Il capitalismo ha divorziato per sempre dalla democrazia. E dire che l'aveva riscoperta solo due secoli fa, sollevandola da forma di regime politico adatto a piccole comunità (le città-stato della Grecia classica e rare esperienze altrettanto dimensionalmente limitate in altre epoche e culture) a “regola quasi obbligatoria” di composizione sociale in abbinamento allo stato-nazione.
Non che l'ideale democratico sia mai stato realizzato nella pratica corrente delle democrazie occidentali. È noto che la democrazia è stata più formale che sostanziale in quasi tutti gli stati dell'occidente capitalistico; in altri termini, all'egualianza formale declamata dalle Costituzioni non è mai corrisposta l'egualianza reale. Né sul piano impervio del benessere, né su quello della possibilità di influire sulla decisione politica (ovvero: riguardante l'insieme dei “cittadini”).
Ma l'affermazione dell'egualianza almeno formale non era fin qui mai stata messa in discussione, costituendo il più potente fattore di legittimazione del modo di produzione capitalistico, nonché l'asse ideologico portante, capace di giustificare la pretesa “superiorità morale” del capitalismo rispetto a sistemi economici alternativi (il socialismo, e nessun altro). Solo se tutti siamo formalmente uguali, legittimati a concorrere per qualsiasi carica, legittimati a organizzarci per sostenere collettivamente interessi sociali particolari (tramite partiti, sindacati e associazioni di ogni tipo) e così co-determinare il corso politico del paese, si può credibilmente sostenere che tanto basti a inverare “l'ugualianza” tra i cittadini. Lasciando sullo sfondo o nascondendo intenzionalmente le differenze reali, i conflitti fra le classi, le emarginazioni e le esclusioni.
Tutto questo è finito, relegato al passato o alle illusioni di “progresso”.
Non siamo noi a dirlo, ma i maestri – autonominatisi e molto presuntuosi – del pensiero liberale e “progressista” di tutto l'Occidente.
È sempre più frequente, insistita, ricorrente, l'affermazione per cui la “governabilità” - o la governance, ovvero l'amministrazione pura e semplice di decisioni generali insindacabili prese da “tecnici” o centri di potere irraggiungibili – deve prevalere sempre e comunque sulla “discussione”, sulle “mediazioni” sociali e politiche. Il governo Renzi presenta quotidianamente un campionario bulimico di espressioni che, ognuna per sé e tutte insieme, significano esattamente questo.
Ma bisogna dare atto che la questione è stata sollevata nei suoi termini più brutali, con qualche involontaria sincerità, addirittura da uno dei guri del pensiero liberal italiano: Eugenio Scalfari. Nel suo editoriale di domenica, su Repubblica, ha per un verso restituito l'onore delle armi al concetto di “ideologia” e per l'altro seppellito senza nostalgia qualsiasi illusione sulla “democrazia”.
La prima parte è quasi condivisibile, pur confermando l'antica confusione concettuale tra ideologia e concezione del mondo.
Lasciamo perdere tutte le sciocchezze su Platone e l'antica Roma (non occorre essere degli specialisti per vedere che Scalfari mette nello stesso piatto animali appartenenti a generi assai doversi) e concentriamoci sull'affermazione “epocale”: io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l'oligarchia.
Resta la sovranità, ma non più "popolare". Ovvero fondata sulla totalità dei cittadini e a loro soltanto appartenete. Ce n'è una nuova: "sociale". Ma senza alcun'altra specificazione. E sospettiamo che Scalfari tenda a farla coincidere con la volontà degli stessi oligarchi.
Come vedete non esiste alcuna specificità temporale, nessuna “condizione storica determinata”, in grado di spiegare il fulmineo passaggio dal considerare come l'optimum la democrazia all'affermazione mestastorica della “superiorità” dell'oligarchia. In ogni epoca, sotto qualsiasi modo di produzione, nel solco di qualsiasi cultura millenaria o solo secolare... Oligarchia per sempre, insomma. Uno stigma per discplinare la natura umana, non una forma politica dalle alternie fortune...
