lunedì 2 luglio 2012

Alla fine della fiera: il Pd, un progetto fallito di Matteo Pucciarelli, Micromega

Quando quattro-cinque anni fa fondarono il Partito Democratico gli esperti ci dissero che eravamo davanti a una mossa decisiva per il centrosinistra, quello italiano, ma anche quello europeo, anzi, quello mondiale. Le roboanti ed eccitate analisi stridevano un po’ col parterre dirigenziale del nuovo partito, composto da gente che l’ultima l’aveva azzeccata nel 1996 e da altri che ancora aspettavano di azzeccarne una. Però c’era Lorenzo Jovanotti che cantava «Mi fido di te», e allora tutti si fidarono del rapper che a sua volta si fidava di Walter Veltroni. Il discorso del Lingotto dell’allora sindaco di Roma pareva una via di mezzo tra «I diari della motocicletta» del Che Guevara e una relazione congressuale di Amintore Fanfani: c’era il tutto e il niente, poesia e boria, supercazzole ma senza Mascetti, promesse e (senza) solide realtà (cit). L’immagine perfetta di Veltroni, del resto.
La «novità del centrosinistra mondiale» si rivelò presto per quel che era: il solito bluff all’italiana, la tipica risposta da studente svogliato che siccome non sa fare le addizioni si mette a studiare le moltiplicazioni. Per risolvere la sempiterna «crisi della sinistra» si creò un problema ben più grosso: un partito geneticamente in crisi, nato orfano e su basi politiche e culturali labili quando non inesistenti.
Inutile stare qui a rammentare gli scandali, i voti compromessi, le sciatterie, gli errori madornali, le contraddizioni, le intelligenze col nemico, le alleanze col nemico, le vergogne grandi e piccole commesse dal Pd in questi quattro-cinque anni di vita. Inutile ricordare che le volte in cui il Pd ha fatto una scelta giusta e vincente, l’ha fatto suo malgrado, tirato per la giacca. Partendo dai referendum e finendo con Marco Doria.
Il presente ci consegna un partito che – com’è sempre stato, a ben pensarci – sceglie la strada della conservazione. Del «cambiare tutto affinché nulla cambi», come spiegava Tancredi al principe di Salina. La famosa “innovazione” decantata da soloni di ogni sorta alla nascita del Pd, si trasmuta in un patto di potere con l’Udc – con Ciriaco De Mita, con Paola Binetti, con Enzo Carra.
Sta qui la differenza sostanziale tra la dirigenza del Pd e il popolo diffuso della sinistra: i primi pensano che l’obiettivo sia il «Potere», il più stabile e quieto possibile; i secondi confidano in un «Potere per», in un’ottica di rottura e di trasformazione. È proprio in nome di quel «per» che – così dissero – doveva nascere un grande partito all’americana. Capirono male, e lo fecero all’amatriciana. Si scordarono di dirci in cosa consistesse il «per», e nel frattempo ci hanno propinato la giovine catapultata in parlamento Marianna Madia che rassicura i giovani sulla bontà della riforma del lavoro di Elsa Fornero, hanno regalato un seggio in Europa alla contestatrice carina che ora sembra Bruno Tabacci con la gonnella (la «semplicemente democratica» Serracchiani, roba che neanche Cioè) e organizzano dibattiti sull’uso del pannolino alla festa dell’Unità (con tutto il rispetto per i pannolini).
Appellarsi al Pd, rincorrerlo, cercare di modificarne la natura e le inclinazioni, è una pia illusione. È una preghiera rivolta al dio sbagliato. È una scommessa su una partita già giocata. Ribaltare l’ottica adesso è un dovere della sinistra: perché è il Pd che, senza la sinistra, smette di esistere.

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