La
vicenda del presunto default dell’Argentina la dice lunga sulla
connivenza tra potere finanziario e legislazione. E ci chiarisce come la
speculazione sia ancora oggi al di fuori di ogni controllo. Il
biopotere della finanza si perpetua in modo pervasivo, in grado di
sottomettere ai suoi interessi intere nazioni
Improvvisamente
in questi giorni, ha cominciato ad aggirarsi di nuovo lo spettro del
default. Il caso riguarda l’Argentina. Il 30 luglio, infatti, scadeva il
termine per il rimborso degli ultimi creditori.Che cosa sta succedendo? Ricapitoliamo la vicenda, anche perché la stampa mainstream (vedi ad esempio Repubblica del 30 luglio)
lancia l’allarme del default (emergenza sempre utile, soprattutto in
Italia e in Europa) senza spiegare che cosa sia successo. Pochi sono i
contributi che cercano di far comprendere che cosa sta succedendo (tra
questi, segnaliamo, il commento di Carlo Formenti)
Cominciamo con ricordare che l’odierno rischio di default
dell’Argentina non dipende dall’attuale situazione economica del paese.
L’Argentina, infatti, negli ultimi 10 anni è cresciuta più del 7%
all’anno e ha ridotto il debito pubblico dal 140% al 43% del Pil e
quello tra debito estero e esportazioni dal 300% al 60% nel periodo
2002-2014. Ne dovrebbe conseguire una maggior affidabilità nel pagamento
sia del debito interno che del debito estero.
Oltre a questo andamento congiunturale positivo ci sono altri due
aspetti interessanti che confermano il miglioramento economico
argentino, pur con tutte le contraddizioni del caso: il primo è che
l’Argentina, senza supporto finanziario estero, è uscita dalla
profondissima crisi economica del 2001-03, mantenendo (al pari dei paesi
del continente sudamericano, Brasile in testa) la propria sovranità
politica e soprattutto economica (a differenza dell’Europa), migliorando
la distribuzione del reddito (indice di concentrazione di Gini: 0,551
nel 2002 vs. 0,411 nel 2013), diminuendo la disoccupazione (dal 25% al
7% in 10 anni) e registrando un incremento nella speranza di vita (dai
73 ai 76 anni).
Se le cose stanno così, perché allora si dice che l’Argentina è a
rischio di default? Tutto ha origine dal default del 2001, default reale
all’epoca causato dalle politiche neoliberiste dell’allora ministro
dell’Economia Cavallo (poco prima insignito della Laurea ad honorem
in Economia dall’Università di Bologna), che, liberalizzando il mercato
dei capitali, aveva favorito una fuga di capitali dal paese senza
precedenti e la vendita di buona parte della struttura produttiva al
capitale straniero. Ciò aveva ridotto l’inflazione, ma fatto aumentare
in modo vertiginoso il debito estero, prima causa – insieme al debito
interno – di quel default.
Quando nel 2002 venne dichiarato il default, gli investitori
stranieri abbandonarono lo Stato ed il flusso di capitali verso
l’Argentina cessò quasi completamente. Il governo si trovò ad affrontare
il compito di rifinanziare il debito. Lo Stato non aveva sufficiente
liquidità monetaria e le riserve di valuta estera della banca centrale
erano quasi del tutto esaurite.
Il governo argentino propose e trovò un accordo nel 2005 con i
principali creditori (compreso FMI); esso prevedeva che il 76% dei
titoli oggetto di default fosse rimpiazzato da altri con un valore
nominale molto più basso (25-35% dell’originale) e scadenze più lunghe.
Nel 2008, la presidente Cristina Fernandez de Kirchner annunciò che era
allo studio una riapertura dell’accordo del 2005 così che anche il
restante 24% dei vecchi proprietari di titoli argentini potesse
aderirvi; in questo modo si sarebbe potuti uscire del tutto dal default
nei confronti degli investitori privati. L’accordo venne siglato nel
2010.
Tale nuovo accordo, definito “concambio”, rappresentava di fatto un
“default controllato”, ma non gestito direttamente dal FMI. Per questo,
il FMI non subì trattamenti di favore nella rinegoziazione della propria
parte del debito argentino. Alcuni pagamenti furono rifinanziati o
posposti sulla base di vari accordi. Tuttavia, le autorità del FMI del
tempo espressero dure critiche riguardo agli sconti e fecero pressioni
verso i creditori privati, per ottenere migliori condizioni di rimborso
del debito.
Nel caso dell’Argentina, la rinegoziazione del debito è stato molto
diversa da quello che è stato effettuata in Grecia nel 2011. Infatti, il
caso greco è stato gestito in modo del tutto unilaterale dalla troika
economica, con l’effetto, sì, di ridurre provvisoriamente il debito
pubblico greco, ma con condizioni capestro a svantaggio della Grecia e a
vantaggio delle banche creditrici (in prevalenza, francesi e tedesche).
