giovedì 1 aprile 2010

Al mittente la legge sul lavoro

Giorgio Napolitano ha rinviato alle Camere il disegno di legge sul lavoro approvato dal parlamento italiano argomentando in un dettagliato messaggio i seri dubbi di incostituzionalità del provvedimento. Dunque, abbiamo avuto ragione nel denunciare la straordinaria gravità dell’attentato alla “Repubblica Democratica fondata sul lavoro” che in esso si configura. Abbiamo avuto ragione nel sostenere che se il giudice fosse costretto ad attenersi, nei suoi pronunciamenti, non già alla legge - come tassativamente prevede l’art. 101 della Costituzione - ma alle clausole derogatorie privatamente sottoscritte dal singolo lavoratore con il singolo imprenditore, saremmo di fronte alla pura e semplice legittimazione formale della legge del più forte. Abbiamo avuto ragione nell’affermare che la scelta con cui un lavoratore decide di affidare ad un arbitro, piuttosto che ad un magistrato, la soluzione di un contenzioso «secondo equità» (e non secondo la legge) non è una sua libera opzione, soprattutto se questa è da lui subita all’atto della stipula del rapporto di lavoro, come condizione necessaria per l’assunzione. E ancora, abbiamo avuto ragione a batterci contro una misura che non soltanto aggira e vanifica l’efficacia dell’art. 18 (voluto dal legislatore per proteggere i lavoratori dai licenziamenti comminati senza giusta causa o giustificato motivo), ma cerca di disintegrare la stessa contrattazione collettiva, consentendo che un accordo jugulatorio, stipulato fra parti asimmetriche, ne inibisca ogni efficacia. Chiunque sia provvisto di un minimo di onestà intellettuale può capire quale effetto devastante sull’intera architettura giuslavoristica avrebbe una norma che finge il lavoratore isolato capace di contrarre liberamente un patto equo con il suo potenziale datore di lavoro. Diciamo le cose come stanno: tornare ad una simile pratica vorrebbe dire rendere canonico il caporalato, riesumare il lavoro servile, fare di una patologia sociale una regola codificata dalla legge. Si può sostenere con molte ragioni che in questi anni si è alacremente operato, dalle più varie parti, per distruggere ogni forma di tutela del lavoro e che una porzione assai ampia di persone, tendenzialmente maggioritaria, fatta soprattutto di giovani, entra nel “mercato del lavoro” del tutto sprovvista di diritti e nei fatti privata della stessa possibilità di coalizione sindacale.
L’ideologia in base alla quale il passaggio dalle grandi economie di scala al post-fordismo avrebbe dovuto necessariamente comportare una flessibilità spinta della prestazione (delicato eufemismo con cui è stato camuffato un colossale processo di precarizzazione) è profondamente penetrata nella legislazione, influenzando via via la stessa contrattazione collettiva da vent’anni sottoposta ad una martellante erosione.
Quanti hanno pensato che così si schiudessero le porte della modernità sono serviti. Lì, squadernato davanti a noi, c’è l’Ottocento. Con la brutale affermazione della primazia del punto di vista dell’impresa, spinto sino all’unilateralità del comando. L’esatto opposto, appunto, dei principi fondamentali dettati nella prima parte della Costituzione. Il rovescio diametrale di quell’art. 41 che pone la libertà, la dignità, la sicurezza di chi lavora prima e al di sopra della stessa libertà di impresa, e che subordina l’attività di questa alla realizzazione dell’utilità sociale e del bene comune. Per queste ragioni ci siamo rivolti al capo dello Stato, a Giorgio Napolitano, chiedendogli di non controfirmare quel definitivo colpo di maglio sul lavoro e sulla legge fondativa della Repubblica. Oggi egli ha compiuto questo passo necessario e atteso. La partita, ovviamente, è del tutto aperta. Poiché è lecito dubitare che il governo si acconci a modificare in modo significativo il testo approvato. Per questo un ruolo importante giocherà anche la Consulta, quando sarà chiamata - con potere cassativo - a pronunciarsi sull’argomento. Ma occorre dire, nello stesso tempo, che l’esito di questa vicenda non può essere affidato semplicemente al rapporto fra istituzioni dello Stato. Lo Statuto dei lavoratori, le conquiste più significative della contrattazione sono stati il risultato di grandi e in alcune fasi impetuose lotte sociali. Per questo è un bene che la Cgil abbia in corsa completato la piattaforma posta alla base dello sciopero generale svoltosi lo scorso 12 marzo, includendovi il tema del ddl sul lavoro rimasto sino allora singolarmente in ombra. E tuttavia è indispensabile insistere. Non solo chiamando in causa la Consulta che, ne sono certo, farà la sua parte. Ma conferendo allo scontro il carattere di una vera vertenza, di una battaglia da cui non deflettere sino a quando non sarà stato colto il risultato. Inutile inseguire Cisl e Uil, ormai da tempo consegnatesi ad un rapporto gregario e «complice» con Confindustria e governo, come prova, da ultimo, l’avviso comune con cui esse hanno cercato di mettere una pezza sdrucita sul disegno di legge.
C’è anche dell’altro da fare. Qualcosa che chiama in causa i partiti dell’opposizione parlamentare, avvinti da letargico torpore quando si tratta di schierarsi davvero a fianco dei lavoratori nel conflitto sociale. Un lungo sonno che, giova ricordarlo, ebbe le più deleterie conseguenze quando i Ds (allora non si erano ancora uniti con la Margherita per dare vita al Pd) indicarono all’elettorato di disertare le urne in occasione del referendum indetto per estendere a tutti i lavoratori e le lavoratrici i benefici dell’art. 18.
La Federazione della Sinistra sta ora per presentare i quesiti referendari attraverso i quali revocare alcuni degli effetti più nefasti della legge 30. A partire dalla certificazione privata dei rapporti di lavoro in deroga. Da lì dovrà prendere corpo una campagna da portare in ogni angolo del Paese. Ecco una buona causa in cui ingaggiarsi. Un filo tirando il quale si può andare lontano.

Dino Greco, Liberazione

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