L’industria
europea, a partire da Maastricht, si è progressivamente strutturata
come industria sovranazionale sia da un punto di vista strutturale sia
territoriale. Essa consiste, infatti, di sistemi di imprese, ognuno dei
quali è organizzato attorno a un’azienda leader che controlla la parte
finale del processo produttivo e da un catena di fornitura organizzata a
livelli progressivamente a minor valore aggiunto e a reti di imprese
produttive e di servizi, entrambi ad alta specializzazione, che lavorano
per molte imprese leader. Questi sistemi di impresa sono distribuiti in
molti paesi europei ma in modo non omogeneo dato che la produzione
manifatturiera è concentrata per il 70% in Germania, per un quarto,
seguita dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Spagna. Il
nucleo centrale è privilegiatamente localizzato in Germania, ed Austria,
paesi che assieme alla Romania, alla repubblica Ceca, all’Ungheria,
alla Slovacchia, alla Lituania, alla Slovenia, alla Polonia e alla
Bulgaria costituiscono l’area manifatturiera tedesca allargata. Vi è
quindi uno spostamento del baricentro industriale a est. L’Italia,
secondo paese manifatturiero, partecipa largamente all’area
manifatturiera tedesca allargata, in una specifica configurazione pur
essendo anche autonomamente attivo nella creazione di catene di
sub-fornitura ad Est.[1]
Il sistema è quindi fortemente concentrato, o in una dizione classica
centralizzato, e strutturato in modo oligopolistico. Questo sistema
funzionava, prima della crisi con un flusso di interscambi commerciali
molto elevato interno alla UE e con una quota importante di esportazione
extra UE, con attivo delle partite correnti fortemente legato alla
scelta tedesca di una linea neo-mercantilista basata su forti
contenimenti salariali e l’uso delle nuove sedi produttive, ad est e nel
sud dell’Europa, come calmieramento sia dei costi produttivi sia dei
costi del capitale. I sistemi di imprese così formatisi sono sistemi
integrati nel senso che i margini di ritorno e i criteri di efficienza
riguardano sempre meno la singola impresa e sempre di più ogni sistema ,
sia esso una catena a livelli sia, una struttura a rete, con vincoli
meno rigidi. Per questa via nuovi poteri si sono consolidati in Europa,
poteri che sono in grado di operare scelte di investimento in capacità
produttiva, di strutturare il mercato (oligopoli), di determinare i
criteri di allocazione finanziaria e di regolare direttamente il lavoro.
La governance di questi sistemi di impresa riguarda sia il controllo
fisico dei flussi produttivi – qualità, tempi, flessibilità e rapidità
quando vi è un cambio del mix di prodotti (servizi o ibridi) da fornire –
sia l’efficienza produttiva complessiva (produttività, lead time,
time-to- market), sia, infine, i margini di ritorno di quel sistema di
imprese. La dominanza tedesca nel controllo di queste reti ha prodotto
(Simonazzi et al., 2013) una funzionalizzazione di molta parte dei
sistemi nazionali alle esigenze tedesche. Simonazzi e i suoi colleghi
(2013)[2] hanno dimostrato che i meccanismi di integrazione industriale
sono asimmetrici tra la direzione Est Europa e quella Sud Europa. Mentre
verso est la progressiva integrazione “ha accelerato un processo di
diversificazione produttiva combinata con uno di specializzazione”,
l’effetto verso sud è di un “impoverimento della matrice produttiva”, in
particolare, è il caso, ad esempio, dell’Italia centrale e meridionale,
di “quelle regioni meno collegate alla Germania”.
La crisi è intervenuta su questo sistema industriale e attraverso i
suoi effetti ha evidenziato sia i rapporti interni a questo sistema sia i
problemi che lo caratterizzano. La dipendenza – crescente, dopo le
politiche di rigore anticrisi – dal commercio estero ha provocato il
tracollo iniziale, e la seconda caduta nel 2011, sia direttamente in
ogni paese della UE con bilancia commerciale attiva, sia attraverso gli
impulsi che il sistema produttivo trasmette lungo le sue linee di
articolazione interna, a partire dalla Germania. Vi è una riduzione del
commercio interno all’Europa e una crescente quota di relazioni
bilaterali tra ciascun paese e la Germania orientate all’importazione
dalla Germania, piuttosto che all’esportazione; se non che per i
prodotti/servizi che alimentano le catene produttive prima descritte.
Non solo quantitativamente ma anche rispetto a cosa produrre e per chi,
cioè la matrice produttiva, i singoli paesi della Ue sono condizionati
da questi nuove potenze economico-industriali e quindi, in larga misura,
dalle scelte tedesche. Il neomercantilismo tedesco si rivolge alla
cosiddetta classe media globale, cioè a quegli strati percentualmente
minoritari della Cina, dell’India, del Brasile, ecc., ma che in termini
assoluti rappresentano una quota importante della domanda affluente
globale.
La Germania punta a soddisfare, sia attraverso il commercio estero
diretto sia attraverso investimenti diretti esteri per creare lì la
capacità produttiva necessaria, questa domanda, in particolare nel
settore della automobili e quindi, anche nei beni di investimento come i
macchinari a ciò necessari. L’Italia cerca di soddisfare questa domanda
in altri settori sia del made-in-Italy sia di beni di investimento
molto specifici come nelle macchine per il dosaggio e confezionamento
nell’alimentare, nel farmaceutico e nel tabacco.[3]
Le politiche reflattive invocate da più parti, per quanto necessarie,
non sono in grado di fare uscire l’industria europea da questa
situazione. Da un lato, esse trasmetterebbero impulsi di domanda che
premierebbero le catene produttive appena descritte, con un privilegio
per chi le controlla. Dall’altro lato, esse presuppongono l’immutabilità
di questa matrice produttiva, mentre per le ragioni accennate
bisognerebbe affrontare di nuovo il problema di cosa produrre, per chi e
come.[4]
Questi nuovi sistemi di impresa vengono presentati come “onnipotenti”
poiché non sono sottoposti ad alcuna regolazione a livello UE, rispetto
ai temi lavoristici, e quelle nazionali non funzionano più dato che vi è
il ricatto permanente del trasferimento in un altro paese. In realtà il
sistema industriale europeo è largamente autocontenuto nei confini
della UE.
Il contenuto interno alla UE dell’export, in termini lordi, era nel
2009 dell’85,6%, quindi la produzione europea per l’export è
fondamentalmente realizzata in catene del valore europee; il sistema
potrebbe essere regolato rispetto ai temi lavoristici solo che lo si
volesse.
[1] Vedi Simonazzi, A., Ginzburg, A., and Nocella, G., (2013), –
Economic relations between Germany and southern Europe. Cambridge
Journal of Economics, vol. 37, 2013, pp.653–675 e Garibaldo, F. – Il
Made in Italy come organizzazione industriale -in corso di pubblicazione
in “allegoria”, terza serie, a. XXV, n. 68, giugno-dicembre 2013.
[2] Simonazzi, et al. , op. cit. pp. 662-664
[3] Per un esame più approfondito vedi Garibaldo, F. - Il Made in Italy come organizzazione industriale- op.cit.
[4] vedi Bellofiore, R.; Garibaldo, F. ; Mortagua, M. – A
credit-money and structural perspective on the European crisis: why
exiting the euro is the answer to the wrong question. e l’appendice.
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