Gli
ultimi dati rilasciati ieri da Eurostat, l’agenzia statistica
europea, confermano quello che ormai vanno dicendo da tempo schiere
di economisti, anche di estrazione mainstream: la tanto
sbandierata “ripresa” europea – che comunque rappresentava
sempre una medi tra quegli stati che registravano modesti tassi di
crescita (come la Germania) e quelli che continuavano a essere
impantanati nella recessione post-crisi (come l’Italia) – era una pia
illusione.
Senza un ribaltamento radicale delle politiche economiche,
l’eurozona era inevitabilmente condannata a sprofondare in una
cosiddetta “stagnazione secolare”: un lungo periodo di crescita
bassa o nulla. E infatti l’ultimo bollettino di Eurostat parla
chiaro: nell’ultimo trimestre dell’anno la crescita nella zona euro è
stata dello 0.0%. A leggere il testo del comunicato, però, si
direbbe che non c’è motivo di preoccuparsi: secondo la neolingua
dei burocrati di Bruxelles, semplicemente “il Pil nell’area euro è
rimasto stabile”. Tutto a posto, dunque?
Purtroppo no. In uno scenario di stagnazione secolare
risolvere il problema della disoccupazione dilagante (18 milioni
di senza lavoro solo nella zona euro), della deflazione alle porte
(0.4% il tasso d’inflazione nella zona euro, mentre in alcuni paesi è
già sotto lo zero) e del debito pubblico è praticamente
impossibile. Al punto che c’è già chi parla di “stag-deflazione” (per
fare il verso alla stagflazione degli anni ’70): uno scenario da
incubo in cui crescita anemica, bassa domanda, prezzi in calo,
disoccupazione crescente, carenza di investimenti, fallimenti
aziendali, sofferenze bancarie e debiti pubblici alle stelle si
alimentano a vicenda in una spirale senza fine.
Perché l’eurozona si trova in questa condizione, quando altre
aree economiche colpite altrettanto duramente dalla crisi del
2008, come Stati uniti e Regno Unito, hanno ridotto la disoccupazione
e sono tornate ai livelli di crescita pre-crisi o li hanno
addirittura superati?
A prescindere dai limiti “strutturali” dell’eurozona
(impossibilità della Bce di offrire liquidità agli Stati, ecc.), la
causa principale dell’infinita crisi europea – come ormai denunciano
anche giornali come il Financial Times e organizzazioni
notoriamente neoliberiste come l’Fmi –, sono le folli politiche
di austerity perseguite dall’establishment europeo negli ultimi
anni, che hanno avuto l’effetto di strangolare ulteriormente
l’economia, già affamata da un crollo della spesa privata, per mezzo
di drastici tagli alla spesa pubblica, aumenti delle tasse e
compressione dei salari.
Altrove hanno invece perseguito politiche monetarie e fiscali
espansive, con risultati prevedibilmente positivi. Finora erano
stati soprattutto i paesi della periferia a patire le conseguenze
di queste politiche scellerate. L’Italia è il caso più esemplare:
produzione industriale al –25%, Pil al –10%, tasso di
accumulazione al –13%, disoccupazione e debito pubblico a livelli
record. Un’apocalisse economica e sociale da cui il nostro paese
impiegherà decenni a riprendersi (se mai ce la farà). La vera novità è
che nell’ultimo trimestre anche la Germania ha registrato un tasso
di crescita di negativo (-0.2%) per la prima volta dal 2010. Anche in
questo caso c’è poco da sorprendersi.
L’avevano predetto in molti: continuando a comprimere la domanda
interna e affamando i propri partner commerciali europei per
mezzo dell’austerità la Germania avrebbe finito inevitabilmente
per danneggiare la propria economia, fortemente basata sulle
esportazioni. Basterà questo a convincere i tedeschi della
necessità di un cambio di rotta? O almeno a convincere Matteo Renzi
che la soluzione alla crisi non passa di certo per le “riforme
strutturali”?
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