L’Italia,
la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità,
si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella
straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati
dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque
milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è
stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a
detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate.
Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.
Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.
Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze
(che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di
milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada
Brebemi, dove non passa quasi nessuno). L’area più a rischio del paese,
il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in
sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto
che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che
una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo
tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre,
che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con
la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.
Ed
è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di
affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe
impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio
non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del
territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito
in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente.
Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la
politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove
non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a
creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai
cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il
territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo
di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere
insieme due mattoni (altro che liberismo!).
Eppure,
gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema
è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre
sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica
perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto,
irreversibilmente, alla sua formazione.
Come?
Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e
che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va
rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai
Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli
Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul
territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si
conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si
può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione,
promuovendo la partecipazione dal basso.
In
secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le
comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di
passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat,
fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da
intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia
partecipata è anche e soprattutto questo.
In
terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile
contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o
continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in
figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale
assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera
imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già
manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o
piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.
Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino,
può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e
anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e
disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per
tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di
vocazione, e per molti anni.
I
disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere
un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la
ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di
ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa
ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di
irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe
sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa
in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma
che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.
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