di Alex Corlazzoli,
Il Fatto Quotidiano
Troppo facile prendersela con quel ragazzo manifestante NoExpo.
Troppo comodo. E’ chiaro: sono contro ogni violenza e, soprattutto,
contro questa violenza andata in scena per le strade di Milano. Ma
scaraventarsi contro le parole di quell’ingenuo giovane intervistato da Tgcom24, scatenando in Facebook una banale gogna da social network è il simbolo della superficialità di questo Paese. Ieri qualche codardo ha persino aperto un profilo falso con il nome di quel ragazzo per vomitargli addosso solo rabbia.
Provate ad ascoltare con attenzione quello che dice: “Era una
protesta. In una protesta si fa bordello. E’ giusto così perché dobbiamo
fare sentire la nostra voce e se non lo capiscono con le buone prima o
poi lo capiranno in una altro modo. Tra i politici e le persone normali
c’è un divario enorme e poi loro rubano. Ho avuto un pochino paura, più
che altro ero esaltato perché avrei voluto avere in mano qualcosa per
spaccare. E’ stata una bellissima esperienza. La banca è l’emblema della
ricchezza, se non dò fuoco alla banca sono un coglione”. E al
rimprovero del giornalista di fronte alle parolacce il ragazzo replica:
“Scusa forse mi esprimo male ma se ti dico le parolacce è perché ci sto
davvero dentro altrimenti sarei una persona che è venuta qua così, uno
che ha i soldi. Io cerco di essere dentro le emozioni. Quando c’è casino
mi ritrovo in mezzo faccio casino anch’io, mi diverto”.
Lui è un ‘poveraccio’. Me la prendo con suo padre e sua madre: dove
sono? Me la prendo con i suoi maestri: che cosa gli hanno insegnato? Me
la prendo con la politica: perché questo ragazzo pensa così di loro?
Non sono figli di nessuno questi adolescenti o post adolescenti
travestiti da grandi. Non sono arrivati da Marte. Sono i figli di una
generazione che non ha fatto un nulla per loro. Sono i figli di una
scuola che non ha più insegnato educazione civica, che non ha più fatto
ascoltare loro quel “I have a dream” di Martin Luther Khing; che non ha
più raccontato loro dei fratelli Cervi, dei partigiani.
Sono i figli di una politica dei “sempre quelli, sempre loro”. Troppo facile oggi stare tutti da una parte. Troppo comodo. Qualcuno ieri ha citato la madre di Baltimora che ha protetto il figlio durante gli scontri prendendolo a schiaffi.
In Italia, non abbiamo madri di Baltimora. E non abbiamo la politica e
la scuola che vorremmo. Chiedete ad un ragazzino di dieci anni cosa
pensa dei nostri parlamentari vi risponderà: “Sono quelli con i soldi,
quelli che rubano, quelli che si addormentano e non fanno mai nulla. Li
fanno vedere a Striscia”.
Certo, questo non giustifica la violenza, il suo scatenarsi contro le banche, ma questo ragazzo è figlio del nostro tempo,
non è venuto dal nulla. In quelle parole ci racconta come una parte di
quella generazione vede il mondo: i politici e le persone normali; le
banche e la povertà; chi è dentro e chi è fuori le emozioni, il
bordello. Inutile prendersela con lui. Ripartiamo da lui, dalle sue parole se vogliamo davvero che cambi qualcosa.
Aldo Giannuli (storico)
Quanto è accaduto ieri, 1 maggio, a Milano, merita una riflessione a
mente fredda, senza reazioni emotive. Il che non significa affatto
giustificare neanche un po’ l’operato delle tute nere, che va condannato
con nettezza e senza sconti di sorta, ma chiedersi il perché di queste
forme di protesta.
Per un momento terrei separate le occasioni come quelle di ieri da
episodi come la lotta alla Tav o simili: sono cose che hanno punti di
contatto, ma che occorre tenere distinte.
