Dopo
la tragedia greca, quella che si sta consumando in Spagna ha le
fattezze di una farsa, alla quale però pochi sembrano credere. L’Europa
si appresta a mettere a disposizione della Spagna cento miliardi di euro
per salvare il sistema bancario di un paese virtualmente fallito senza
il sostegno della Bce e del fondo salva stati. Per la Grecia, a titolo
di confronto, ammontavano a centotrenta. A corredo del prestito, il
governo spagnolo si impegna in una manovra da 65 miliardi di euro in due
anni, la quarta in sette mesi. La manovra interviene pesantemente in
termini di tagli alla spesa pubblica, colpendo gli stipendi degli
statali, i sussidi di disoccupazione, introducendo nuovi tagli agli enti
locali che si tramuteranno in tagli ai servizi essenziali che in Spagna
sono svolti prevalentemente per via decentrata sul territorio.
Il salvataggio della Spagna è quindi condizionato alla cura del settore pubblico. Il peso del settore pubblico in Spagna è simile a quello italiano, ma inferiore a quello francese, per non menzionare alcuni paesi scandinavi. Il punto è se la cura cui si sta sottoponendo l’economia spagnola sia quella giusta. E’ il settore pubblico il vero malato della Spagna?
Basta guardare ad alcuni dati negli anni precedenti alla crisi per vedere che le sue ragioni vanno semmai ricercate nel settore privato. La storia del recente boom iberico è nota: una forte crescita sostenuta da un boom nel settore edilizio a sua volta sostenuto da ingenti flussi di capitale dall’estero (soprattutto dai paesi europei, con Germania e Francia in prima fila). Fenomeni di crescita trainata dalle costruzioni sono dei cliché nella storia del capitalismo. Il mercato appare un circolo virtuoso in cui prezzi crescenti, profitti e investimenti si rinforzano a vicenda. Le banche a loro volta concedono risorse crescenti a tassi allettanti. Finchè la barca va il sistema distribuisce risorse per tutti: imprese di costruzione, imprese di servizi e intermediazione, banche. Che cosa accadeva nel settore pubblico, ovvero il «grande malato» della Spagna? Il debito pubblico in Spagna è sceso in modo consistente, e ancora nel 2008 era circa il 40% del Pil, molto inferiore a quello di Regno Unito, Francia e Germania. Nel frattempo, l’esposizione finanziaria verso l’estero è cresciuta a ritmi forsennati, e il livello di debito del settore privato – escluso il settore finanziario – ha raggiunto un livello pari a quattro volte il debito pubblico.
Il resto è storia recente. Come ogni bolla che si rispetti anche quella del mercato edilizio in Spagna esplode. Il settore bancario è la prima vittima, carico di debiti e mutui in buona parte inesigibili. Questo spinge le banche a vendere gli immobili che avevano in garanzia facendo ulteriormente aumentare l’offerta di immobili, e quindi cadere i prezzi in una spirale che si avvita specularmente, ma molto più repentinamente, rispetto a quanto al ciclo virtuoso degli anni precedenti. Un paese con un sistema bancario in crisi è un rischio che nessuno, né il paese stesso né tantomeno i paesi europei, si possono permettere. In breve, lo stato spagnolo interviene a sostegno del sistema bancario. Ed è qui il nodo centrale: il debito accumulato nel settore privato è stato di fatto trasferito in quello pubblico: dal 2008 al 2012 il rapporto debito pubblico-Pil raddoppia, passando dal 40 all’80%. Arriviamo quindi alle vicende di questi giorni. Il settore pubblico, gravemente malato (si legga indebitato) necessita di una cura a base di austerity (si legga tagli alla spesa pubblica) con conseguenze facilmente immaginabili sul welfare. Difficilmente comprensibili, se si pensa che tra le funzioni principali dei sistemi di sicurezza sociale c’è il sostegno alla popolazione nelle fasi di recessione, come ad esempio i sussidi alla disoccupazione. Invece di essere usati in maniera anti-ciclica, questi ammortizzatori sociali sono ora ridotti.
