Che
cosa penserebbero Orwell e Koyré se capitasse loro in sorte di
vivere oggi qui tra noi? Entrambi furono colpiti dalla pervasività
della menzogna politica, dalla sua capacità di reinventare la
realtà a uso dei potenti. Ma ritenevano che la faccenda riguardasse
soltanto i regimi totalitari. Un breve soggiorno nell’«Italia di
Renzi» li convincerebbe di aver peccato di ottimismo. Sulla
menzogna politica si fonda anche la post-democrazia populista,
nella quale – come nei totalitarismi storici – l’indottrinamento
delle masse passa per i due versanti del mentire: promettere
disattendendo e raccontare mistificando.
Promettere a vanvera è lo sport prediletto dal nuovo padroncino
del paese. Alberto Asor Rosa ne ha fornito su queste pagine una
puntuale documentazione in tema di politica industriale e di
tutela dell’ambiente, del territorio e dei beni culturali,
considerati un valore solo se capaci di fruttare denaro. Di qui la
previsione di «rottamare» le Soprintendenze e di affamare
settori non spendibili nel turismo di massa come gli archivi e le
biblioteche. Possiamo facilmente aggiungere altri esempi rilevanti.
Nessuna delle pur caute previsioni di crescita economica
formulate dal governo regge alla prova dei fatti. Il pil ristagna
(nonostante i pingui proventi delle mafie) e il debito di
conseguenza corre. A settembre serviranno almeno 20 miliardi, ma
Renzi giura che non ci sarà alcuna manovra aggiuntiva. Mente sapendo
di mentire.
Dapprima, per differirla, aveva pensato a elezioni anticipate.
Ora preannuncia altri tagli alla spesa. Cioè una manovra nascosta.
Nuovi taglieggiamenti a danno dei soliti noti che da sempre pagano
per tutti.
Così si spiegano anche i continui balletti di quest’altra
indecente «riforma» della Pubblica amministrazione, propagandata
nel nome del ricambio generazionale ma dettata come sempre da
ragioni di bilancio. Si era promesso di cancellare una delle più
macroscopiche porcherie della controriforma Fornero
permettendo ai «quota 96» della scuola (circa quattromila
insegnanti) di andare finalmente in pensione. E invece tutto si è
puntualmente risolto in una bolla di sapone, con la conseguenza di
perpetuare un’ingiustizia paragonabile a quella già inflitta agli
esodati.
Ma è certamente nell’arte del racconto mistificatorio che la
nuova classe dirigente politico-mediatica dà il meglio di sé. Il
processo di revisione costituzionale è costellato da un’orgia di
menzogne. Sul merito della «riforma». Su suoi presupposti e sulle
sue conseguenze. Su quanto sta accadendo in Senato.
Né i media né tanto meno il governo spiegano che, nonostante tutti i
maquillages, il combinato tra l’Italicum e la trasformazione
della Camera Alta sarà l’accentramento di tutti i poteri
costituzionali nelle mani della leadership del partito di
maggioranza relativa. La formale subordinazione del Parlamento,
già screditato dalle martellanti campagne anti-casta e dalla
corruttela dilagante tra i suoi membri. La fine del delicato
equilibrio poliarchico che ci ha sin qui bene o male protetti da
sempre incombenti regressioni autoritarie. Altro che la mera
ripetizione dell’esistente come argomenta da ultimo Ilvo Diamanti.
Il presidente del Consiglio si appropria, non smentito, del
risultato delle Europee per millantare un presunto consenso
plebiscitario alle proprie iniziative e arrogarsi il diritto di
calpestare ogni norma vigente, a cominciare da quella Costituzione
che ha fermamente deciso di stravolgere. Intanto ogni giorno veste
indisturbato i panni della vittima che subisce paziente insulti e
ricatti. Proprio lui che prima ha squadristicamente dipinto i
dissenzienti come miserabili mossi da interessi personali, poi
annunciato la fine di ogni accordo con chi a sinistra osasse
contrastarlo. Salvo prontamente ricredersi, una volta verificato
che il saldo tra benefici (l’espulsione degli infedeli dalle
istituzioni) e costi (la crisi a macchia d’olio nelle
amministrazioni di città e regioni) sarebbe al momento sfavorevole.
Bugiardi e violenti. Ma anche usurpatori. Non ha torto Manlio
Padovan quando, commentando il mio articolo sulle forzature del
presidente della Repubblica, afferma in una lettera al manifesto
che c’è una questione più rilevante di quelle che io ricordavo,
costituita dal sopravvenuto deficit di legittimità di questo
Parlamento (quindi dei suoi atti, compresa la rielezione di
Napolitano) dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum
pubblicata all’inizio di quest’anno. Anche su questo si è
mistificato. Si è invocato il principio di continuità dello Stato
per sostenere che la legislatura deve durare sino alla scadenza
naturale. È stata un’ennesima forzatura, forse la più grave, poiché
dalla sentenza della Corte derivava per il presidente della
Repubblica l’incombente dovere politico e morale (se non
strettamente giuridico) di prescrivere alle Camere l’immediata
riscrittura della legge elettorale quale premessa del ritorno
anticipato alle urne. Si è fatto finta di nulla pur di tenere in vita
un Parlamento ormai privo di legittimità. Al quale, in forza di un
patto segreto sottoscritto da due capibastone, si riserva oggi il
compito di riscrivere la Costituzione e domani di eleggere il nuovo
capo dello Stato.
E così torniamo alla «riforma» renziana della Costituzione,
stipulata con l’incappucciato di Arcore. Benedetta dal Colle e
imposta al Parlamento mercé l’uso manganellare dei regolamenti e
la zelante complicità del presidente Grasso. Ci rivolgiamo
finalmente a quella parte del Pd che ha alle spalle una storia di
lotte democratiche. Che si pensa erede del movimento operaio e
della Costituente antifascista. Che dovrebbe a rigore rifiutarsi di
funzionare come l’intendenza del «Partito di Renzi».
Come può questa parte politica non avvertire il peso della
responsabilità che il suo partito si sta assumendo per volontà del
proprio capo facinoroso e prepotente, sprezzante di ogni
principio di rispetto per le posizioni altrui e di ogni limite che
l’ordinamento ancora vigente pone? Come può non sentire come un’onta la
connivenza con questo ennesimo scempio, il più grave fra tutti
quelli pur gravi subiti in questi anni dalla Carta del ’48, a conferma
della trista regola che vuole talvolta proprio i partiti
democratici disposti a compiere le scelte più nefande che le destre
non potrebbero da sole imporre? Come può illudersi che presto sarà
dimenticato quanto accade in questa grigia estate in cui persino il
tempo pare volersi rivoltare, e che non prevarrà invece la vergogna
per avere nonostante tutto consentito e cooperato?
Leggiamo che molti dissidenti del Pd sono stati in queste ore
febbrili insultati, intimiditi, minacciati. Non sottovalutiamo
l’impatto di simili pressioni. Ma non vorremmo che per questo essi
scambiassero cedimenti per doveri, e la tranquillità di un momento
per un onore duraturo.
di Alberto Burgio, Il Manifesto
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