Affidare alla vigilia delle elezioni l’appalto milionario di
un nuovo ospedale in Liguria a uno dei nuovi padroni dell’Unità
è un’operazione benemerita. Lodare l’ottimo lavoro per Expo di Diana
Bracco, oggi alle cronache per presunte fatture false della sua
società farmaceutica, è perfettamente normale. Questo è il Pd
e per questo l’attacco forsennato scatenato contro la presidente
della Commissione antimafia, per aver adempiuto al suo dovere, non
stupisce.
Anche se particolarmente volgare e arrogante, l’assalto a Rosy
Bindi mette in evidenza l’impasto di questo nuovo partito renziano,
capace di tenere insieme le peggiori abitudini del vecchio (la
doppia morale) mescolate con i pessimi vizietti del nuovo (la
perdita di memoria e di identità). Un partito che pensa, tratta
e pratica la politica come strumento di un potere senza mediazioni
né contrappesi. Prima il vecchio gruppo dirigente, poi
i sindacati, i costituzionalisti, gli insegnanti… .
Trattare Bindi quasi fosse una grillina d’assalto, oltre che il
migliore spot alla campagna elettorale dei 5Stelle, è nello stesso
tempo indice di arroganza e sintomo di grande debolezza. Per aver
ottemperato ai suoi obblighi istituzionali (esaminare le liste
elettorali rispetto ai profili giudiziari relativi al rapporto
tra mafia e politica, secondo un codice di autoregolamentazione
sottoscritto da tutti i partiti), e per averlo fatto anche con
celerità (dall’inizio della presentazione delle liste, un mese fa,
come da regolamento), Bindi viene additata dal presidente del
partito, Orfini, come il nemico da distruggere («siamo tornati
indietro di secoli quando i processi si facevano in piazza aizzando
le folle»).
Come se fosse della presidente della Commissione la
responsabilità di aver messo in lista persone che hanno problemi
con il casellario giudiziario. Qui il garantismo non c’entra, la
Commissione antimafia a 48 ore dal voto (dunque quando la
campagna è pressoché conclusa, quando i cittadini hanno visto
all’opera i candidati) trasmette al cittadino informazioni
pubbliche ma conosciute solo da una ristretta cerchia di addetti ai
lavori. Tra l’altro si tratta di diciassette nomi su quattromila
candidature esaminate. Ma il tappo è saltato per la presenza
dell’asso pigliatutto della Campania, De Luca, e per i timori di
qualche brutta sorpresa nell’urna. Solo Bersani e Fassina hanno
solidarizzato con Bindi rimettendo al centro la questione
politica.
Sarebbe da rivedere cosa scrivevano questi patetici personaggi
quando Berlusconi strillava sulla «persecuzione», sulla
«giustizia a orologeria». Ora sostengono le stesse cose che diceva
la destra quando la magistratura faceva il proprio lavoro. Tra
l’altro invocare la legge per legittimare alcune discutibili
candidature è una pezza peggiore del buco perché dice di una
politica che se fosse sicura e fiera delle liste le rivendicherebbe,
allontanando la sgradevole sensazione di raccattare da ogni
sponda e clientela.
Tanta virulenza in realtà scopre la lunga coda di paglia di chi mal
sopporta che le istituzioni facciano il loro lavoro anche contro
il potente di turno. A Bindi non si perdona la grave colpa di non
essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innanzitutto con
se stessi e specialmente con Renzi che dovrebbero prendersela. Il
caso De Luca lo ha creato chi lo ha candidato. È stato proprio il
presidente-segretario, che ora accusa Bindi di usare l’Antimafia per
fini di battaglia interna, a sbilanciarsi fino a «scommettere che
nessuno degli impresentabili sarà eletto, perché sono tutti
espressione di piccole liste civiche». Quando si dice che il diavolo
fa le pentole ma a volte dimentica i coperchi.
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