sabato 23 agosto 2014

La spending spiana comuni —  Guido Viale, Il Manifesto

Senza solu­zione di con­ti­nuità nel pas­sag­gio da Tre­monti a Bondi e da Cot­ta­relli a Gut­geld, e da Prodi e Ber­lu­sconi a Monti e da Letta a Renzi, la spen­ding review sta pla­nando come un avvol­toio su coloro che ne potreb­bero essere i pro­ta­go­ni­sti, per­ché sono gli unici a sapere come stanno vera­mente le cose, e che invece ne sono le vit­time: i dipen­denti delle ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che. L’obiettivo più imme­diato sono i Comuni, con i quali si va a col­pire la demo­cra­zia nel punto più vitale ma anche più esposto.
Vitale per­ché i Comuni incar­nano la tra­di­zione euro­pea dell’autogoverno demo­cra­tico a base asso­cia­tiva; per­ché i Comuni e le loro aggre­ga­zioni rap­pre­sen­tano la demo­cra­zia di pros­si­mità e il pos­si­bile punto di appli­ca­zione di una demo­cra­zia par­te­ci­pata; per­ché i Comuni sono tut­tora i respon­sa­bili dei ser­vizi pub­blici locali, cioè di ciò che più diret­ta­mente con­di­ziona lo svol­gi­mento della nostra vita quotidiana.
Ma i Comuni sono l’oggetto delle brame di chi governa la spen­ding review pro­prio per­ché i sevizi pub­blici locali sono l’obiettivo di un sac­cheg­gio e di un mec­ca­ni­smo estrat­tivo messi in moto da un capi­ta­li­smo che non è più in grado di garan­tire mar­gini di pro­fitto ade­guati con l’investimento nell’industria.
E la forma giu­ri­dica della società per azioni (Spa), sia inte­ra­mente pub­blica che mista, cioè pubblico-privata — in cui si sono andati costi­tuendo nel corso degli ultimi venti anni quasi tutti i ser­vizi pub­blici locali — rap­pre­senta il primo sta­dio della pri­va­tiz­za­zione. Gli affi­da­menti diretti (cioè senza gara: il cosid­detto in-house) di cui bene­fi­ciano li rende par­ti­co­lar­mente espo­sti a que­sta aggressione.
Innan­zi­tutto per­ché si tratta di un solu­zione socie­ta­ria inco­sti­tu­zio­nale e con­tra­ria alla nor­ma­tiva euro­pea: gli affi­da­menti diretti non dovreb­bero mai riguar­dare società di diritto pri­vato che per loro natura per­se­guono il pro­fitto, come le Spa. In secondo luogo, per­ché que­ste Spa sono state finora (le cose dovreb­bero cam­biare dal pros­simo anno) una solu­zione per col­lo­care fuori bilan­cio costi e introiti di ser­vizi che rien­trano a pieno titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li con­trolla: infatti più di un terzo di quelle società cen­site sono in per­dita per­ma­nente. In terzo luogo, per­ché gra­zie a que­sto mec­ca­ni­smo le Spa pro­mosse dagli Enti locali (ma anche quelle pro­mosse dagli Enti cen­trali) si sono mol­ti­pli­cate per gem­ma­zione: Spa create e con­trol­late da altre Spa di ori­gine pub­blica, che ne svol­gono una parte dei com­piti in una catena di “ester­na­liz­za­zioni” sem­pre più lunga; ma anche Spa pre­po­ste a fun­zioni lon­tane dai com­piti isti­tu­zio­nali di chi le ha create. Cot­ta­relli ne ha cen­site 10mila, ma secondo Ivan Cec­coni, il mas­simo esperto ita­liano di que­sto obbro­brio, potreb­bero essere oltre 20mila. In quarto luogo per­ché que­ste Spa sono un mec­ca­ni­smo cor­rut­tivo: assun­zioni clien­te­lari (né più né meno di quanto venga spesso impo­sto ai vin­ci­tori di appalti con­qui­stati attra­verso gare truc­cate: il clien­te­li­smo pro­spera non per­ché il gestore è pub­blico, ma per­ché la man­canza di tra­spa­renza sot­trae gli affi­da­menti al con­trollo dei cit­ta­dini), gerar­chia gestio­nale e con­si­gli di ammi­ni­stra­zione scelti tra il per­so­nale politico.
Que­sto spiega l’attaccamento di alcuni par­titi a Giunte le cui deci­sioni con­trad­di­cono fron­tal­mente gli impe­gni assunti con i loro elet­tori con­tro pri­va­tiz­za­zioni, con­sumo di suolo o pro­li­fe­ra­zione di società, inca­ri­chi e con­su­lenze. E’ un mec­ca­ni­smo di con­so­li­da­mento del ceto poli­tico che spesso tiene in vita par­titi che non avreb­bero altra ragione di esistere.
La spen­ding review non si pro­pone certo di “fare puli­zia” in que­sto gine­praio, bensì di met­tere i Comuni con le spalle al muro per costrin­gerli a sven­dere ai pri­vati (die­tro a cui ci sono sem­pre più spesso ban­che e alta finanza) tutti i ser­vizi pub­blici, insieme a beni comuni di cui sono ancora in pos­sesso. Saranno poi i pri­vati a recu­pe­rare con spe­cu­la­zioni e aumenti delle tariffe i costi del ser­vi­zio – ma anche i “mar­gini” (cioè i loro pro­fitti) — che i Comuni non sono in grado di coprire per­ché i tra­sfe­ri­menti dallo Stato si sono pro­sciu­gati e temono l’impopolarità se ad aumen­tare le tariffe fos­sero loro.
Ma pri­va­tiz­zare i ser­vizi pub­blici locali e con­se­gnarli a una finanza sem­pre più lon­tana dalla popo­la­zione di rife­ri­mento vuol dire pri­vare i Comuni della loro ragion d’essere e tra­sfor­marli in enti inu­tili, fatti solo per alle­vare e sele­zio­nare i mem­bri della casta; una demo­cra­zia priva di auto­no­mie locali non è più tale e i sin­daci che accet­tano di ridursi a estrat­tori di risorse dai loro con­cit­ta­dini, senza alcuna resti­tu­zione, si tagliano l’erba sotto i piedi.
 
