Sul
populismo, quasi tutto è stato detto. Sulla rappresentanza, quasi nulla
c’è più da dire. Sposterei il fuoco del discorso critico: verso i punti
di cui non si dice, ma si tace. Di un ritorno in grande della critica
c’è oggi bisogno. E però sul carattere che essa deve assumere, ci si
deve intendere: almeno tra chi esprime la volontà politica di un “per la
critica” riguardo a tutto ciò che è. Ma - ecco il punto - ciò che è non
corrisponde a ciò che appare. Gran parte dei movimenti di opinione,
nell’età della comunicazione di massa, prendono come nemico l’apparenza,
combattono quello che vedono, cioè quello che gli viene fatto vedere.
La realtà è così lasciata libera di operare su di loro, contro di loro. E
vince, perché non ha più avversari.
Guardate. Non è da anni, è da decenni, dai favolosi anni Ottanta, che
si ripete qui in Occidente la frase: è cambiato tutto, e tutto
velocemente cambia. Non è vero. Tutto è sostanzialmente come prima,
tutto è disperatamente fermo. Da sottolineare: “sostanzialmente”. Le
forme di esistenza di una società capitalistica si sono radicalmente
trasformate, ma il capitalismo come sostanza di vita, cioè come rapporto
sociale e come struttura di potere, è ancora quello o ne siamo
fuoriusciti? Le sue grandi trasformazioni, indubitabili, ci autorizzano a
firmare con esso un patto di stabilità che lo certifichi come eterno
presente? L’avvento del nuovo che avanza, a datare da fine Novecento,
non si rivela adesso per quello che è, cioè un ritorno di Ottocento?
Perfino la scienza economica più avvertita ormai se ne accorge: vedi il
confronto in quel d’America tra Thomas Piketty e Stiglitz e Krugman.
Queste sono le domande. Io penso che oggi la lotta, prima ancora che tra
il giusto e l’ingiusto, è, deve essere, tra il vero e il falso. C’è un
nuovo senso da dare al vecchio detto del movimento operaio: dire la
verità è rivoluzionario.
Siamo in una fase pre-marxiana, senza prima di noi uno Hegel che ci
abbia consegnato il sistema e il metodo di un tempo appreso col pensiero.
Marx aveva da superare istanze utopiche, che pasticciavano con la
cucina dell’avvenire. Rispondeva mettendo sotto critica il presente
storico, per capire se nelle pieghe delle sue contraddizioni si potesse
scorgere, una forza, un soggetto, in grado di rovesciare lo stato delle
cose. Per far questo aveva bisogno di premettere all’analisi scientifica
del capitale la critica dell’ideologia borghese. Ecco il modello. Oggi è
tornato necessario ripartire dal Marx giovane per arrivare al Marx
Maturo. Occorre ripartire dalla critica dell’apparato ideologico di
mascheramento della realtà, che è diventato, molto più che allora, il
modo stesso di funzionamento della realtà. Molto più che allora, perché
non essendo stato teorizzato a livello, diciamo, hegeliano, si presenta
come un dato empirico, immediato, antropologicamente quotidiano: di qui,
la difficoltà a scoprirlo e a colpirlo. E molto più che allora, perché
globalizzato, non più ideologia tedesca, ma occidentale, a centralità
euro-americana. E soprattutto, universalizzato, apparato ideologico
proprio, in forme diverse, di tutte e due le classi in lotta, senso
comune intellettuale e buon senso di massa. Il progressismo democratico è
lo spazio-tempo entro cui ruotano i venti, che provocano a seconda
delle stagioni, il. sereno dello sviluppo o le nuvole della crisi. La
rivoluzione permanente si è realizzata tecnologicamente, presupposto
metafisico, dato ontologico, che condiziona i modi del conoscere, e del
comunicare e, quindi, dell’agire.
Manca oggi il punto di vista, assunto e coltivato da una parte. E qui
c’è il crollo di cultura politica: che riguarda sia i ceti dominanti
che quelli subalterni. C’era una volta la teoria del crollo, la
Zusammenbruchstheorie, con qualche accenno in Marx, con più di una
suggestione nel marxismo: Il sistema capitalistico pareva destinato alla
catastrofe: nel ’29 la profezia sembrò avverarsi, dal 2008 è sembrata
ripetersi. Ma questa in cui viviamo è una forma sociale che si rovescia
in se stessa, si autotrasforma, cresce e cambia attraverso crisi, Proteo
che sa apparire diverso da quello che è, e proprio così sopravvive. Le
nuove generazioni, di intellettuali e di politici, dovrebbero sapere
questo: che sono figlie del tempo in cui la teoria del crollo è andata
ad avverarsi non nel capitalismo, ma nel movimento operaio. Attenzione,
però: saperlo, non porta a disarmare le idee e a disorganizzare le
azioni, ma al contrario a riarmarle e a riorganizzarle, prendendo atto
di questo fatto, crudo, crudele. L’idea che lì, nel mitico ’89-’91, sia
accaduto qualcosa che ha rimesso in cammino le magnifiche sorti e
progressive dell’umanità è la contro-verità ideologica che ha occupato
militarmente l’ultimo quarto di secolo. Smascherarla è il compito più
urgente. Qui sta la premessa per qualsiasi progetto di ritorno in campo
di un pensiero critico e di una prassi trasformatrice. Senza questo
passaggio di liberazione dal mito non ci sarà riconquista di una ragione
alternativa. Non c’è egemonia senza autonomia, non c’è lotta senza
organizzazione, non c’è politica senza cultura politica.
