Non
capisco perché alcuni – anzi, la grande maggioranza degli italiani, a
quanto ci vogliono far credere – ritengano che leggere un disegno di
legge due volte – una volta alla Camera e una volta al Senato – sia una
perdita di tempo. Io penso, invece, che le leggi (e i relativi decreti
attuativi, che però nessuno prende in considerazione) siano momenti
importanti della vita associata e allora leggerle due volte è sempre
meglio che leggerle una volta sola, tanto che si potrebbe pensare che il
bicameralismo si sia chiamato “perfetto” proprio per i vantaggi indotti
da questa doppia lettura.
Possibile che i nostri costituenti – i Mortati, i Moro, i Calamandrei, i Codignola, i Terracini
– non si siano posti il problema se una doppia lettura fosse una
perdita di tempo, o no? Possibile che in un momento di grande difficoltà
per il paese, che usciva dalle macerie morali e materiali della guerra,
si sia dato vita a un inutile doppione del potere legislativo? Non era
questo apparente doppione un di piú di democrazia di cui il paese aveva
bisogno? E oggi possiamo davvero rinunciare a questo di piú di
democrazia, sposando le “raffinate” elaborazioni di una Maria Elena
Boschi che ritiene che il bicameralismo “perfetto” sia solo una perdita
di tempo?
Ma allora il Parlamento deve rimanere quello di sempre?
Non voglio dire questo. Un dimagrimento delle due
Camere forse si impone, per cui 200 senatori e 400 deputati, pagati la
metà di quello che oggi percepiscono, sarebbero più che sufficienti. Ma
sufficienti per fare che cosa? Per fare le leggi e non per approvare i
decreti legge del governo. Certo, se il potere legislativo si comprime
sempre di piú fino ad annullarsi nell’esecutivo, allora il Senato serve
veramente a poco e si potrebbe addirittura eliminarlo, ma la stessa cosa
si potrebbe pensare anche per la Camera. E nel contempo si dovrebbe
eliminare anche l’art. 76 della Costituzione
che vuole che «l’esercizio della funzione legislativa non [possa]
essere delegato al governo se non con determinazione di principi e
criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti».
Ho sentito dire, tra le ragioni che giustificano
questo nuovo Senato, che “questo è il progresso”, “questo ci chiede
l’Europa” (e forse anche l’America): possiamo noi andare contro il
progresso, contro l’Europa, contro l’America?
Si dice sempre piú spesso che le regole si fanno
tutti insieme appassionatamente, e per dare credibilità a questa
affermazione si porta a esempio la partita di calcio che non si potrebbe
giocare se le due squadre che si contendono la vittoria non si
attenessero al rispetto di un’unica e comune regola del gioco. Anche se
non vedo che rapporto ci sia tra una partita di calcio e il fare
politica, devo ammettere che la metafora non mi meraviglia affatto
perché questi politici della Seconda repubblica nelle loro elaborazioni
fanno continuamente riferimento al calcio: spesso occorre “fare il
catenaccio” o “giocare in contropiede”, e, quando i tempi stringono,
siamo ai “supplementari” o addirittura ai “rigori”. E c’è chi è piú
raffinato e si addentra in schemi di gioco che per il cittadino comune
sono un mistero. Una volta erano gettonati i filosofi antichi – Platone e
Aristotele in particolare – e i detti latini erano pane quotidiano dei
parlamentari. Calamandrei e Togliatti
citavano Dante, e De Gasperi, che era di formazione austriaca, era
ritenuto «uomo di scarse lettere e di poche letture». Altri tempi,
certo, e altra cultura.
Tornando alle regole da scrivere tutti insieme,
l’idea non mi convince. Si prendono impegni comuni quando si ha una
stessa formazione e si vogliono raggiungere gli stessi fini. Quando, in
sintesi, si ha una stessa filosofia di vita, o, come si diceva una
volta, una stessa Weltanschauung. Nella società americana, per
esempio, le persone che contano sono liberali – o almeno cosí si crede –
e di conseguenza Repubblicani e Democratici possono scrivere le regole
insieme. Nel loro liberalismo, tutti affermano e confermano il
capitalismo per cui le regole non possono essere se non comuni e
l’alternanza al potere dei due partiti – o meglio, delle due lobbies – è la condizione irrinunciabile del fare politica.
Ma noi possiamo pensare secondo questi parametri?
La nostra storia politica è storia di liberali, di cattolici, di
anarchici, di socialisti, di comunisti, di fascisti, di azionisti, che
di volta in volta hanno combattuto per il proprio credo. I
liberali del Regno d’Italia si affermarono prima sui cattolici e poi sui
socialisti, i fascisti sui liberali, e sui fascisti gli antifascisti, e
le regole che quest’ultimi scrissero alla fine della Seconda guerra
mondiale si chiamarono Costituzione della Repubblica italiana. Precisava
Calamandrei: «Durante il periodo della lotta clandestina le sole
forze
politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di
liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste
stesse forze, e ad esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il
nuovo Stato italiano. Ad esse sole: questo è uno dei punti su cui
occorre avere idee chiare».
Dopo settant’anni, a chi spetta la ricostruzione
dello Stato italiano, se di ricostruzione si deve parlare? Se fascismo e
antifascismo sono ormai realtà obsolete (ma la cosa, secondo me, non è
cosí scontata), due altri concetti – che, tra l’altro, erano già
presenti nell’antifascismo della Costituzione – possono fare da
spartiacque: capitalismo e socialismo, liberalproprietari e
liberalsocialisti, diceva Walter Binni, concetti assolutamente alternativi che non ammettono alcuna mediazione.
