giovedì 18 ottobre 2018

La sinistra europea sta morendo: e se lo merita di Aldo Giannuli




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Di fronte al processo di globalizzazione neo liberista la sinistra europea (limitiamoci a questa area) si è divisa in tre aree:

a. la sinistra “riformista” (o, se volete, socialdemocratica) che ha accettato supinamente la rivoluzione neo liberista, non opponendo alcuna resistenza e cercando maldestramente di ritagliarsi uno spazio di sinistra interna al sistema. In questo processo di omologazione, questa sinistra ha cessato di essere socialdemocratica (e lo ha dimostrato accettando la demolizione un pezzo alla volta del welfare) per diventare semplicemente liberale, pur se con vaghissime aspirazioni socialeggianti.
La cosa è andata avanti per un quindicennio, sinché la creazione di denaro bancario ha dato la sensazione di un sostitutivo del welfare state, poi è arrivata la grande crisi e, con essa, la stretta che ha frantumato il ceto medio, spinto sotto la soglia di povertà gran parte delle classi lavoratrici e precarizzato tutta la forza lavoro giovanile. Ed in breve è stato evidente che nell’ordinamento neo liberista non c’è spazio per una sinistra riformista. I vari partiti dell’Internazionale “Socialista”, per salvare il sistema, hanno abbracciato senza fiatare le politiche di austerity che hanno massacrato la loro base sociale che, a lungo andare, li hanno abbandonati riducendoli sotto il 15% (e talvolta sotto il 10%) in Grecia, Austria, Francia Spagna e, fra non molto, Italia.
Il deflusso è andato ad alimentare la rivolta “populista” che accomuna cose molo diverse fra loro. Di fatto, l’unica sinistra possibile in questa fase storica è la sinistra antisistema: se vuoi sostenere decenti politiche sociali, non puoi accettare questo ordinamento e devi predisporti alla battaglia fontale contro l’ipercapitalismo finanziario, magari sperando di poterci arrivare con i mezzi usuali della lotta politica.
b. la seconda area è stata quella semi radicale (Rifondazione Comunista, Linke, Izquierda Unida, Siryza ecc.) che ha ritenuto non ci fossero le forza per una scontro frontale con il sistema ed ha scelto una linea di “guerra di posizione”, cercando di cedere meno terreno possibile e, a questo scopo, ponendosi come “gruppo di pressione” verso la sinistra riformista, con la quale tentare una qualche alleanza.
Schema non meno sbagliato del precedente: in primo luogo perché noi siamo una fase di guerra di movimento, nella quale non ci sono trincee nelle quali resistere. In secondo luogo perché non comprendeva la natura sociale e politica della ex sinistra socialista diventata ormai liberale ed interna al sistema liberista. Il risultato è stato che la sinistra semiradicale non ha fatto alcuna alleanza con quella “riformista” ma ha fatto solo da sgabello ad essa (basti citare l’esperienza del governo Prodi, costata la pelle a Rifondazione Comunista che prosegue in una inutile esistenza senza riuscire neanche a chiedersi dove ha sbagliato e perché). Soprattutto, l’errore bi base è stata la mancata comprensione delle caratteristiche di questo nuovo capitalismo, che, a sua volta ha determinato la totale incomprensione della crisi, verso la quale questa area non ha saputo proporre alcuna politica. E lo dimostra il fatto che la protesta montante ha premiato le nuove formazioni “populiste” e non questa sinistra semi radicale che non interessa nessuno. In Italia è ridotta a brandelli insignificanti, in Spagna e in Germania vivacchia.
Il caso più clamoroso è quello della Grecia, dove la formazione semi radicale è giunta al governo, promettendo il superamento dell’austerity salvo vendersi anima e corpo ed eseguire fedelmente i diktat della Troika, per non aver avuto il coraggio di andare allo scontro. E la conseguenza di questa disfatta morale prima ancora che politica è stata l’infelice esperienza della lista Tsipras varata in Italia, della cui esistenza non abbiamo avuto modo di accorgerci in questi quasi cinque anni per la totale assenza di ogni iniziativa.
c. la terza area è stata quella che definiamo “sinistra radicale” (centri sociali, gruppuscoli di radice maoista o trotskjista, vecchi Pc come quello portoghese o quello greco, pezzi di sindacato ecc.) che hanno assunto una posizione dichiaratamente antisistema, ma, haimè, puramente verbale e declamatoria. Non sono mancati sporadici movimenti di protesta, rivendicativi o territoriali (vedi il movimento No Tav o singole ondate di protesta salariale in Francia ecc.) ma tutto questo non fa una politica. E’ la riproposizione del vecchio “basismo” sessantottino, tentativo generoso ma votato alla sconfitta. Ed anche questa area, come la precedente, deve chiedersi perché la protesta ha premiato i “populisti” e non ha riversato neppure un rivolo di consensi in questa direzione.
Di fatto questa area non si dimostra in grado di uscire da un disperato minoritarismo e di darsi una cultura politica degna di questo nome.
Tutte tre queste aree pagano il prezzo di aver cessato qualsivoglia lavoro teorico: ma senza teoria non c’è cultura politica e, senza cultura, non c’è né analisi né progetto. I “riformisti” hanno sostituito il pensiero politico con le serate nei salotti della finanza o frequentando i Think Tank del potere (come l’Aspen, la Trilateral o i loro più modesti succedanei nazionali). La sinistra semi radicale si occupa solo di formazione di liste, di organigrammi e di distribuzione delle sempre più magre risorse. La sinistra radicale ha conati in questo senso ma che si spengono subito per l’incapacità di interloquire con chi non faccia parte della ristrettissima cerchia di ciascun gruppo.
Qualche novità positiva non manca: Corbyn in Inghilterra, Melenchon in Francia ad esempio, ma speriamo non rifacciano gli errori di chi li ha preceduti. Ne riparleremo, per ora le espressioni conosciute della sinistra, chi per un motivo e chi per un altro, possono tranquillamente dichiarare bancarotta.

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