Alla farsa spagnola non sembrano credere coloro che scendono in piazza e capiscono che la loro situazione volge verso la tragedia greca. E non sembrano crederci troppo neanche i mercati, poco convinti che il ritornello austerity-recessione ripetuto ad libitum possa dare i frutti sperati. Ma intanto il gioco è fatto, il fallimento del mercato europeo, così come è stato congegnato, si è trasformato nel fallimento degli stati sovrani.
L’impulso calvinista che imperversa in Europa non lascia scampo, gli stati dovranno rimettere i loro debiti, e con loro i cittadini.
Il salvataggio della Spagna è quindi condizionato alla cura del settore pubblico. Il peso del settore pubblico in Spagna è simile a quello italiano, ma inferiore a quello francese, per non menzionare alcuni paesi scandinavi. Il punto è se la cura cui si sta sottoponendo l’economia spagnola sia quella giusta. E’ il settore pubblico il vero malato della Spagna?
Basta guardare ad alcuni dati negli anni precedenti alla crisi per vedere che le sue ragioni vanno semmai ricercate nel settore privato. La storia del recente boom iberico è nota: una forte crescita sostenuta da un boom nel settore edilizio a sua volta sostenuto da ingenti flussi di capitale dall’estero (soprattutto dai paesi europei, con Germania e Francia in prima fila). Fenomeni di crescita trainata dalle costruzioni sono dei cliché nella storia del capitalismo. Il mercato appare un circolo virtuoso in cui prezzi crescenti, profitti e investimenti si rinforzano a vicenda. Le banche a loro volta concedono risorse crescenti a tassi allettanti. Finchè la barca va il sistema distribuisce risorse per tutti: imprese di costruzione, imprese di servizi e intermediazione, banche. Che cosa accadeva nel settore pubblico, ovvero il «grande malato» della Spagna? Il debito pubblico in Spagna è sceso in modo consistente, e ancora nel 2008 era circa il 40% del Pil, molto inferiore a quello di Regno Unito, Francia e Germania. Nel frattempo, l’esposizione finanziaria verso l’estero è cresciuta a ritmi forsennati, e il livello di debito del settore privato – escluso il settore finanziario – ha raggiunto un livello pari a quattro volte il debito pubblico.
Il resto è storia recente. Come ogni bolla che si rispetti anche quella del mercato edilizio in Spagna esplode. Il settore bancario è la prima vittima, carico di debiti e mutui in buona parte inesigibili. Questo spinge le banche a vendere gli immobili che avevano in garanzia facendo ulteriormente aumentare l’offerta di immobili, e quindi cadere i prezzi in una spirale che si avvita specularmente, ma molto più repentinamente, rispetto a quanto al ciclo virtuoso degli anni precedenti. Un paese con un sistema bancario in crisi è un rischio che nessuno, né il paese stesso né tantomeno i paesi europei, si possono permettere. In breve, lo stato spagnolo interviene a sostegno del sistema bancario. Ed è qui il nodo centrale: il debito accumulato nel settore privato è stato di fatto trasferito in quello pubblico: dal 2008 al 2012 il rapporto debito pubblico-Pil raddoppia, passando dal 40 all’80%. Arriviamo quindi alle vicende di questi giorni. Il settore pubblico, gravemente malato (si legga indebitato) necessita di una cura a base di austerity (si legga tagli alla spesa pubblica) con conseguenze facilmente immaginabili sul welfare. Difficilmente comprensibili, se si pensa che tra le funzioni principali dei sistemi di sicurezza sociale c’è il sostegno alla popolazione nelle fasi di recessione, come ad esempio i sussidi alla disoccupazione. Invece di essere usati in maniera anti-ciclica, questi ammortizzatori sociali sono ora ridotti.
Alla farsa spagnola non sembrano credere coloro che scendono in piazza e capiscono che la loro situazione volge verso la tragedia greca. E non sembrano crederci troppo neanche i mercati, poco convinti che il ritornello austerity-recessione ripetuto ad libitum possa dare i frutti sperati. Ma intanto il gioco è fatto, il fallimento del mercato europeo, così come è stato congegnato, si è trasformato nel fallimento degli stati sovrani.
L’impulso calvinista che imperversa in Europa non lascia scampo, gli stati dovranno rimettere i loro debiti, e con loro i cittadini.
Andrea Filippetti - il manifesto
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