Di
fronte al processo di globalizzazione neo liberista la sinistra europea
(limitiamoci a questa area) si è divisa in tre aree:
a. la sinistra “riformista” (o, se
volete, socialdemocratica) che ha accettato supinamente la
rivoluzione neo liberista, non opponendo alcuna resistenza e cercando
maldestramente di ritagliarsi uno spazio di sinistra interna al sistema. In
questo processo di omologazione, questa sinistra ha cessato di essere socialdemocratica
(e lo ha dimostrato accettando la demolizione un pezzo alla volta del welfare)
per diventare semplicemente liberale, pur se con vaghissime aspirazioni
socialeggianti.
La
cosa è andata avanti per un quindicennio, sinché la creazione di denaro bancario
ha dato la sensazione di un sostitutivo del welfare state, poi è arrivata la
grande crisi e, con essa, la stretta che ha frantumato il ceto medio, spinto
sotto la soglia di povertà gran parte delle classi lavoratrici e precarizzato
tutta la forza lavoro giovanile. Ed in breve è stato evidente che
nell’ordinamento neo liberista non c’è spazio per una sinistra riformista. I
vari partiti dell’Internazionale “Socialista”, per salvare il sistema, hanno
abbracciato senza fiatare le politiche di austerity che hanno massacrato la
loro base sociale che, a lungo andare, li hanno abbandonati riducendoli sotto
il 15% (e talvolta sotto il 10%) in Grecia, Austria, Francia Spagna e, fra non
molto, Italia.
Il
deflusso è andato ad alimentare la rivolta “populista” che accomuna cose molo
diverse fra loro. Di fatto, l’unica sinistra possibile in questa fase storica è
la sinistra antisistema: se vuoi sostenere decenti politiche sociali, non puoi
accettare questo ordinamento e devi predisporti alla battaglia fontale contro l’ipercapitalismo
finanziario, magari sperando di poterci arrivare con i mezzi usuali della lotta
politica.
b. la seconda area è stata quella semi
radicale (Rifondazione Comunista, Linke, Izquierda Unida, Siryza ecc.) che
ha ritenuto non ci fossero le forza per una scontro frontale con il sistema ed
ha scelto una linea di “guerra di posizione”, cercando di cedere meno terreno
possibile e, a questo scopo, ponendosi come “gruppo di pressione” verso la
sinistra riformista, con la quale tentare una qualche alleanza.
Schema
non meno sbagliato del precedente: in primo luogo perché noi siamo una fase di
guerra di movimento, nella quale non ci sono trincee nelle quali resistere. In
secondo luogo perché non comprendeva la natura sociale e politica della ex
sinistra socialista diventata ormai liberale ed interna al sistema liberista.
Il risultato è stato che la sinistra semiradicale non ha fatto alcuna alleanza
con quella “riformista” ma ha fatto solo da sgabello ad essa (basti citare
l’esperienza del governo Prodi, costata la pelle a Rifondazione Comunista che
prosegue in una inutile esistenza senza riuscire neanche a chiedersi dove ha
sbagliato e perché). Soprattutto, l’errore
bi base è stata la mancata comprensione delle caratteristiche di questo nuovo
capitalismo, che, a sua volta ha determinato la totale incomprensione della
crisi, verso la quale questa area non ha saputo proporre alcuna politica. E
lo dimostra il fatto che la protesta montante ha premiato le nuove formazioni
“populiste” e non questa sinistra semi radicale che non interessa nessuno. In
Italia è ridotta a brandelli insignificanti, in Spagna e in Germania vivacchia.
Il
caso più clamoroso è quello della Grecia, dove la formazione semi radicale è
giunta al governo, promettendo il superamento dell’austerity salvo vendersi
anima e corpo ed eseguire fedelmente i diktat della Troika, per non aver avuto
il coraggio di andare allo scontro. E la conseguenza di questa disfatta morale
prima ancora che politica è stata l’infelice esperienza della lista Tsipras
varata in Italia, della cui esistenza non abbiamo avuto modo di accorgerci in
questi quasi cinque anni per la totale assenza di ogni iniziativa.
c. la terza area è stata quella che
definiamo “sinistra radicale” (centri sociali, gruppuscoli di radice maoista o
trotskjista, vecchi Pc come quello portoghese o quello greco, pezzi di
sindacato ecc.) che hanno assunto una posizione
dichiaratamente antisistema, ma, haimè, puramente verbale e declamatoria. Non
sono mancati sporadici movimenti di protesta, rivendicativi o territoriali
(vedi il movimento No Tav o singole ondate di protesta salariale in Francia
ecc.) ma tutto questo non fa una politica. E’ la riproposizione del vecchio
“basismo” sessantottino, tentativo generoso ma votato alla sconfitta. Ed anche
questa area, come la precedente, deve chiedersi perché la protesta ha premiato
i “populisti” e non ha riversato neppure un rivolo di consensi in questa
direzione.
Di
fatto questa area non si dimostra in grado di uscire da un disperato
minoritarismo e di darsi una cultura politica degna di questo nome.
Tutte tre queste aree pagano il prezzo
di aver cessato qualsivoglia lavoro teorico: ma senza teoria non c’è cultura
politica e, senza cultura, non c’è né analisi né progetto. I “riformisti” hanno
sostituito il pensiero politico con le serate nei salotti della finanza o
frequentando i Think Tank del potere (come l’Aspen, la
Trilateral o i loro più modesti succedanei nazionali). La sinistra semi radicale si occupa solo di formazione di liste, di
organigrammi e di distribuzione delle sempre più magre risorse. La sinistra
radicale ha conati in questo senso ma che si spengono subito per l’incapacità
di interloquire con chi non faccia parte della ristrettissima cerchia di
ciascun gruppo.
Qualche
novità positiva non manca: Corbyn in Inghilterra, Melenchon in Francia ad
esempio, ma speriamo non rifacciano gli errori di chi li ha preceduti. Ne
riparleremo, per ora le espressioni conosciute della sinistra, chi per un
motivo e chi per un altro, possono tranquillamente dichiarare bancarotta.
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