L'irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Seller:
un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso
per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco
tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare
consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti -
grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.
Parla
e risponde con frasi insensate o con osservazioni fuori luogo che
coloro che lo incontrano, sempre più in alto nella scala sociale,
considerano osservazioni profonde o tremendamente innovative. In parte
lo fanno per interesse (cercano un "uomo di paglia" dietro cui
nascondere i propri affari); in parte per inettitudine (non hanno una
comprensione del mondo molto maggiore della sua); in parte ripongono in
lui le loro aspettative perché non hanno nient'altro a cui appigliarsi. Non
sono ovviamente le doti del giardiniere a portarlo in alto, ma
l'inconsistenza di coloro che di volta in volta lo sostengono, che non
hanno più alcun orizzonte di senso a cui fare riferimento.
Certo Renzi non è demente, ma si muove con la stessa logica di quel giardiniere:
non risponde alle questioni che gli vengono poste, o ai problemi che
gli pone la situazione del paese, ma parla d'altro e fa e fa fare altro
ai suoi adepti; ogni volta rilanciando con qualche progetto, qualche
promessa, qualche impegno che non hanno niente a che fare con ciò di cui
gli si chiede di occuparsi: l'economia e l'occupazione precipitano e
lui si occupa solo di stravolgere la Costituzione (si veda in proposito
la lista, ancorché parziale, delle sue inadempienze, elencate da
Salvatore Settis su Repubblica del 13.8).
Ma Renzi piace - o è piaciuto finora - sempre di più proprio per questo,
raccogliendo poco per volta anche l'adesione di chi fino a poco tempo
prima lo avversava o lo riteneva del tutto inadeguato. Non è merito suo;
è il frutto dell'inconsistenza dell'establishment che gli riconosce una
credibilità che non ha alcun fondamento e che ha costituito intorno a
quella figura da guitto il suo "partito della nazione". Ma non si tratta
di un fenomeno solo italiano (Renzi ha riscosso un credito immeritato
anche in Europa), anche se in Italia quella mancanza di orizzonti, di
prospettive, di respiro politico è più accentuata che altrove.
La
"fine della storia" teorizzata - e poi rinnegata - dal politologo
Francis Fukuyama si è rivelata in realtà un ambiente dai confini
invalicabili per le classi dirigenti - politiche, economiche e
accademiche - immerse da decenni in un eterno presente senza passato né
futuro, in cui si è rinchiuso quel pensiero unico che ha fatto
dell'economia la religione del nostro tempo e del mercato il regolatore
unico e insostituibile della vita economica, ma anche di ogni forma di
convivenza umana. Perché il pensiero unico non è liberismo o
"neoliberismo" in senso stretto (né la competitività che predica è
libera concorrenza); è una dottrina che sostiene appropriazione e
privatizzazione di tutto l'esistente (risorse naturali, beni e servizi,
imprese, territorio, ambiente, facoltà e persino organi umani), ma
sempre con il supporto dello Stato: per questo l'inconsistenza
intellettuale, non solo italiana, di un ceto politico sempre più
invadente non è un incidente o una deviazione da un percorso lineare che
ha nel mercato il suo nume tutelare. E' una componente essenziale di un
meccanismo estrattivo di cui la crisi in corso ha ormai rivelato il
carattere fondamentalmente predatorio.
Con il senno che ci viene
da ormai sete anni di crisi, possiamo ora rispondere in modo più
convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli
economisti della London School of Economics: "Perché, con tutta la
vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?". Non è
stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli
interlocutori della regina, l'eccessiva matematizzazione della
disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra
l'altro, che anche chi la crisi l'aveva prevista, come l'economista
Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di
Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). L'orizzonte culturale è
sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (che, anche se
fosse possibile "riagguantare", è insostenibile, non è possibile che
duri nel tempo); e mercato, cioè "competitività", da recuperare a
qualsiasi costo (magari con qualche correttivo).
Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi.
Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una
rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni
fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui
essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o
aspirano tutti a farsi "consiglieri del principe"; non per fornirgli
strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in
volta, le sue scelte: quelle imposte dai "mercati" (che non sono "il
mercato", ma i pochi protagonisti dell'alta finanza che governano
l'economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare
cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di
crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa
veramente che "l'anno prossimo" l'Italia riprenderà a crescere? Eppure è
anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il
fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione.
D'altronde sono i sacerdoti della "religione del nostro tempo": che
cos'altro attendersi da loro?
Non possiamo rimanere succubi di
questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e
riconquistare un'egemonia culturale che metta al centro non "i mercati"
(quelli che "votano" governi, politiche economiche e ora anche riforme
istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan,
pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma
gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale
conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in
quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello economico; il
che significa riconfigurare il governo dell'impresa in senso
democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del
conflitto la consapevolezza dell'ineludibilità di questo obiettivo
(peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei
processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla
competitività universale liberista).
E' un programma di ampio respiro che non ammette i "due tempi"
(subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle
nostre esistenze imposte dall'austerity; poi una vera riforma della
società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti
sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla
dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due
esempi: quanti avversari dell'austerity, nell'invocare una ripresa di
politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un
rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più
attuali, come "l'eutanasia del rentier", il dimezzamento dell'orario di
lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un
economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità
economica italiana si cominciasse a prospettare una "rimodulazione" del
debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a
fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività
universale come principio fondativo del pensiero unico?
Siamo
ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro
meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e
condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per
sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel
mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro
modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la
conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il
"giardiniere" venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come
Monti e Letta.
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