Un’infinita
tristezza. È questo il sentimento che prevale nel momento in cui
si assiste alla votazione del Senato sulla modifica della
Costituzione. Domani riprenderemo la lotta per evitare il peggio:
perché la legge costituzionale concluda il suo iter dovranno
passare ancora molti mesi e altri passaggi parlamentari ci
aspettano, poi — nel caso — il referendum oppositivo. Dunque,
nulla è ancora perduto. Salvo, forse, l’onore.
In
pochi giorni il Senato non ha approvato una riforma costituzionale
(buona o cattiva che si possa ritenere), bensì ha distrutto il
Parlamento sotto gli occhi degli italiani. Nessuno dei
protagonisti è stato esente da colpe. Si è assistito a una sorta di
omicidio seriale, ciascuno ha inferto la sua pugnalata. Alcuni con
maggior vigore, altri con imperdonabile inconsapevolezza, altri
ancora non trovando altre vie d’uscita.
Il maggior
responsabile è certamente stato il Governo che ha diretto l’intera
operazione, senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del
Parlamento. Le progressive imposizioni e l’ininterrotta
invasività dell’azione del Governo in ogni passaggio parlamentare
hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato. Non
s’è trattato solo dell’anomalia della presentazione di un disegno
di legge governativo in una materia tradizionalmente non di sua
competenza.
Ma anche nell’aver
costretto la Commissione — in modo poco trasparente — a porre
questo come testo base nonostante la discussione avesse fatto
emergere altre maggioranze. E poi, ancora, nell’aver voluto
controllare tutto il lavoro dei relatori — è la presidente della
Commissione che ha riconosciuto che il Governo ha “vistato” gli
emendamenti presentati appunto dai relatori — con buona pace
dell’autonomia del mandato parlamentare e del rispetto della
divisione dei poteri.
Non solo i relatori,
ma ogni senatore ha dovuto confrontarsi non tanto con l’Assemblea
bensì con la volontà governativa, e molti si sono piegati. Mi
dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimostrato come un
certo numero degli attuali senatori non tengano in nessun conto non
solo la Costituzione, ma neppure la responsabilità politica, di
cui ciascuno di loro dovrebbe essere titolare dinanzi al corpo
elettorale.
I pochissimi voti
segreti concessi su questioni del tutto marginali hanno fornito la
prova di quanto fossero condizionati e insinceri i voti palesi.
È stato così possibile evidenziare l’esteso numero dei
rappresentanti della nazione che hanno votato con la maggioranza
solo per timore di essere messi all’indice dagli stati maggiori dei
rispettivi partiti. Una lacerazione costituzionalmente
insopportabile. Se non si garantisce (o non si esercita) la
libertà di coscienza sui temi costituzionali il principio del
libero mandato serve veramente a poco. E tutto è stato fatto, invece,
per vincolare i rappresentanti alla disciplina di partito. Ancora
un colpo all’autonomia del Parlamento inferto — più che dal Governo
o dai partiti — da quegli stessi senatori che non si sono voluti
opporre palesemente a ciò che pure non condividevano.
S’è discusso
e polemizzato sulla conduzione dei lavori, sull’interpretazione dei
regolamenti e dei precedenti. Quel che lascia basiti è però altro.
Ciò che è mancato è la consapevolezza che si stesse discutendo di
una riforma profonda del nostro assetto dei poteri e degli equilibri
complessivi definiti dalla Costituzione. Se si fosse partiti da
questo assunto non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un
andamento che ha sostanzialmente impedito ogni seria discussione su
tutti i punti della revisione proposta. Non si sarebbe dovuto
assistere allo spettacolo surreale che ha visto prima esaurire
nella rissa e nel caos il tempo della discussione, per poi procedere
a un’interminabile serie di votazioni, con un’Assemblea muta
e irriflessiva che meccanicamente respingeva ogni emendamento
dei senatori di opposizione e approvava la riforma definita dagli
accordi con il Governo. Spetta al presidente di assemblea dirigere
i lavori garantendo la discussione.
Non credo possa
affermarsi che ciò sia avvenuto. Anche in questo caso per il
concorso di molti. Persino dell’opposizione, la quale ha dovuto
utilizzare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evidentemente,
ostacola una discussione razionale e pacata. Ciò non toglie che non
si doveva accettare nessuna forzatura sui tempi, nessuna
interpretazione regolamentare restrittiva dei diritti delle
opposizioni, nessuna utilizzazione estensiva dei precedenti. Si
doveva invece ricercare il dialogo, la trasparenza, il concorso di
tutti i rappresentanti della nazione. Era compito di tutti creare
un clima “costituzionale”, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha
ricercato. E temo non sia solo una questione di temperatura, ma —
ahimè — di cultura costituzionale che non c’è.
La conclusione di
ieri ha sancito la dissolvenza del Parlamento. La
delegittimazione dell’organo titolare del potere di revisione
della Costituzione è alla fine stata sanzionata dagli stessi suoi
componenti. Il rifiuto di partecipare al voto conclusivo da parte
di tutti gli oppositori rende palese che non si può proseguire su
questa strada. Vedo esultare la maggioranza accecata dal successo
di un giorno, mi aspetto qualche rozza battuta rivolta alla
opposizione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cortina
dell’irrisione, qualcuno si fermi per pensare a come rimediare. La
Costituzione non può essere imposta da una maggioranza politica
senza una discussione e contro l’autonomia del Parlamento.
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