Quando quattro-cinque anni fa fondarono il Partito Democratico gli
esperti ci dissero che eravamo davanti a una mossa decisiva per il
centrosinistra, quello italiano, ma anche quello europeo, anzi, quello
mondiale. Le roboanti ed eccitate analisi stridevano un po’ col parterre
dirigenziale del nuovo partito, composto da gente che l’ultima l’aveva
azzeccata nel 1996 e da altri che ancora aspettavano di azzeccarne una.
Però c’era Lorenzo Jovanotti che cantava «Mi fido di te», e allora
tutti si fidarono del rapper che a sua volta si fidava di Walter
Veltroni. Il discorso del Lingotto dell’allora sindaco di Roma pareva
una via di mezzo tra «I diari della motocicletta» del Che Guevara e una
relazione congressuale di Amintore Fanfani: c’era il tutto e il niente,
poesia e boria, supercazzole ma senza Mascetti, promesse e (senza)
solide realtà (cit). L’immagine perfetta di Veltroni, del resto.
La «novità del centrosinistra mondiale» si rivelò presto per quel che
era: il solito bluff all’italiana, la tipica risposta da studente
svogliato che siccome non sa fare le addizioni si mette a studiare le
moltiplicazioni. Per risolvere la sempiterna «crisi della sinistra» si
creò un problema ben più grosso: un partito geneticamente in crisi, nato
orfano e su basi politiche e culturali labili quando non inesistenti.
Inutile stare qui a rammentare gli scandali, i voti compromessi, le
sciatterie, gli errori madornali, le contraddizioni, le intelligenze col
nemico, le alleanze col nemico, le vergogne grandi e piccole commesse
dal Pd in questi quattro-cinque anni di vita. Inutile ricordare che le
volte in cui il Pd ha fatto una scelta giusta e vincente, l’ha fatto suo
malgrado, tirato per la giacca. Partendo dai referendum e finendo con
Marco Doria.
Il presente ci consegna un partito che – com’è sempre stato, a ben
pensarci – sceglie la strada della conservazione. Del «cambiare tutto
affinché nulla cambi», come spiegava Tancredi al principe di Salina. La
famosa “innovazione” decantata da soloni di ogni sorta alla nascita del
Pd, si trasmuta in un patto di potere con l’Udc – con Ciriaco De Mita,
con Paola Binetti, con Enzo Carra.
Sta qui la differenza sostanziale tra la dirigenza del Pd e il popolo
diffuso della sinistra: i primi pensano che l’obiettivo sia il
«Potere», il più stabile e quieto possibile; i secondi confidano in un
«Potere per», in un’ottica di rottura e di trasformazione. È proprio in
nome di quel «per» che – così dissero – doveva nascere un grande partito
all’americana. Capirono male, e lo fecero all’amatriciana. Si
scordarono di dirci in cosa consistesse il «per», e nel frattempo ci
hanno propinato la giovine catapultata in parlamento Marianna Madia che
rassicura i giovani sulla bontà della riforma del lavoro di Elsa
Fornero, hanno regalato un seggio in Europa alla contestatrice carina
che ora sembra Bruno Tabacci con la gonnella (la «semplicemente
democratica» Serracchiani, roba che neanche Cioè) e organizzano
dibattiti sull’uso del pannolino alla festa dell’Unità (con tutto il
rispetto per i pannolini).
Appellarsi al Pd, rincorrerlo, cercare di modificarne la natura e le
inclinazioni, è una pia illusione. È una preghiera rivolta al dio
sbagliato. È una scommessa su una partita già giocata. Ribaltare
l’ottica adesso è un dovere della sinistra: perché è il Pd che, senza la
sinistra, smette di esistere.
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