Sorvoliamo anche sul “dettaglio” per cui il giornale da lui fondato, in queste settimane, va sostenendo l'offensiva statunitense e dell'Unione Europea contro la Russia, sul nodo ucraino, argomentando come sempre le differenze epocali tra la “democrazia” (il campo cui veniamo iscritti d'ufficio) e “l'oligarchia putiniana”. Oligarchi contro, perché dovremmo preferirne alcuni contro altri? Sorvoliamo...
Andiamo invece fino in fondo allo sragionare scalfariano. A che cosa viene ridotta, a questo punto, la “democrazia”? All'esistenza di procedure elettorali in grado di selezionare gli oligarchi e alla possibilità di ricambio frequente nel gruppo ristretto dei “decisori”.
Troppo facile vedere in questo discorso una giustificazione a posteriori della “resistibile ascesa” di Matteo Renzi nell'olimpo dei “riformatori”, ovvero degli architetti della sospirata oligarchia perenne. Troppo facile e troppo poco, perché il pessimo ideologo Scalfari - “elevando” la riflessione dalla palude della contingenza politica al cielo delle teorie sui sistemi politici – compie un'operazione che corrisponde in pieno al punto d'arrivo di una riflessione esistente da oltre 40 anni all'interno dei decision makers occidentali: metter fine alla democrazia per cercare di assicurare un futuro al capitalismo.
Il mondo è com'è, ed è il teatro d'azione del capitale multinazionale. Inutile cercare – suggerisce Scalfari – di mantenere in vita quell'ideale democratico per cui tutti siamo alla pari davanti alla nazione e alle sue leggi e concorriamo – partecipando – alla formazione delle decisioni, quindi all'evoluzione politica. Quel che si deve fare è deciso da altre parti. E da lì ci arrivano degli input che dobbiamo soltanto adattare quel che resta della nostra struttura economica e sociale.
Inutile dunque illudere “il popolo” che possa dire qualcosa di sensato su come il Paese deve essere guidato e trasformato. Inutile e dannoso lasciare ancora credere che esistano “diritti esigibili” sul piano sociale (sanità, welfare, benessere, ecc) e addirittura su quello politico (partiti alternativi a quelli “maggioritari per destino”). Siamo in un sistema oligarchico e tutto quel che “il popolo” può fare è decretare quali oligarchi si debbano far da parte alla fine di un ciclo, favorendo l'ingresso di “nuovi assunti”.
Ci avete fatto caso? Scalfari riduce l'importanza delle stesse elezioni a una sola funzione: “Un'oligarchia [...] verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni”.
Noi “cosiddetti”, insomma, possiamo solo essere chiamati ad alzare o ad abbassare il pollice ogni tot anni, come la plebe romana nel circo. Le elezioni come “giudizio sul passato”, non come indicazione del futuro che si vuol realizzare.
Discorso già sentito, fra l'altro in sede di “studi” commissionati dall'Aspen Institute. Povero Eugenio, non gli è rimato neppure un tocco di originalità...
****
Consiglio, per integrare, la lettura di due articoli diversi ma convergenti. Uno di Dante Barontini, su Contropiano, proprio a proposito dei politologi dell'Aspen. L'altro, del sottoscritto, presentato un anno fa a un seminario internazionale su "Rompere la gabbia dell'Unione Europea", che mi sembra anticipi in più passaggi quel che uno stralunato Scalfari osa dire soltanto oggi.
a) http://contropiano.org/documenti/item/24962-per-fortuna-sono-proteste-senza-progetto-parola-di-aspen?highlight=YToxOntpOjA7czo1OiJhc3BlbiI7fQ==
b) Capitalismo, democrazia, politica. Cambio in corsa, sul numero di Contropiano uscito nel febbraio di quest'anno. (Che potete trovare qui: Capitalismo_democrazia_politica._Cambio_in_corsa.docx14.61 KB; la Redazione)
dal blog Tempo Reale
Non che l'ideale democratico sia mai stato realizzato nella pratica corrente delle democrazie occidentali. È noto che la democrazia è stata più formale che sostanziale in quasi tutti gli stati dell'occidente capitalistico; in altri termini, all'egualianza formale declamata dalle Costituzioni non è mai corrisposta l'egualianza reale. Né sul piano impervio del benessere, né su quello della possibilità di influire sulla decisione politica (ovvero: riguardante l'insieme dei “cittadini”).