Novecento, si dice. E con questo si crede di liquidare il discorso. E
allora assumiamolo questo problema. Perché questo fa problema. La
condizione è stretta. Non c’è futuro di immediato riscatto. Correre
dietro alle illusioni non sta nel bagaglio di quella grande forza
storica che è stato il movimento operaio. Chi viene da lì non dice: ho
un sogno. Dice: ho un progetto. Devo fare una cosa che si può fare.
Appronto i mezzi indispensabili per farla. Tentare l’impossibile? Si, ma
per ottenere, weberianamente, il possibile. Mettersi dalla parte del
torto? Certo, ma per arrivare ad avere ragione. E questa nessuno te la
regalerà. Te la devi conquistare, con l’abilità e la forza, con "il lione
e la volpe". A un certo punto abbiamo opportunamente fatto a meno del
materialismo dialettico, con la sua pretesa di spiegare l’essenza della
intera natura. Credo sia venuto il momento di fare a meno del
materialismo storico, con la sua intenzione di spiegare l’essenza di
tutte le società. Ci basta un realismo politico per la critica di questa
forma sociale, che ponga le condizioni, e per adesso solo quelle, di un
suo possibile superamento. E’ qui dentro che bisogna lavorare, e
lottare. Non c’è bisogno del dopo per combattere il qui e ora.
Descrivere nella sua verità il presente, è già sufficiente motivo di
mobilitazione, causa scatenante di una opposizione a ciò che è. Se si
riuscisse a decifrare, per ognuno, a ogni ora della sua esistenza
quotidiana, l’arcano della merce, se si riuscisse di qui a denunciare
l’alienazione dell’essenza umana dall’attuale essere umano, ecco, le
fondamenta sarebbero poste per un rifiuto collettivo di sistema. Ci
vorrebbe un Partito/Principe per farlo. Nella organizzazione di questa
forma andrebbe cercato tutto il nuovo di cui c’è veramente bisogno.
Il dramma storico, specifico, idealtipico del nostro tempo, è il
fatto che sono venuti a mancare quel soggetto sociale e quella forza
politica, in grado di irrompere nelle contraddizioni presenti per
mettere in crisi l’equilibrio che le contiene e soprattutto le
trattiene. La crisi di sistema è autoprodotta dal capitalismo, come
sempre, per suoi problemi, nella fase, impossibili da risolvere, senza
un passaggio di ristrutturazione. Questo, infatti, è la crisi. In
passato, il difetto del movimento operaio, in Occidente, era la sua
incapacità di immettere, esso, crisi nel sistema, in quanto parte
interna antagonista. Sapeva però usare la crisi per la sua propria
crescita di presenza e di forza. Oggi, c’è qualcosa di più grave: senza
forza organizzata, nessuno, in nessun luogo, è in grado di usare la
crisi per la critica. Questa è la vera causa strutturale dell’attuale
disorientamento politico di massa. Tutto il resto segue: i populismi di
vario segno, dal basso e dall’alto, le pulsioni antipolitiche, la
protesta sociale, o corporativa, o anarchica, comunque diffusa,
inespressa collettivamente e dunque esistenzialmente rabbiosa. La
risposta, subalterna, nel segno della personalizzazione demagogica della
leadership segue a sua volta il vento, non lo contrasta, lo esprime, lo
rappresenta.
Allora. Quella che si dice adesso società civile è soprattutto questo
vento. Anche qui, realisticamente, è bene non illudersi. Quelle
minoranze attive, movimenti, volontariato, cooperazione, mutuo soccorso,
esperienze esemplari di persone eccezionali, che conosciamo, niente
possono contro questo spirito del tempo, che soffia dove vuole, questa
piena delle acque che travolge tutti gli argini, allaga i campi, e su
cui galleggiano i relitti di una politica che fu. Nulla possono senza
una direzione dall’alto, complessiva, che organizzi un processo in
controtendenza. La decadenza di ceto politico non si combatte concedendo
rappresentanza diretta a una maggioranza democratica pre-politica. Il
problema di governo così non si risolve, si aggrava. L’antipolitica è
un’epidemia: il virus si prende e si diffonde, incurabile, per via di
agire comunicativo, in età adulta. Ormai ne sembrano immuni solo i
bambini, che infatti, a guardarsi intorno, risultano gli ultimi esseri
umani sani. I politologi, invece di andare in giro a raccontarci tutti i
giorni quello che già sappiamo, dovrebbero chiudersi in laboratorio a
sperimentare almeno un vaccino. Non è vero che c’è poca rappresentanza.