Ci sono alter­na­tive a que­sta spi­rale? Sì. Innan­zi­tutto in sta­tuti comu­nali che dichia­rino i ser­vizi pub­blici locali atti­vità di inte­resse gene­rale (e non com­mer­ciale). Poi nella tra­sfor­ma­zione delle Spa in “aziende spe­ciali”, per farli rien­trare nel peri­me­tro della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione. A Napoli la tra­sfor­ma­zione dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sem­brava offrire un modello a que­sta tran­si­zione. Ma le ultime vicende dello sta­tuto di ABC mostrano che senza una mobi­li­ta­zione di massa e un fronte di “Comuni per i beni comuni”, tante volte pro­messo e mai rea­liz­zato, una tran­si­zione del genere rischia il sof­fo­ca­mento per il pre­va­lere degli inte­ressi dei par­titi. Ma – si dice – ripub­bli­ciz­zare le Spa non si può per­ché non c’è il denaro per riscat­tarne le azioni dai pri­vati; ma il loro valore è legato a con­tratti di ser­vi­zio fon­dati sull’affidamento in-house. Rive­dere quei con­tratti intro­du­cendo con­di­zioni più strin­genti può pri­varle di gran parte del loro valore e per­sino ren­dere con­ve­niente resti­tuire le aziende ai Comuni.
In ogni caso, il solo fatto di met­tere in campo pro­getti di con­ver­sione eco­lo­gica, di pro­mo­zione dell’occupazione, di recu­pero di aziende altri­menti con­dan­nate alla chiu­sura può dare cre­di­bi­lità e basi solide a una con­te­sta­zione radi­cale sia del patto di sta­bi­lità interna (quello che blocca la pos­si­bi­lità di inve­stire per i Comuni), sia del patto di sta­bi­lità esterno (il fiscal com­pact) attra­verso cui la finanza inter­na­zio­nale con­trolla, per il tra­mite della Com­mis­sione euro­pea e della Bce, i governi e le poli­ti­che eco­no­mi­che degli Stati dell’Unione Euro­pea, sof­fo­can­dole. La con­ver­sione eco­lo­gica è un pro­cesso neces­sa­ria­mente decen­trato, dif­fuso, dif­fe­ren­ziato, distri­buito, capil­lare, che non può essere por­tato avanti senza il coin­vol­gi­mento della cit­ta­di­nanza e dei governi locali; e per que­sto democratico.
Affi­darla alla grande impresa (l’essenza di quello che chia­miamo green eco­nomy), come è stato fatto in Ita­lia e altrove con le ener­gie rin­no­va­bili, è stato solo un modo per tra­sfe­rire risorse da chi paga le bol­lette (tutti noi) a chi incassa gli incen­tivi (per l’80 per cento, grandi inve­sti­tori finan­ziari, per lo più anche estra­nei al set­tore energetico).
Vice­versa, nella gene­ra­zione ener­ge­tica, nell’efficientamento di edi­fici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel tra­sporto locale, nel ser­vi­zio idrico inte­grato, le auto­rità locali, con il coin­vol­gi­mento della cit­ta­di­nanza attiva, pos­sono da un lato pro­muo­vere sistemi soste­ni­bili di governo della domanda, dall’altro offrire sboc­chi di mer­cato alla ricon­ver­sione di aziende in crisi, even­tual­mente con solu­zioni socie­ta­rie e asso­cia­tive tra cittadini-utenti desti­na­tari del ser­vi­zio, aziende che lo ero­gano, governi locali e imprese for­ni­trici degli impianti, delle attrez­za­ture e dei mate­riali neces­sari al sod­di­sfa­ci­mento della nuova domanda.
Lo stesso vale per tutti quei ser­vizi che rien­trano nella vasta gamma del wel­fare muni­ci­pale: nidi, scuole materne ed ele­men­tari, assi­stenza agli anziani e alle per­sone svan­tag­giate, inte­gra­zione degli stra­nieri, for­ma­zione, ecc. Anch’essi sono sot­to­po­sti, con la spen­ding review, a un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione attra­verso l’esternalizzazione delle pre­sta­zioni lavo­ra­tive con coo­pe­ra­tive sem­pre più legate a strut­ture finan­zia­rie di comando che “trat­tano” con le ammi­ni­stra­zioni locali per conto di tutte. E anche in que­sto campo occorre rico­struire un pro­cesso demo­cra­tico a par­tire dalla par­te­ci­pa­zione alla loro gestione.

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