Così come va tenuta distinta questa area “violentista” dal mondo dei centri sociali in quanto tali (che,
ad esempio, ieri in gran parte non hanno partecipato a gli scontri),
anche se farebbero bene a pensare ad una dissociazione pubblica e netta
rispetto a quell’altra area. E qui mi pare che Fedez abbia detto cose
molto giuste.
Per cui ieri, in realtà, non c’è stata una manifestazione ma due: quella delle 500 tute nere e quella delle migliaia di partecipanti alla Mayday che
sono restati perfettamente estranei agli scontri. E la stampa ha dato
massimo risalto ai devastatori ignorando quasi del tutto gli altri,
facendo così il gioco dei primi.
Per ora parliamo della manifestazione delle tute nere. Ormai gli
incidenti, gli scontri con la polizia, le vetrine sfasciate e le auto
incendiate, in coincidenza con eventi di una certa risonanza mediatica,
sono un evento regolare come la pioggia in autunno ed il sole a
ferragosto. Diventa necessario cercare di capire, partendo
dalle motivazioni di chi mette in atto queste forme di lotta. La prima
evidenza che balza agli occhi è la ricerca di visibilità: tutti eventi
dove si sa di poter contare sulla presenza di telecamere e giornalisti
in quantità, per cui gli incidenti occuperanno le prime pagine dei
giornali e l’apertura dei telegiornali. E i titolo a tutta pagina che
ingigantiscono gli scontri al di là della loro reale portata (la puntura
di spillo all’ elefante del potere politico e finanziario) sono miele
per le tute nere e simili, che si confermano nell’idea di un
protagonismo di cui altri non sono capaci.
Queste proteste sono figlie della “società dello spettacolo” dove tutto, anche il conflitto, è “rappresentato” esattamente come a teatro. Una sorta di living theatre in piazza.
La seconda evidenza è l’inconsistenza delle motivazioni dichiarate:
alzi la mano chi ha capito cosa volevano e contro chi protestavano.
Ascoltate con attenzione l’intervista ad un giovanissimo manifestante
data Tgcom 24:
un misto di pulsioni ormonali adolescenziali ( “più che altro ero
esaltato e volevo qualcosa in mano per spaccare qualcosa.. però è stata
una bella esperienza”) un malessere acuto e, soprattutto un bisogno di
autoaffermazione: “dobbiamo far sentire la nostra voce”. Peccato che,
salvo un accenno genericissimo ai “politici che rubano” e alla “banca
che è l’emblema della ricchezza” la “voce” non dicesse nulla. Certo
l’Expo è stata la grande occasione del nostro ceto politico di ladri, ma
la denuncia di queste ruberie era nell’azione del corteo my day, per le
tute nere era solo un pretesto per sfasciare tutto, dando sfogo ad un
nichilismo anarcoide (leggete bene: non ho scritto anarchico, ho scritto
anarcoide). A loro interessa solo dire “ci siamo” ed il fine del loro
movimento è puramente autoaffermativo e identitario. Il
che si combina perfettamente con la ricerca di occasioni di
spettacolarizzazione. Ne consegue il rifiuto di ogni proposta e della
stessa dimensione politica: questo è un movimento dell’antipolitica. Ma
anche antisociale: se è una protesta è giusto spaccare tutto, anche la
macchina di un povero diavolo che sta ancora pagando il mutuo e non è
per niente un uomo di potere, però ha il torto di “non stare con noi a
protestare”. Da cui discende il carattere fondamentalista del movimento,
che non cerca interlocuzioni, confronti, mediazioni ma solo
l’affermazione della propria identità e la delegittimazione di ogni
altra. Da questo punto di vista, questo fondamentalismo è il rovescio
della medaglia di quello neo liberista, anche questo è una forma di
“pensiero unico” non interessato al confronto.
