischi tutto
quello che c'è da rischiare pur di aprire spazi e tempi a quel desiderio
di partecipazione e di politica che attraversa ancora la società
italiana. Dentro questa radicale democrazia, quasi nello stesso “gesto”
politico e culturale che ricostruisce un tessuto e una capacità di
ascolto reciproco e inclusivo, si pongono in realtà le questioni
fondamentali che parlano di un altro modello di società, di difesa dei
beni comuni, di lavoro come radice di dignità personale e appartenenza
alla polis, di critica della mercificazione universale che sembra ormai
devastare le nostre vite. Di una riconversione ecologica dell'economia
che può indicare la strada per uscire dalla sterile alternativa fra
rigore e sviluppo – comunque connotata da una concezione quantitativa,
economicistica e produttivistica della società.
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