Il
vero Expo si è aperto con il tiro mancino tirato da McDonald, uno dei
principali sponsor della manifestazione, ai danni di gastrofighetti
milanesi comprensivi di blogger culinari e cuochi televisivi salvati
dalla figuraccia all’ultimo momento: in una sede appositamente allestita
ha presentato come “hamburger gourmet”, l’ultima moda dei
foodcitrulli, panini esattamente identici a quelli serviti nei propri
ristoranti, solo accomodati su vassoi di ardesia e attribuiti all’estro
di due ex concorrenti di Masterchef. Successone: questi sì che sono
hamburger, altro che McDonald. La stessa cosa si è verificata in Olanda
dove i grondanti prodotti della multinazionale sono stati presentati
come prodotti bio riscuotendo acclamazioni con tanto di appassionate
dichiarazioni di mangiasanisti felici del fatto che i prodotti biologici
possano essere gustosi come quelli normali.
Questo non è che un esempio nel campo culinario, di una cosa risaputa
a livello generale: gran parte della percezione è dovuta alle
aspettative che si hanno su di essa. Una schifezza sarà tendenzialmente
deliziosa se viene dallo chef famoso e una porcheria se servita nella
pizzeria sotto casa (*vedi nota), un vino in cartone potrebbe sembrare
meraviglioso se presentato come ambrosia o un abito parrà di buon gusto
se porta una firma e pessimo se invece manca di questo requisito
modaiolo. Oppure una pillola sarà efficace se crediamo che non sia solo
zucchero. E’ il principio del placebo /nocebo, quello stesso che, per
esempio, obbliga a testare l’efficacia dei farmaci in doppio cieco e che
dimostra come il pre-giudizio sia la parte prevalente del giudizio.
Certo non è una scoperta di ieri, ma suscita sempre stupore e
incredulità quando si manifesta in maniera inequivocabile in campi di
esperienza comuni e getta un’ombra sulla nostra scala di valori e sulla
nostra presunta autonomia. Perché alla fine de gustibus est disputandum.
Eccome.
Sebbene si tratti di un giallo irrisolto, questo fatto che sia il
contesto a determinare il significato dei singoli componenti e in
definitiva che sia il noi a costituire l’io appare sconcertante,
angoscioso e incredibile in una cultura che ha fatto dell’individuo il
solo fondamento della società. Un individuo che è legittimato dal
proprio successo a sfruttare gli altri o condannato dal proprio
insuccesso allo sfruttamento come espiazione di una colpa. Naturalmente
dentro questa sorta di etica e questo orizzonte ciò che definisce il
gustoso dallo schifoso, il brillante da mediocre, il salubre dal
malsano, il bello dal brutto è la quantità di denaro che implica: lo
stesso panino è diverso se pagato due o venti euro, lo stessa persona ci
apparirà un genio in tv e un cretino dal vivo. E questo vale per
qualsiasi entità dell’universo consumistico.
Naturalmente ciò che nel campo della percezione appare come uno
“scandalo” rispetto al senso comune, tanto che alcuni pensano davvero
che il loro palato sia alieno da qualsiasi influenza che non venga dalle
papille gustative, agisce, in maniera meno evidente e più ambigua,
anche nel campo dei giudizi più complessi e razionali. Per fare un
esempio vicino all’Expo dal quale abbiamo preso le mosse, non è il
ragionamento, ma il contesto narrativo prevalente a decidere quali siano
le fattispecie che determinano la legittimità dell’esercizio della
violenza che si è avuta a contorno dell’inaugurazione. Così le stesse
persone che si sono lamentate del fatto che la polizia non abbia
ammazzato di botte i black bloc di Milano, rimangono scandalizzate dalle
manganellate di Bologna verso i contestatori di Renzi: ma se la
violenza è praticabile, quali sono i limiti in cui essa è legittimabile?
Per quanto possa sembrare strano non c’è un giudizio razionale, ma solo
uno pragmatico dato dall’orizzonte nel quale si agisce. La stessa cosa
potremmo dirla sul terrorismo che sembra essere un problema radicale
dell’oggi e che tuttavia è indefinibile se non alla luce di un pre –
giudizio tanto che le stesse persone o gruppi sono alternativamente
giudicate patrioti, liberatori, alleati oppure nemici e terroristi. E
naturalmente si potrebbe continuare quasi all’infinito con aporie,
pirandellismi, questioni indecidibili.
Viviamo in un tempo in cui l’individualità è mitizzata purché sia
conformista e in effetti il nostro io è costituito più che da un noi di
cui si è persa traccia, da un loro. Viviamo in un tempo in cui i
rapporti sociali, le relazioni di lavoro, le disuguaglianze, le
ingiustizie non possono essere messe in discussione, ma si ha in
compenso la libertà di non essere come si vuole.
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