Ma l'affermazione dell'egualianza almeno formale non era fin qui mai stata messa in discussione, costituendo il più potente fattore di legittimazione del modo di produzione capitalistico, nonché l'asse ideologico portante, capace di giustificare la pretesa “superiorità morale” del capitalismo rispetto a sistemi economici alternativi (il socialismo, e nessun altro). Solo se tutti siamo formalmente uguali, legittimati a concorrere per qualsiasi carica, legittimati a organizzarci per sostenere collettivamente interessi sociali particolari (tramite partiti, sindacati e associazioni di ogni tipo) e così co-determinare il corso politico del paese, si può credibilmente sostenere che tanto basti a inverare “l'ugualianza” tra i cittadini. Lasciando sullo sfondo o nascondendo intenzionalmente le differenze reali, i conflitti fra le classi, le emarginazioni e le esclusioni.
Tutto questo è finito, relegato al passato o alle illusioni di “progresso”.
Non siamo noi a dirlo, ma i maestri – autonominatisi e molto presuntuosi – del pensiero liberale e “progressista” di tutto l'Occidente.
È sempre più frequente, insistita, ricorrente, l'affermazione per cui la “governabilità” - o la governance, ovvero l'amministrazione pura e semplice di decisioni generali insindacabili prese da “tecnici” o centri di potere irraggiungibili – deve prevalere sempre e comunque sulla “discussione”, sulle “mediazioni” sociali e politiche. Il governo Renzi presenta quotidianamente un campionario bulimico di espressioni che, ognuna per sé e tutte insieme, significano esattamente questo.
Ma bisogna dare atto che la questione è stata sollevata nei suoi termini più brutali, con qualche involontaria sincerità, addirittura da uno dei guri del pensiero liberal italiano: Eugenio Scalfari. Nel suo editoriale di domenica, su Repubblica, ha per un verso restituito l'onore delle armi al concetto di “ideologia” e per l'altro seppellito senza nostalgia qualsiasi illusione sulla “democrazia”.
La prima parte è quasi condivisibile, pur confermando l'antica confusione concettuale tra ideologia e concezione del mondo.
Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, fu che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio (Francis Fukuyama, ndr); ora non c'è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.Quasi vero. Se non fosse che la pretesa “fine delle ideologie” è stata una delle chiavi di volta – ideologiche, non per caso – con cui è stato smantellata la legittimità ad esistere di ogni sistema di valori egualitario (non solo quello socialista, se dobbiamo prendere sul serio, come va fatto, la crisi di senso della Chiesa Cattolica), alternativo o semplicemente differente. Ma il cuore significante dell'argomentazione scalfariana è un altro.
Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L'ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l'eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un'ideologia: il socialismo è un'ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l'esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un'ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.
Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l'oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l'agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).Qui il discorso è finalmente esplicito, anche se privo della contestualizzazione storico-econiomica che giustifica il “salto di paradigma” dalla democra tout-court a una “oligarchia temperata” dalla formale persistenza di procedure elettorali prive però di opzioni alternative.
Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l'oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla "Repubblica".
Certo l'oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un'oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.
Lasciamo perdere tutte le sciocchezze su Platone e l'antica Roma (non occorre essere degli specialisti per vedere che Scalfari mette nello stesso piatto animali appartenenti a generi assai doversi) e concentriamoci sull'affermazione “epocale”: io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l'oligarchia.
Resta la sovranità, ma non più "popolare". Ovvero fondata sulla totalità dei cittadini e a loro soltanto appartenete. Ce n'è una nuova: "sociale". Ma senza alcun'altra specificazione. E sospettiamo che Scalfari tenda a farla coincidere con la volontà degli stessi oligarchi.
Come vedete non esiste alcuna specificità temporale, nessuna “condizione storica determinata”, in grado di spiegare il fulmineo passaggio dal considerare come l'optimum la democrazia all'affermazione mestastorica della “superiorità” dell'oligarchia. In ogni epoca, sotto qualsiasi modo di produzione, nel solco di qualsiasi cultura millenaria o solo secolare... Oligarchia per sempre, insomma. Uno stigma per discplinare la natura umana, non una forma politica dalle alternie fortune...
