«Nemmeno il Berlusconi dei tempi d’oro». E racchiuso in
questa frase, quasi un messaggio in codice nascosto nell’ultimo
resoconto delle gesta di Matteo, il dramma dei giornalisti di Repubblica.
Costretti a ripartire da zero: dimenticate di essere stati zelanti
cronisti, implacabili corsivisti, arguti commentatori.
Gettate penne e taccuini, mettetevi in fila e un due tre, fate la
ola.
E cosi la riforma della scuola, ad esempio, non e mica quella tristezza annunciata (male, s’intende) dalla ministra Giannini, sarà una grande festa con almeno centomila precari assunti, rivelavano i nostri prima che si scoprisse il grande bluff (ma poi Repubblica metteva in chiaro che era stato Renzi a spiegare a Napolitano che no, presidente, la scuola adesso proprio no, non insita, non mettiamo troppa carne al fuoco…).
E cosi la riforma della scuola, ad esempio, non e mica quella tristezza annunciata (male, s’intende) dalla ministra Giannini, sarà una grande festa con almeno centomila precari assunti, rivelavano i nostri prima che si scoprisse il grande bluff (ma poi Repubblica metteva in chiaro che era stato Renzi a spiegare a Napolitano che no, presidente, la scuola adesso proprio no, non insita, non mettiamo troppa carne al fuoco…).
Forse non devono rispondere a un ordine del direttore, né hanno
deciso scientemente di mandare al manicomio Eugenio Scalfari.
Sono invece le vittime di un’ipnosi collettiva, rapiti da quel
mantra sapientemente diffuso da palazzo Chigi secondo il quale non
e possibile nutrire sinceramente dubbi rispetto all’operato del
giovane premier, possono farlo soltanto dei poveracci rosi
dall’invidia che preferiscono vedere sprofondare il paese
piuttosto che riconoscere il successo altrui, o vecchie cariatidi
incompatibili con la contemporaneità.
A forza di sentirlo dire, poi si finisce per crederci e allora: tutti in coro, viva viva san Matteo.
Ma quella frase, il «Berlusconi dei tempi d’oro» e sintomo anche
di una sofferenza, rivela un’ansia di libertà, contiene il seme della
ribellione. Segnala che se il Cavaliere avesse portato a palazzo
Chigi un carretto di gelati e pure con il marchio — la scritta «Grom»
era coperta con un pezzo di carta, cosi da attirare ancora di più
l’attenzione — sarebbero state fatte paginate traboccanti
riprovazione come per le corna nella photo opportunity, il cucù
a Angela Merkel, il «mister Obamaaaaa» a squarciagola che aveva
diffuso turbamento nell’intero Regno unito.
Ma quello era un cafone, irrispettoso delle istituzioni. Le sue
barzellette — volgarissime, signora mia — servivano solo a sviare
l’attenzione dai gravi problemi del Paese. Ora invece tocca scrivere
che siamo di fronte al genio, al «gianburrasca della politica» che
«rompe l’etichetta» con divertenti siparietti. Certo,
l’antiberlusconismo allora era una merce molto richiesta, nelle
edicole. Ora si porta il renzismo e i giornali si stampano per
venderli, mica per incartarci il pesce. E poi, se la «rivoluzione»
promessa si avverasse? Perché correre il rischio di perdere
l’appuntamento con la storia, di dover ammettere «io non c’ero, stavo
con i gufi». Pensate invece che soddisfazione poter dire un giorno
al nipotino «vedi quello li in mezzo al coro… lì a destra, più
a destra. Be’, non mi si riconosce granché, ma sapessi come
strillavo…».
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