Il terzo elemento è il rifiuto della modernità espresso,
anche qui, nella ricerca dei simboli da colpire: non la speculazione
finanziaria, ma la banca in quanto tale, non il lusso antiegualitario ma
la vetrina del negozio qualsiasi perché simbolo del commercio. Ed anche
l’ambientalismo professato è rifiuto di tutto quanto non sia “stato di
natura”. Nei pressi della mia facoltà c’è una scritta che racchiude
tutto un immaginario: “Grandi opere = Grandi Scontri”. Perché Grandi
opere non possono essere che devastanti per l’ambiente, finalizzate ad
una qualche tangente e dannosa per chi ci abita intorno. Che possano
esserci grandi opere socialmente utili, rispettose dell’ambiente e dei
diritti degli abitanti, non è cosa presa neppure in considerazione,
perché è qualsiasi intervento industriale e cantieristico ad essere
rifiutato.
E qui io distinguerei il caso della No Tav, che è la protesta delle
popolazioni interessate contro quella determinata opera e per le
modalità con cui essa è realizzata, realmente dannose per l’ambiente e
per l’economia locale, e non è il rifiuto dell’opera in quanto tale.
Questa protesta assume la forma di una guerriglia cittadina di cui
non deve sfuggire la raffinatezza: l’uso di una divisa (le giacche e
tute nere) durante l’azione, da abbandonare subito dopo per sfuggire
alla polizia, l’uso dei fumogeni per confondere la scena a facilitare la
ritirata, le forme di azione coordinata dei piccoli gruppi ecc. Si
direbbe che quello stesso principio di organizzazione, negato per
l’azione politica e rivendicativa, sia riscoperto ed applicato
nell’azione violenta e denuncia una progressione di questo tipo di
movimenti in chiave militarista che non va sottovalutato. Non sono un
legalitario ed un non violento ed ammetto che in determinate circostanze
particolarmente gravi (cito il luglio 1960, per capirci) possa esserci
un uso proporzionato della violenza, ma qui siamo di fronte ad una
esaltazione della violenza in quanto tale. Essa cessa di essere mezzo
per combattere qualcosa e diventa fine in sé, proprio perché non siamo
in presenza del conflitto sociale, con la sua logica e le sue dinamiche,
ma di fronte alla sua rappresentazione che esige il culto della
violenza. Ed il culto della violenza è sempre una cosa che evoca lo
squadrismo fascista, esattamente come il primitivismo politico che si
coglie in questi comportamenti.
Ma da dove scaturisce questa forma di protesta così primitiva? In
parte lo abbiamo già detto: la società dello spettacolo incoraggia una
prassi di tipo rappresentativo, così come il fondamentalismo neo
liberista produce il suo riflesso speculare che è questo. Ma c’è anche
di più.
Cari amici: vi è piaciuto eliminare o ridurre ai margini i canali di
trasmissione della domanda politica (partiti, sindacati ecc)? Vi è
piaciuto produrre la spoliticizzazione di massa, promuovere la cultura
dell’iper individualismo? Bene: il risultato è la jacquerie urbana.
Contenti?
Certo la lotta di classe è stata disarticolata, almeno da parte delle classi
subalterne, perché, invece, quelle dominanti continuano a farla e
pestano duro. Bene, ma la lotta di classe conteneva un principio
ordinatore del conflitto, una evoluzione dalle sue forme più belluine
proprio con i suoi elementi culturali ed organizzativi, in mancanza dei
quali la società regredisce nello stato semi barbarico, che oggi
possiamo ammirare.
Certo, comportamenti di questo tipo meritano una sanzione penale e
senza sconti (dico senza sconti), ma pensare di farcela solo con la
repressione è una totale stupidaggine. Significherebbe solo entrare in
una fase di entropia crescente, in cui violenze come quelle di ieri
diverrebero un fenomeno endemico e senza sbocco. Il problema va posto
sul piano sociale e politico. Pensateci cari amici.
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