Ce n’è troppa. Le forze politiche, in campagna elettorale permanente, in
queste democrazie del voto su tutto e sul niente, si lasciano dettare
passivamente il loro “che fare” dagli umori che circolano nelle vene di
un civile senza sociale, civiltà senza società, o meglio, civilizzazione
senza socializzazione, ultimo più che coerente prodotto di un
capitalismo trionfante perfino nella crisi.
Per la decisione conta oggi più una piazza che un ministero. Conta
più un urlo dell’opinione che una legge del Parlamento. I governi non
governano, non solo perché non c’è più Stato nazione, ma perché non c’è
più sovranità del popolo, nazione per nazione. Potrebbe esserci, questa,
a livello sovranazionale. Sarebbe bene. Ma bisognerebbe, ad esempio,
cominciare a fare di una Unione Europea un Europa. Qui e ora, sovrano è
chi decide nella condizione dello sviluppo e della crisi. Introdurre le
masse nello Stato era un grande progetto, in parte realizzato nei
“trent’anni gloriosi” del dopoguerra, quando c’erano i partiti.
Introdurre la gente nello Stato, e prima ancora nel partito, ecco
l’ultimo grido: un programma reazionario, da qualunque parte venga. E
viene da tutte le parti. Le masse contestavano il potere, la gente
contesta i politici. Chi comanda si sente messo al sicuro per i prossimi
decenni. Il guasto viene da lontano. Dall’ideologia della
partecipazione alla pratica delle primarie, è una discesa. Meglio
chiamarla una deriva. Che cos’è una deriva? E’ quando qualcosa accade, e
tu non puoi fermarla, e dunque devi assumerla, e così però non solo ne
diventi parte, ma contribuisci a farla vincere. La crisi della politica
c’è, non perché la politica non ha più ascoltato, ma perché non ha più
parlato. E’ diventata l’intendenza che segue invece dell’avanguardia che
precede. La politica non ha più assolto alle sue funzioni: dirigere i
processi, risolvere i problemi, non gestire ma governare, organizzare il
conflitto, più che dare rappresentanza, fare rappresentazione del
sociale, negli antagonismi di una società divisa, mostrare di avere a
cuore le forme di vita delle persone, produrre futuro nella critica del
presente.
Bisogna ripartire dall’alto. Per rifare popolo, è necessario,
indispensabile, ricostruire classi dirigenti. Qui è l’oggi della Tigre
Assenza. Non è un compito impossibile. La crisi potrebbe essere il
kairòs, l’occasione, il tempo giusto. Non se ne vedono i segni. Ma non è
vero che la storia è finita. E’ solo un film interrotto dagli spot
pubblicitari della cronaca quotidiana, che sembrano eterni. Sono finite
le filosofie della storia, le narrazioni ideologiche borghesi di un
inarrestabile progresso verso il meglio. Il meglio te lo devi
conquistare. Lo devi imporre al corso della storia, che rema contro.
Anche questo, forse soprattutto questo è politica. E politica
antagonista. Essenziale è non lasciarsi tentare dal tutto e subito,
dalla semplificazione, dall’improvvisazione, e cioè di nuovo
dall’illusione velleitaria e minoritaria. Non ci sono scorciatoie. Il
cammino è lungo, e lento. Anche chi, come noi, resiste ad assumere il
nome di riformista, deve però disposi a ripensare il concetto di
rivoluzione. Si tratta di un processo, articolato, contraddittorio, non
lineare, non progressivo. Qualcuno ci aveva avvertito che non si sarebbe
trattato di una camminata sulla prospettiva Nevskij. Anche con questo
capitalismo i conti sono complicati. Non è il caso di risolverli, per
usare una espressione di Marx, “alla plebea”. C’è piuttosto da alzare la
sfida, riconsegnando una credibile autorevolezza al rifiuto della
logica di sistema. Come per lo Stato, la società borghese si cambia, non
si abbatte, non si nega, si supera. E nel superamento c’è sempre il
movimento del trattenere ciò che serve. Nella contingenza, cioè nella
realtà, è concessa solo l’utilizzazione del nemico. Di nuovo, questa è
politica. Ma ci vuole, la forza, l’intelligenza e, appunto, l’autorità.
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