Ma allora ci tenevamo la Fornero, che almeno non ha mai fatto niente
per rendersi simpatica, allora ci tenevamo Monti, che almeno parlava in
inglese. Meglio ancora ci tenevamo Berlusconi, che ci faceva ridere tra
le lacrime.
Nel Paese che vanta il terzo posto al mondo per evasione fiscale, ma
la pressione fiscale più alta dell’Occidente per quelli che le pagano le
tasse, un sistema sanitario al collasso, monumenti impacchettati per
nascondere la vergogna dell’abbandono, coste e isole in svendita, città
d’arte oltraggiate da navi-condominio, tunnel sotterranei, traffico
soffocante, oltre che impiccate dai debiti quindi messe all’incanto per
quanto riguarda aziende di servizio, proprietà e monumenti. Nel Paese
nel quale i costi diretti della corruzione ammontano ogni anno a 60
miliardi di euro, e dove ciononostante, anzi, proprio per questo, si
continua ad investire in quelle grandi opere che la nutrono, anziché
nella cura del del territorio, mentre il 6,6% del territorio nazionale è
in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato
rischio sismico, dove i costi della mancata manutenzione idrogeologica
sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i
morti), dove dal 1985 al 2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di
dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti, dove il consumo di suolo è
del 6,9%, circa otto metri quadrati al secondo per ciascun secondo
degli ultimi cinque anni, a fronte del 2,8% europeo, ebbene in questo
Paese pare che l’ostacolo che si frappone alla crescita, il peso che ci
tira sotto, nel profondo della crisi sia rappresentato dalle arcaiche e
scriteriate libertà che si sono negli anni concesse ai lavoratori e che è
giudizioso e lungimirante oltre che moderno, smantellare come idola
maligni.
E infatti Renzi ha usato le stesse parole della Fornero, le
stesse di Sacconi, le stesse di Ichino, le stesse di chi negli anni ha
ammansito un padronato sempre più insipiente ed avido, inidoneo a
produrre e investire in ricerca, sicurezza e competitività, manager
sempre più inefficienti e arroganti attenti solo a foraggiare
l’azionariato, con la promessa di cancellare definitivamente quel quadro
di garanzie già ampiamente minacciato da una crisi pilotata proprio al
fine di abbattere lavoro, diritti e democrazia.
E infatti ha scelto come priorità allegorica di mettere mano alla
Carta costituzionale che stabilisce all’articolo 1 che la nostra è una
repubblica fondata sul lavoro, così una volta obliterato quello, si può
passare allo Stato, già mutilato della sovranità, e al sistema
repubblicano, già fortemente menomato nella rappresentanza.
La menzogna, ripetuta come un malefico mantra da politici vecchi e
nuovi, imprenditori, giuslavoristi e secondo la quale l’Italia avrebbe
bisogno di una illimitata flessibilità per poter competere con gli altri
paesi avanzati, ha ormai il naso lungo come il mito dell’austerità e si
rivelerà altrettanto inefficace, probabilmente suicida. O come la
convinzione che la crisi sia un accidente nel percorso del sistema
economico e che il prezzo di morti, erosione dello stato sociale,
perdita dei diritti sia il costo minimo da pagare per proseguire nel
cammino inarrestabile del progresso.
La loro flessibilità, comunque la si giri, significa facilità di
licenziare, diffusione di contratti di durata talmente breve da non
richiedere nemmeno il ricorso al licenziamento.
Ma vuol dire anche un mutamento tossico che si vorrebbe imporre al
pensiero comune e alle esistenze, perché infligge costi a carico della
collettività, dei singoli, delle famiglie, della comunità, insinuando
che la rinuncia ai diritti sia un obbligo sul quale non si può
transigere pena l’emarginazione totale. E facendo credere che l’abiura
dalla sicurezza sia una scelta inderogabile, che è necessario,
ineluttabile sottoporsi a contratti a termine, a collaborazioni, quelle
chiamate continuative ma di fatto discontinue, a lavori intermittenti e
occasionali, oppure semplicemente in nero, come se tutto questo non
producesse una ferita profonda, che origina nelle vite insicurezza,
impossibilità di fare progetti, ansia e incertezza e – infine – una
sfiducia e una disaffezione della cittadinanza e un disincanto della
democrazia che non ha saputo proteggere gli individui da una pressione
così potente e maligna.
E infatti la precarietà non definisce solo la natura dei contratti,
ma entra nel profondo, rendendo atipiche le aspettative e le ambizioni,
connota una condizione umana e sociale incerta, ricattabile, suscitando
l’impressione che qualcosa che uno stato che dovrebbe essere
provvisorio, diventi invece perenne come un ergastolo, come una condanna
a una vita indeterminata, instabile.
E non è certo casuale: c’è una volontà nel nutrimento che viene dato
all’insicurezza, in modo che muovendo dalle condizioni di lavoro,
intrida tutta la vita privata e pubblica, nelle quali – lo dice l’etimo
stesso della parola, è stato ricordato in questi giorni – quello che si è
raggiunto è instabile, discrezionale e dipende dall’arbitrarietà come
un diritto a termine ottenuto in seguito a una preghiera.
E non sono solo le garanzie del lavoro a essere “revocabili”, ma le
certezze esistenziali, le speranze, le aspettative, i vincoli affettivi,
i cardini, i fondamenti e le direzioni che vogliamo far prendere alle
nostre vite, a essere soggetti a decisioni di altri, padroni o chi è al
loro servizio, che ci vogliono vite nude, senza sogni, senza ideali,
senza passioni e senza passato, così da persuaderci che non abbiamo
diritto a un riscatto che non conosciamo nemmeno più.
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