La proposta del governo Renzi per
l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una
soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei
pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai
pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini,
pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di
diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.
Un’intera
generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché
ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i
salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di
pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere
stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è
ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si
sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una
scialuppa.
Non si tratta di risorse
disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che
intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In
effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione
contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza
privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o
dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi,
anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.
L’ultima
trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si
offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di
una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un
prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.
E
qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno
ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel
mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare
denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure,
visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85
anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il
raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione
raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare
agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza
intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del
tavolo degli istituti di credito.
La
domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può,
di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione
e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la
pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di
contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito
oneroso. No, non è possibile: il prestito è obbligatorio per
l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno
considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le
casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare
questa possibilità.
Sono infatti
banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione.
La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla
BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa
decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare
nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione
di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione
del loro denaro.
Dai
calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la
riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe
l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe
interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un
esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese,
diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri
paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.
La
fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale
importante dell’assegno e si deve poi considerare che – dato mai
sottolineato – ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito
ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto
ogni altra esposizione.
Quale? Per
esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli,
come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore
sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri
a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva
uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR
maturato in una vita di lavoro.
L’incertezza
congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora
di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70
anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35
anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli
anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe
andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati, o anche
bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del
ricalcolo attivo; ma va garantito che, a versamenti contributivi
effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.
Solo
il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo,
espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con
quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al
momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li
restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il
continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno
sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e
si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai danni dei
cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si
guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.
E’
vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate
per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex
ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive
per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il
necessario equilibrio finanziario.
Riportare
le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione
percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto,
consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico
dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva
per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma
servirebbe un governo nel vero senso della parola.
Questo
assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica
economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema
di welfare, il governo Renzi continua a fare solo propaganda, unica
cosa alla quale si dedica ininterrottamente.
Così
tenta di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati,
nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore
operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e
per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni
fantasia. Dov’è la novità?
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