I
tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur
senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice
evocare la terza guerra mondiale, il segretario della Nato non
escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente
una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo
in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà
incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina
collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente.
Accelerando.
Ma
le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente
accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze
materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il
“clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras,
Casadio e Vasapollo.
La
cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi "di sinistra" – è
che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l'Europa come
un cerchio di fuoco. L'ovest appare pacifico solo perchè confina con
l'Atlantico, un oceano che divide l'Europa dagli Stati Uniti, ovvero la
sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l'Europa verso
il clash. La linea intrapresa dai governi dell'Unione Europea sulla
crisi e il conflitto in Ucraina è emblematico. Gli Usa spingono i paesi
europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la
Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime
decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra
sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano
menti silenziose.
Ma a
sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria
rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione
scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità
belligerante nella vicina Libia,e in Iraq, Siria, Palestina e Egitto
dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal gen. Al
Sisi - diventato beniamino delle cancellerie occidentali - riesce a
malapena a comprimere il fuoco sotto le braci. Insomma la sponda sud
dell'Europa è l'area di instabilità e guerra più infuocata del globo.
Oggi
appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali
siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e
instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del
bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare,
mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche,
idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di
alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il
doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e
coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la
Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite
petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare
milizie in guerra tra loro.
Una
disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar,
Emirati Arabi dalla Bosnia del '93, passando per la Cecenia,
l'Afghanistan fino alla Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina, Sudan, ci
consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca
rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze
europee alla fine della prima guerra mondiale. In realtà questo assetto
era già stato sconvlto dall'entrata in campo degli Stati Uniti in Medio
Oriente, fin dal colpo di stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi
lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel
momento il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di
Washington; un'enclave in cui le potenze europee (Italia inclusa)
potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati
interessi (vedi la Libia).
Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e
cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno
assestato un nuovo scossone all'assetto precedente. Via l'Iraq di
Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina
dell'Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli
Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e
della ex Urss. Altri territori "vergini" che hanno visto nascere a est
di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di
questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco
più che "granducati". Facili da piegare, minacciare, ricattare,
eventualmente cancellare o sovvertire.
Fino a un certo punto. Ecco è
questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va
raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi
nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l'Urss,
ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di stato
(usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i
Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati
Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste),
non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in
passato il mondo.
Dunque
se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto
asimmetriche rispetto al Washington Consensus - non hanno più la materia
per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la
competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l'instabilità nel cortile
di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione
preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo
abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un
capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un
sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva,
anche il "capitale umano" - definito anche e non a caso "capitale
variabile" - può diventare un eccesso da dover distruggere.
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