Sorvoliamo anche sul “dettaglio” per cui il giornale da lui fondato, in queste settimane, va sostenendo l'offensiva statunitense e dell'Unione Europea contro la Russia, sul nodo ucraino, argomentando come sempre le differenze epocali tra la “democrazia” (il campo cui veniamo iscritti d'ufficio) e “l'oligarchia putiniana”. Oligarchi contro, perché dovremmo preferirne alcuni contro altri? Sorvoliamo...
Andiamo invece fino in fondo allo sragionare scalfariano. A che cosa viene ridotta, a questo punto, la “democrazia”? All'esistenza di procedure elettorali in grado di selezionare gli oligarchi e alla possibilità di ricambio frequente nel gruppo ristretto dei “decisori”.
Troppo facile vedere in questo discorso una giustificazione a posteriori della “resistibile ascesa” di Matteo Renzi nell'olimpo dei “riformatori”, ovvero degli architetti della sospirata oligarchia perenne. Troppo facile e troppo poco, perché il pessimo ideologo Scalfari - “elevando” la riflessione dalla palude della contingenza politica al cielo delle teorie sui sistemi politici – compie un'operazione che corrisponde in pieno al punto d'arrivo di una riflessione esistente da oltre 40 anni all'interno dei decision makers occidentali: metter fine alla democrazia per cercare di assicurare un futuro al capitalismo.
Il mondo è com'è, ed è il teatro d'azione del capitale multinazionale. Inutile cercare – suggerisce Scalfari – di mantenere in vita quell'ideale democratico per cui tutti siamo alla pari davanti alla nazione e alle sue leggi e concorriamo – partecipando – alla formazione delle decisioni, quindi all'evoluzione politica. Quel che si deve fare è deciso da altre parti. E da lì ci arrivano degli input che dobbiamo soltanto adattare quel che resta della nostra struttura economica e sociale.
Inutile dunque illudere “il popolo” che possa dire qualcosa di sensato su come il Paese deve essere guidato e trasformato. Inutile e dannoso lasciare ancora credere che esistano “diritti esigibili” sul piano sociale (sanità, welfare, benessere, ecc) e addirittura su quello politico (partiti alternativi a quelli “maggioritari per destino”). Siamo in un sistema oligarchico e tutto quel che “il popolo” può fare è decretare quali oligarchi si debbano far da parte alla fine di un ciclo, favorendo l'ingresso di “nuovi assunti”.
Ci avete fatto caso? Scalfari riduce l'importanza delle stesse elezioni a una sola funzione: “Un'oligarchia [...] verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni”.
Noi “cosiddetti”, insomma, possiamo solo essere chiamati ad alzare o ad abbassare il pollice ogni tot anni, come la plebe romana nel circo. Le elezioni come “giudizio sul passato”, non come indicazione del futuro che si vuol realizzare.
Discorso già sentito, fra l'altro in sede di “studi” commissionati dall'Aspen Institute. Povero Eugenio, non gli è rimato neppure un tocco di originalità...
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Consiglio, per integrare, la lettura di due articoli diversi ma convergenti. Uno di Dante Barontini, su Contropiano, proprio a proposito dei politologi dell'Aspen. L'altro, del sottoscritto, presentato un anno fa a un seminario internazionale su "Rompere la gabbia dell'Unione Europea", che mi sembra anticipi in più passaggi quel che uno stralunato Scalfari osa dire soltanto oggi.
a) http://contropiano.org/documenti/item/24962-per-fortuna-sono-proteste-senza-progetto-parola-di-aspen?highlight=YToxOntpOjA7czo1OiJhc3BlbiI7fQ==
b) Capitalismo, democrazia, politica. Cambio in corsa, sul numero di Contropiano uscito nel febbraio di quest'anno. (Che potete trovare qui: Capitalismo_democrazia_politica._Cambio_in_corsa.docx14.61 KB; la Redazione)
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