Una volta c’erano le grandi famiglie, le banche, le aziende pubbliche e – dietro, ma molto presente, lo Stato. Oggi a farla da padrone ci sono le multinazionali, i colossi industriali e la finanza industriale, all’arrembaggio, come si addice a pirati a caccia di bottini facili e di prede ben disposte a farsi conquistare. Come siamo noi e il nostro sistema economico e sociale con la superiore consacrazione del premier, che in una intervista recente a uno dei suoi giornaloni amici, ha magnificato le svendite del patrimonio industriale del Paese: si tratta di “operazioni fantastiche”, che lui favorisce ricevendo la clientela a Palazzo Chigi, in modo che non sussistano dubbi sul suo appoggio incondizionato.
“ Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo” , si entusiasma l’ardito tycoon coi soldi nostri. “Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno quattrini e idee”.
È un modo nuovo e molto smart di intendere la competitività. Da trent’anni la politica di “sviluppo” di gran parte dei paesi industrializzati è stata investita da processi sconvolgenti di ristrutturazione e delocalizzazione di impianti e attività indirizzati a ammassare profitti nelle geografie nelle quali le condizioni originarie di povertà dei lavoratori, quadri normativi propizi e assenza di difese e garanzie, sistemi fiscali locali lo permettevano. Così investimenti di capitale in quello che ci ostiniamo a chiamare Terzo Mondo hanno trasportato segmenti rilevanti di processi e produzioni dove la classe operaia non aveva alle spalle la forza delle sue rappresentanze, acquisendo al tempo stesso nuovi mercati e nuovi “consumatori”. Intanto un nuovo “esercito industriale di riserva” è stato organizzato in forme nuove e sempre più spregiudicate, quello del precariato, promosso in forma bipartisan attraverso forme di lavoro a tempo determinato, permanentemente ricattabili e licenziabili.
Esulta il premier che non ha mai conosciuto il lavoro, per l’azione di trasformazione accelerata dell’Italia in quel Terzo Mondo, in modo da attrarre sempre di più investitori interessati a “operazioni fantastiche”: saccheggiare le nostre esigue finanze e le nostre risorse, muovere i capitali da una parte all’altra come tira il vento, promuovendo continue ristrutturazioni, decentramenti, subappalti, grazie alla benevolenza di un governo impegnato in intense attività filo imprenditoriali, dalla diminuzione del carico fiscale alle liberalizzazioni, dalla riduzione del potere dei sindacati, perfino con squallidi “taglia-permessi”, alla cosiddetta mobilità, alla limitazione delle varie forme di assistenza ai lavoratori, alla vendita di imprese e servizi pubblici ai privati.
Adesso il Cottarelli, cui viene dato credito a intermittenza, a seconda che la sua spending review corrisponda o meno agli ordini impartiti a Renzi Mani di Forbice da ben più alte autorità, prepara il terreno più fausto per la messa in liquidazione delle aziende pubbliche. Per carità sono tante – ma come al solito in questo Paese l’aritmetica è un’opinione affidata a istituti che non sanno e non vogliono usare nemmeno il pallottoliere: chi dice ottomila, che diecimila aziende, chi molte di più, in tutto o in parte di proprietà di Regioni, Comuni, Province variamente dedicate all’offerta di servizi, i più disparati, trasporti, allevamento, gioco d’azzardo, formazione professionale, commercio all’ingrosso e al dettaglio, spettacoli, turismo, accoglienza alberghiera. Tra queste, una su quattro (il 25%) registra un bilancio strutturalmente in perdita, il 20% il bilancio lo tiene ben nascosto. E poi ci sono quelle – quante? centinaia? – con un patrimonio negativo, debiti superiori al valore dell’azienda stessa. Per non parlare di quelle che offrono sì i servizi dovuti ma a costi superiori a quelli di mercato così che la Corte dei Conti ha emesso la sua sentenza: ammonta a 35 miliardi annui il loro peso economico, metà del quale, circa 17 miliardi, dissipato, sprecato, dilapidato.
Ma nei loro consigli d’amministrazione, tra i loro addetti c’è di tutto: amici degli amici, supporter, beneficati, grandi elettori, popolano bacini di consenso e laboratori instancabili di clientelismo e corruzione. Quindi inviolabili, intoccabili, così che la soluzione non è estirpare il male, bonificare il sistema, bensì svendere a quei privati che hanno dato dimostrazione delle loro capacità all’Ilva, come all’Indesit, alla Fiat, come all’Alitalia, a Telecom, che hanno a cuore profitti personali piuttosto che interessi generali, qualità delle prestazioni, efficienza dei servizi.
Le premesse ci sono tutte per completare il saccheggio operato da un capitalismo che non è più in grado di garantire margini di profitto e soddisfazione dell’azionariato sempre più rapace, con l’investimento nelle produzioni. La forma giuridica della società per azioni (Spa), sia interamente pubblica che mista, cioè pubblico-privata, che ha caratterizzato negli ultimi venti anni quasi tutti i servizi pubblici locali, costituisce il primo livello della privatizzazione. Così come gli affidamenti diretti, l’in house senza gara che non soltanto rappresentano una soluzione incostituzionale, ma che per di più facilitano collocazioni extra bilancio di ricavi e perdite e danno luogo al germinare di altre SpA incaricate, come in un perverso gioco di scatole cinesi irrintracciabili.
Ora il processo si completa: saranno i privati con speculazioni e aumenti delle tariffe a recuperare i costi del servizio, guadagnandoci. Mentre come al solito (basta ricordare il record di privatizzazioni che l’Italia ha segnato negli anni ’90, dal quale gli unici a trarne vantaggio furono quei gruppi di interesse nazionali ed esteri che beneficiarono dello shopping di scampoli di apparato pubblico a prezzi di saldo) saremo noi a perdere in prezzi e qualità. E in diritti di cittadinanza, dei quali fanno parte posta che viene recapitata puntualmente, bus in orario, acqua “pulita” e accessibile, uso “uguale” delle risorse: beni comuni si chiamano, nostri e inalienabili, come i diritti. Ed è per questo, per disarmarci, che ce li stanno rubando, contando su tanti complici, tanti beneficiari, anche quelli piccoli piccoli che sono tra noi.
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