Ricostruzione dello Stato è intervento sulla
Costituzione, cioè su quella Carta mai attuata nella Prima repubblica – e
non a caso – per volontà precisa della Democrazia cristiana. «Per
compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di
destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione
promessa», dirà Calamandrei, riandando alle origini della Carta, ma in
realtà le forze di destra cercarono con ogni mezzo di contrastare questa
rivoluzione che la Costituzione prometteva perché la sua attuazione non
sarebbe stata cosa da poco: avrebbe significato dar di balta a
quell’organizzazione statuale su cui la borghesia uscita dalla Seconda
guerra mondiale stava costruendo il suo potere.
Questo il paradosso della politica italiana: aver
realizzato una Carta costituzionale che il partito di maggioranza – la
Democrazia cristiana –, intriso di autoritarismo, clericalismo,
bigottismo, neofascismo, non poteva usare, pena la sua disfatta. Ed è
questo un paradosso che rimarrà nel tempo, perché è divenuto sempre piú
chiaro che l’attuazione della Costituzione avrebbe comportato un governo
che avrebbe dovuto assumere i diritti sociali come fondamentali per la
vita associata e muoversi di conseguenza. Ancora Calamandrei, percependo
il paradosso, cosí commentava: «abbiamo avuto per venti anni, sotto il
regime fascista, l’esperimento di un ordinamento giuridico a doppio
fondo, nel quale, dietro lo scenario venerando dello statuto albertino,
un regime di assolutismo dittatoriale faceva tranquillamente i suoi
affari. Non vorremmo che anche la Repubblica diventasse un apparato di
illusionismo costituzionale dello stesso stampo».
Illusionismo costituzionale che è durato per i
cinquant’anni del potere democristiano, che è continuato con Berlusconi e
che oggi purtroppo sembra addirittura accentuarsi. Sí, perché Renzi e
le “appassionate” donne (che non sembrano allieve di Dolores Ibárruri)
che lo affiancano, rifiutando come la Democrazia cristiana la
Costituzione, non solo non la attuano ma la stravolgono, sostenendo che
ormai “il progresso” chiede altre regole e affermano di aver aperto con
questa loro azione una stagione “storica” e “rivoluzionaria”.
Illusionismo costituzionale e linguistico! Non resta che prendere atto
che ormai le parole che definiscono gli atti politici hanno perso il
loro significato originario ed è calata su di noi quella notte in cui
tutte le vacche sono nere.
A elezioni avvenute, si deve sapere subito chi
governa e chi farà l’opposizione. Questa la caratteristica della nuova
legge elettorale: cosí sembra pensi la maggioranza della classe
politica. Permettetemi di non essere d’accordo perché la nostra è una
Repubblica parlamentare e quel “parlamentare” qualcosa vorrà pur dire. E
secondo me vuol dire che le elezioni dovrebbero servire a determinare
la rappresentanza parlamentare, mentre i governi dovrebbero farsi in
parlamento. E questo significa anche che occorrerebbe eliminare
qualsiasi premio di maggioranza – che non a caso nel 1953 fu chiamato
«legge truffa» – e qualsiasi sbarramento: una testa un voto, si diceva
un tempo, e si pensava che questa fosse la condizione primaria della
democrazia.
Ma c’è qualcosa di piú. Una legge, che attraverso
un premio di maggioranza stabilisce chi governa e chi si oppone, mostra
di «aver tradito lo spirito di cooperazione democratica lasciato dalla
Resistenza». Se nel 1953 «il premio di maggioranza fosse stato
raggiunto, la democrazia si sarebbe definitivamente trasformata in
oligarchia […]. E i cittadini di nuovo ridiventati sudditi; e rafforzata
quella distinzione tra dominatori e dominati, quella fatale scissione e
ostilità tra governo e popolo, che ha costituito per secoli la tara
italiana e che la Resistenza aveva creduto di poter finalmente
superare».
Dunque, premio di maggioranza che genera
un’oligarchia: questo il problema. Ma, si obietta, il premio di
maggioranza serve a determinare la governabilità, che in Italia è sempre
stata labile. Niente di piú falso. In Italia la governabilità è sempre
stata fin troppo forte, e per molteplici ragioni, non ultima la guerra
fredda. Senza portare a esempio il fascismo che, in quanto dittatura,
governò ininterrottamente e senza opposizione per vent’anni, basterebbe
soffermarsi sulla Democrazia cristiana che nei cinquant’anni successivi
alla Seconda guerra mondiale – gli anni che oggi sono detti della Prima
repubblica – determinò le sorti del paese. Chi si ferma alla
constatazione che questi governi democristiani in media non duravano piú
di un anno, e con questo giustifica la labile governabilità, non va
oltre il proprio naso: i governi si alternavano secondo il potere
momentaneo delle diverse correnti del partito, ma sempre governi
democristiani erano. Il fatto è che la governabilità non dipende da un
premio di maggioranza, ma dalla capacità di un partito di fare politica.
Per tornare all’esempio sopra citato, come avrebbe potuto la Democrazia
cristiana governare per cinquant’anni senza premio di maggioranza, se
non fosse stata un partito capace di esprimere una leadership tra le forze moderate?
E allora fine del bicameralismo perfetto, regole
realizzate da tutto quanto il ceto medio e per il ceto medio, riforma
elettorale centrata sul premio di maggioranza sono la spia di una
mutazione genetica che si vuol imporre al paese. E tutto fa prevedere
che si andrà verso una nuova forma di oligarchia in cui ancora una volta
il popolo sarà chiamato a pagare duramente errori non suoi. E tuttavia
la storia non finisce qui.
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