Democrack. Il
premier archivia il centrosinistra anche nelle future regionali:
«Vinceremo anche senza di loro, non stiamo con chi ci insulta». I conti
del paese? «Ottimismo, non cediamo al coro dei rassegnati». Il
Pd sarà autosufficiente anche nelle città, il segretario non accetta
obiezioni. E per prendersela con Vendola, gli attribuisce le parole di
Grillo
Il centrosinistra è morto, archiviato, rottamato. Che in
queste ore, mentre infuria la battaglia ostruzionistica al
senato, fra Pd e Sel tirasse un’ariaccia era evidente a tutti. Eppure
i segretari regionali del partitone — dall’Emilia alla Puglia — non
facevano altro che rassicurare gli inquieti colleghi vendoliani:
le riforme, spiegavano, niente hanno a che vedere con le buche delle
città o con i piani di rientro della sanità. E invece no. Renzi,
a conclusione di una direzione in cui pure aveva aperto a dei
cambiamenti sulla legge elettorale — tema sul quale Sel
è sensibile — ha impartito l’estrema unzione alle alleanze del
centrosinistra. Anche sul piano locale. Lo ha fatto preparando un
bocconcino avvelenato in coda alle conclusioni della direzione.
«Il voto dei cittadini è un voto su Comune e Regione che non può
essere messo in discussione a meno che non vi siano questioni locali.
Diverso è il ragionamento sul futuro. Come si può stringere un
accordo «con uno accusato di stupro alla Costituzione, di deriva
autoritaria», di volere un modello «al limite del prefascismo», si
chiede. «Non ce la farei. Se pensano di noi questo vadano per i fatti
loro, stiano al loro posto, vinceremo le elezioni regionali anche
senza di loro, non stiamo con chi ci insulta».
Renzi chiude così la parabola iniziata nel 2007 con il ’correremo
soli’ di Walter Veltroni, che però riguardò solo le elezioni
politiche, declinando la vocazione maggioritaria a tutto il
territorio nazionale. La reazione di Sel è incredula, anche
perché in mattinata Vendola aveva derubricato le dichiarazioni
del sottosegretario Lotti («Con Sel l’alleanza è preclusa») a una
«provocazione», più «un’intemperanza verbale, che una scelta
politica». E invece no. Renzi ha coinsumato la scorta di nemici —
gufi, professoroni, frenatori — e adesso ne cerca altri da
spianare. Sel è l’ex amico perfetto, alleato di Bersani e del Pd di
prima. Il segreterio premier rottama tutto, il campo e tutti
giocatori: il centrosinistra sarà di nuovo un’espressione
obsoleta, consegnata a wikipedia, e ormai ridotta a sinonimo
del Pd.
Renzi è autosufficiente. Sul caso Cottarelli, il commissario
che sbatte la porta e lascia Palazzo Chigi, «faremo la spending review
con o senza di lui». Il governo e la maggioranza al senato procedono
a «passo di lumaca»? Il governo è andato sotto al voto segreto? Renzi
minimizza, «non è un remake dei 101», sottinteso franchi tiratori.
L’ottimismo resta il vero brand di Renzi. Di fronte all’allarme sui
conti dello stato di Stefano Fassina («Due più due non farà mai
cinque: se l’Europa non cambia rotta andiamo tutti a sbattere»), il
premier minimizza: «A me settembre non fa paura, è chiaro? Io non
vivo nella paura del domani e non perché sono uno scriteriato, ma
perché vedo i dati, vedo due mesi dove crescono gli occupati. Certo
sono occupati che in parte crescono con il decreto Poletti. Non sono
a tempo indeterminato? Se non c’era il decreto Poletti non c’erano
nemmeno quelli. Il sentimento di speranza forte che abbiamo non
deriva da un generico atteggiamento di training autogeno ’ce la
facciamo…’, deriva da un giudizio sull’economia globale dove con
800milioni di nuovi consumatori l’Italia ha più spazio, non meno
spazio. È non cedere al coro rassegnato».
Intanto Renzi ’apre’ alle modifiche dell’Italicum, la legge
elettorale. Si potà «alzare la soglia del premi di maggioranza» e
«agire con coerenza sulle soglie di sbarramento» e «ove possibile
introdurre le preferenze, lavorando assieme con i contraenti del
patto». Meglio le preferenze dei collegi, spiega, più consono al
modello del Mattarellum. Nel suo partito però c’è già chi fa
obiezione.
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