Nel caso dell’Argentina, l’accordo di ristrutturazione del debito è
stato fatto senza la mediazione né del Fmi, né delle società di rating
legate alle principali multinazionali della finanza (ad esempio,
Standard&Poor). Il non aver riconosciuto e accettato l’autorità del
Fmi è una delle cause della situazione di oggi.
Il “concambio” venne accettato da buona parte dei creditori privati e
pubblici. Tra questi, vi era anche Citibank, uno dei principali
creditori privati, al centro di vicende poco chiare (shadow banking)
per i conti segreti aperti in Argentina nel periodo immediatamente
successivo al default sotto copertura di Clearstream, la principale
camera di compensazione europea (società privata di proprietà di
Deutsche Group). Solo alcuni hedge funds americani capitanati dalla
Elliot Management (con sede a New York) si rifiutarono di sottoscrivere
l’accordo, pretendendo il pagamento intero dei debiti argentini. In
totale, si noti bene, si tratta di una quota inferiore al 7% del totale
del debito argentino.
La particolarità della vicenda (un caso unico nella storia
finanziaria internazionale) è che il 26 giugno scorso lo Stato argentino
ha depositato presso il Bank of New York Mellon (agente finanziario dei
creditori) i 539 milioni di dollari che corrispondevano esattamente al
debito in scadenza al 30 giugno, ma per via di un ordine della giustizia
statunitense di non pagare, la banca (dunque, non lo Stato argentino)
si trova nella situazione di non poter adempiere al contratto che ha
siglato con lo Stato argentino. La sentenza del giudice Griesa
(84 anni), confermata in appello e poi davanti alla Corte Suprema, ha
stabilito che lo Stato argentino deve inchinarsi agli interessi
speculativi di quel piccolo gruppo di investitori speculativi (chiamati
“fondi avvoltoi”) che fanno capo alla già citata Elliot Management.
Il fatto è anomalo al punto che l’International Swaps and Derivatives
Association, Inc. ancora non ha deciso se il permanere di questa
situazione diventerà un “default” oppure no, in quanto l’Argentina è in
possesso dei dollari per pagare e a tal proposito ha già depositato i
fondi per il pagamento dei creditori che hanno accettato le condizioni
di rimborso. In altri termini, anche se l’Argentina vuole pagare il suo
debito, il giudice statunitense lo impedisce privilegiando il pagamento
ai fondi speculativi che, dopo la crisi del 2002, hanno acquistato a
prezzi bassissimi i bond argentini per avere un ritorno straordinario
superiore al 1500%. La Elliot Management, di proprietà del miliardario
Paul Singer, aveva acquistato al ribasso i bond argentini per una somma
di 48,7 milioni di dollari, ottenendo plusvalenze (teoriche) per 832
milioni (interessi del 1608%!) e chiede 1,5 miliardi dollari.
Al momento in cui scriviamo, si parla di “default tecnico”, ma che
può avere già delle ripercussioni notevoli. Scaduto il termine del 30
luglio, infatti, Standard&Poor (guarda caso!) ha già immediatamente
dequalificato a tripla C i bond argentini, con effetto di rialzo dei
tassi d’interessi.
La storia raccontata ci conferma ancora una volta il potere di
controllo politico che la speculazione finanziaria è in grado di
esercitare non solo sulla magistratura (la legge dominante è la legge
dei dominatori) ma anche sulle principali istituzioni economiche. Lo
sgarro compiuto dall’Argentina nel voler rinegoziare in modo autonomo il
proprio debito con i propri creditori senza sottostare ai diktat
dell’oligarchia economica può diventare un precedente pericoloso. Per
questo non può essere accettato.
P.S.: Tuttavia, la recente crisi economico-finanziaria ha intaccato
il muro di omertà sulle attività speculative degli hedge funds. Ad
esempio, Nouriel Roubini, noto economista americano di origine italiana,
nell’articolo “Gouging the Gauchos”,
diffuso il 1 luglio 2014 da Project Syndicate, definisce “pericolosa”
la decisione del giudice Thomas Griesa della Corte d’appello americana
di New York di non concedere un ulteriore rinvio all’Argentina. “Non si
dovrebbe permettere agli hedge funds di bloccare ristrutturazioni
ordinate che beneficiano debitori e investitori.
Sulla stessa linea, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia,
professore alla Columbia University ed ex vice-presidente della Banca
Mondiale, che ha scritto in un recente articolo:
“Le ripercussioni di questo fallimento della giustizia possono
continuare ad avvertirsi per lungo tempo. Dopotutto, quale paese in via
di sviluppo che abbia a cuore gli interessi a lungo termine dei suoi
cittadini sarà disposto a emettere obbligazioni attraverso il sistema
finanziario americano, quando le corti degli Stati Uniti – così come
tanti altri aspetti del suo sistema politico – sembrano consentire che
gli interessi finanziari surclassino l’interesse pubblico?”.
Altre due testate, Foreign Affairs e Financial Times, hanno assunto
una posizione contraria ai fondi speculativi nella vicenda argentina.
Persino il FMI appare ora perplesso…..
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