giovedì 7 agosto 2014

Alfonso Gianni: Il «populismo finanziario» del premier si scontra con la realtà economica del paese




Tutti aspet­ta­vano che l’Istat par­lasse. I più con moti­vato ter­rore, qual­cuno col­ti­vando ancora qual­che irra­gio­ne­vole spe­ranza. E il responso uffi­ciale è giunto. L’economia ita­liana è in reces­sione. Lo è tec­ni­ca­mente. Anche il secondo tri­me­stre si è chiuso in nega­tivo: –0,2%, peg­gio delle già grame previsioni.
È il peg­giore secondo tri­me­stre dal 2000, quindi da prima dell’inizio della crisi. Le pre­vi­sioni sono che su base annua que­sti valori ci por­te­ranno come minimo a un – 0,3%, se non meno. E non si tratta di anda­menti con­giun­tu­rali, ma strut­tu­rali visti i dati del calo della pro­du­zione industriale.
Si può discu­tere all’infinito se gli ita­liani, quelli che l’hanno avuto, si sono o no accorti del bonus degli 80 euro, il famoso coni­glio tratto dal cap­pello che ha per­messo a Renzi di fare il pieno alle recenti ele­zioni euro­pee. Quello che è certo è che l’economia non ne ha tratto alcun van­tag­gio. Le ragioni pos­sono essere mol­te­plici ma cer­ta­mente dovrebbe essere noto per­sino a un pre­si­dente del Con­si­glio, mal­grado sia evi­den­te­mente a digiuno dei fon­da­men­tali, che quando non c’è fidu­cia sull’andamento con­creto dell’economia le per­sone e le fami­glie a basso red­dito non sono inclini a spen­dere anche se gli metti qual­che sol­dino di più nelle tasche. Al mas­simo coprono debiti pre­ce­den­te­mente con­tratti o cer­cano di rispar­miare qual­che cosa in vista di tempi ancora peg­giori. Que­sto è il motivo per cui le asso­cia­zioni dei com­mer­cianti non hanno regi­strato aumenti sen­si­bili del volume delle vendite.
Se poi si volesse appro­fon­dire, baste­rebbe ascol­tare cosa dicono ulti­ma­mente gli stessi eco­no­mi­sti del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, che hanno rico­no­sciuto che il mol­ti­pli­ca­tore dello svi­luppo di un aumento della spesa sociale andato a buon fine è molto più alto di quello pro­vo­cato da una ridu­zione delle tasse. Pen­sare di con­trarre la spesa sociale e di dimi­nuire con­tem­po­ra­nea­mente le tasse pro­duce logi­che reces­sive in campo eco­no­mico, oltre che ingiu­sti­zie sociali. Infatti i pen­sio­nati e quelli a par­tita Iva sono rima­sti esclusi dal bonus ren­ziano, ma subi­scono al pari degli altri la ridu­zione com­ples­siva della spesa sociale e la decur­ta­zione dei ser­vizi, che peg­gio­rerà, tra le altre cose, una volta com­ple­tata la famosa spen­ding review.
La nega­zione del diritto al pen­sio­na­mento di chi tra gli inse­gnanti ha rag­giunto la famosa «quota 96», deri­vante dalla somma dell’età ana­gra­fica e di quella con­tri­bu­tiva, non è solo un inci­dente di per­corso, un con­tra­sto tra la volontà poli­tica del governo e le fer­ree leggi del bilan­cio tute­late dalla buro­cra­zia del Mini­stero del Tesoro (in osse­quio, del resto, ai vin­coli deri­vanti dai trat­tati euro­pei e da quelli costi­tu­zio­nali voluti dalla attuale mag­gio­ranza ai tempi di Monti), ma una delle sem­pre più fre­quenti mani­fe­sta­zioni del disin­te­grarsi del castello di pro­messe – di quel «popu­li­smo finan­zia­rio» come lo ha defi­nito Marco Bascetta sul Mani­fe­sto – con cui Renzi aveva saputo costruire un esteso quanto rapido con­senso sociale.
Ma c’è di più. Il mini­stro Morando esclude la neces­sità di una mano­vra cor­ret­tiva in autunno. Eppure Renzi stesso parla di recu­pe­rare quanto prima almeno 8 miliardi. In realtà fonti più atten­di­bili da tempo ave­vano cal­co­lato l’esigenza di una mano­vra esat­ta­mente di entità dop­pia, pari a 16 miliardi. Dif­fi­cile che il governo possa sot­trar­visi, visto l’andamento disa­stroso dell’economia e la con­se­guente dimi­nu­zione delle entrate fiscali. Qual­cuno dovrà pure scontentare.
Non solo, ma con l’entrata in pieno vigore, dal 2015, degli obbli­ghi della ridu­zione for­zata del debito – nel frat­tempo cre­sciuto con le poli­ti­che di auste­rità – con­te­nuto nel fami­ge­rato fiscal com­pact, la situa­zione eco­no­mica e le con­di­zioni di vita per milioni di per­sone diven­te­ranno ancora più inso­ste­ni­bili. Sarà più dif­fi­cile per Renzi affer­mare che avere fatto la «riforma del Senato» è una straor­di­na­ria prova di capa­cità di governo con un’economia che viag­gia in nega­tivo, una disoc­cu­pa­zione che cre­sce assieme ad una pre­ca­rietà che il decreto Poletti ha tra­sfor­mato in norma e con­di­zione gene­rale. Per­sino la Cgil si è decisa a muo­vere un passo, denun­ciando sep­pure in ritardo presso gli organi della Ue le nuove norme gover­na­tive sul lavoro, in palese con­tra­sto con la stessa disci­plina euro­pea tut­tora in vigore.
Renzi può anche tra­stul­larsi con bat­tute da bar, come quella che la ripresa eco­no­mica è come que­sta estate: stenta a venire, ma poi verrà. Ma le sue parole sono sem­pre più rapi­da­mente e ine­qui­vo­ca­bil­mente smen­tite dai dati e dalle per­ce­zioni delle per­sone. Che l’uomo abbia diverse risorse e che non vada sot­to­va­lu­tato è cosa vera – e qual­cuno lo ha impa­rato a pro­prie spese -, ma che la sua cre­di­bi­lità cominci pre­co­ce­mente a venire erosa dalla durezza dei fatti è cosa altret­tanto certa.
Sap­piamo dall’esperienza però, che un’alternativa non nasce solo dalla rovina dei vec­chi regimi o sistemi di governo. Ci vuole un pen­siero e una forza che trac­cino una strada diversa ed abbiano il corag­gio di farlo evi­tando di restare pri­gio­nieri ogni volta nel pre­sunto rea­li­smo della politica.
Se L’altra Europa per Tsi­pras ha otte­nuto un pic­colo ma con­creto risul­tato è per­ché ha capo­volto tale logica. Ritor­nare indie­tro – magari con la scusa delle ele­zioni regio­nali alle porte – sarebbe dav­vero imperdonabile.

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