Mentre
il nostro presidente del consiglio pensa alle slide dei prossimi
mille giorni ci sono italiane e italiani che aspettano di capire dove
siano finite le slide dei primi cento. Aspettano risposte, a dire il
vero, da almeno tre Governi: quello di Monti, quello di Letta, e quello
di Renzi, dopo i guasti che agli italiani e all’Italia hanno generato
le politiche neo liberiste degli esecutivi di centrodestra di
Berlusconi (e dei suoi ministri).
I primi che attendono di essere nominati — magari anche solo in un
tweet del nostro premier — sono gli esodati, nuova figura sociale
generata dalla manovra Fornero che non aveva previsto
transizioni, compensazioni o tutele per chi lasciava in mezzo a un
guado. Il governo Monti ha usato le pensioni come un bancomat per
sedare i mercati e rassicurare la tecnocrazia Europea. E ci ha
consegnato, con rara lungimiranza, la più alta età pensionabile
d’Europa in contemporanea alla più alta disoccupazione
giovanile della storia del nostro paese. In mille giorni non ci sono
state parole per gli esodati — che si genereranno almeno sino al 2022
— fino ad oggi sono stati spesi quasi 12 miliardi per sei
salvaguardie che non hanno risolto il patto di cittadinanza
violato con queste cittadine e cittadini. Tutto ciò a fronte di
quasi 90 miliardi di risparmi, certificati dall’Istituto statistico
dell’Inps, che la manovra Fornero garantirà in dieci anni rispetto
ai 22 miliardi previsti al varo della riforma. Questi ultra-risparmi
devono tornare alle pensioni e ai pensionati. Come mai nessun
ministro ne parla? Mistero. Solo una nuova riforma che cancelli le
abnormità della manovra Fornero, abbassando l’età pensionabile e
distinguendola in base ai lavori svolti nel arco della vita
lavorativa (e al loro impatto psicofisico sulle persone) potrà
riscrivere un nuovo patto sociale che cancelli la ferita degli
esodati, risolva l’ingiustizia delle pensioni d’oro e faccia
ripartire un turn-over bloccato che per ora penalizza innanzitutto i
giovani.
A dire il vero di questo aveva parlato la ministra Madia,
annunciando solennemente la creazione di quattromila posti per i
più giovani: si è rimangiata tutto, e precipitosamente, quando si
è scoperto che non c’era nessuna copertura e che la riforma della
Pubblica Amministrazione la devono pagare i lavoratori. A fianco
degli esodati — infatti — ci sono gli “errori” riconosciuti e
irrisolti del personale della scuola di quota96 bloccato al lavoro
da una riforma che si è scordata di quando finisce l’anno scolastico
e l’insensatezza, in conflitto con le norme di sicurezza, di
ferrovieri che dovrebbero stare alla guida di treni anche ad alta
velocità fino a 67 anni. Si tratta di soluzioni di errori a basso
costo: meriterebbero decreti d’urgenza che il governo Renzi promette
e rinvia dalla sua nascita come i suoi predecessori.
Il governo Renzi ha toccato il tema delle pensioni, di recente, non
per proporre più equità, ma per ventilare maldestramente tra
sondaggi e asticelle (intorno a ferragosto, con un concerto di
dichiarazioni calcolate e irresponsabili) addirittura l’ipotesi
di un prelievo su tutte le pensioni sopra i duemila euro lordi. Di
fronte a un preannuncio semi insurrezionale che teneva insieme un
fronte del No che andava dalla Cgil a Forza Italia le asticelle sono
state (per ora) riposte. Intanto — in mille giorni — non ho sentito
parole né visto tweet, e nemmeno assistito a gavettoni ghiacciati in
favore dei lavoratori dell’Alcoa che dal 31 dicembre finiscono in
mezzo a una strada, con la loro fabbrica definitivamente chiusa, e
che da giorni se ne stanno in tenda davanti ai cancelli, ma non certo
per fare campeggi estivi. E nulla ho sentito, dai loquaci ministri,
anche su quello spaventoso buco nero che è diventato — per noi —
l’impianto siderurgico più grande d’Europa, quello di Taranto e la
siderurgia Italiana da Terni a Piombino. Aspettano soluzioni
industriali da tempo oltre 150 crisi crisi aziendali al ministero
dello sviluppo economico a partire da Termini Imerese a cui
servirebbe la certezza di un nuovo produttore di auto oltre la
diaspora dal Italia della Fiat-Chrysler e molte di più sono in attesa
sui tavoli delle regioni.
Tutto questo avrebbe bisogno di politiche che favoriscano il
reinsediamento industriale, fermino la svendita e la fuga delle
attività manifatturiere dall’Italia e sembra innanzitutto
mancare su questo terreno una visione che vada oltre i 140 caratteri
delle battute da Social media. Mancano soprattutto interlocutori
credibili: dietro e oltre il premier nulla si muove. Ogni tanto, nel
governo dei “carini” qualcuno azzarda una dichiarazione su questi
temi aperti, suscita un vespaio, e subito viene commissariato dal
solito Matteo che dice: “Mi occupo di tutto io!”. Però poi, anche per
limiti umani, non ci riesce.
Durante tutta l’estate, in regioni già disagiate — cito ad esempio
la Sardegna e la Basilicata — si diffondono le anticipazioni
dei tagli con cui dovrebbero essere chiusi decine di “piccoli
tribunali” che poi tanto piccoli non sono, se per raggiungere
quelli nuovi devi viaggiare quattro ore. Non ci sono soldi per nulla,
non si progetta nulla, sotto la verniciatura del nuovo i mille
giorni rischiano di regalarci la riedizione del già visto.
Infine aspettano i disoccupati, gli scoraggiati e i
sottopagati oltre 7 milioni di sfruttati e ricattati dalla (e
nella) crisi a cui si propone un altra volta la stantia ricetta della
svalutazione della proprio lavoro attraverso l’aumento della
precarietà. I giornali del coro hanno iniziato a decantare come un
piccolo Eden il modello spagnolo. L’ultima versione del decreto
Poletti, l’attacco ai contratti di lavoro e l’immancabile uso
propagandistico della cancellazione dell’18, già mutilato dal
governo Monti, viene ora mascherato attraverso l’idea — a dir poco
bizzarra — che la cancellazione dello Statuto dei lavoratori
sarebbe un grande salto di progresso (per chi?). Quando i ministri
delle grandi riforme sono più prudenti, invece, dicono che lo Statuto
deve essere riscritto: però non ci dicono come, non ci spiegano, quali
diritti si debbano ricostruire e quali nuovi affermare, come si può
ridurre una precarietà che è oramai distruzione di lavoro e
ricchezza. Servono meno di mille giorni per cancellare le quaranta
forme di di contratto più o meno precarie e per varare un piano per
il lavoro che sia il nostro New Deal : e non c’è traccia del’annunciato
“contratto unico” che avrebbe dovuto sostituirle. Si vuole invece
aggiungerne una nuova, l’assunzione con possibilità di licenziare
per tre anni, che (per ora) langue al Senato. Ma non si doveva
cambiare verso? L’autunno se sarà caldo o freddo lo decideranno molti
di questi soggetti e soggettività oggi spesso rimossi. Sono
tanti,non contano nulla,ma guai a sottovalutarli ammoniva Luciano
Gallino pochi giorni fa noi non li lasceremo soli.
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