A
poco più di un anno dalla pubblicazione sul Financial Times del “monito
degli economisti”, la forbice tra paesi creditori e debitori continua
ad allargarsi e potrebbe rendere insostenibile l’attuale assetto
dell’Unione monetaria europea. Apriamo una discussione a partire da un
testo di Brancaccio, uno dei promotori del “monito”, che solleva il
problema del “che fare” di fronte alla prospettiva di una implosione
della moneta unica
La
forbice macroeconomica che da tempo squarcia l’eurozona non sembra
affatto destinata a richiudersi. Stando agli ultimi dati della
Commissione europea, gli andamenti dei redditi e dei livelli di
occupazione nei diversi paesi membri dell’eurozona non mostrano
tangibili segni di avvicinamento dopo la lunga divergenza che si è
registrata negli anni passati. Alla fine del 2014 il numero degli
occupati in Germania dovrebbe segnare un incremento di due milioni e
duecentomila unità rispetto al 2007. Di contro, nello stesso arco di
tempo Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia si
ritroveranno con una perdita complessiva di quasi sei milioni e
duecentomila posti di lavoro1.
La divaricazione dei
redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più
profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di
solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi
dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il
2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22
percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in
Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento
in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite
dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che
inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è
un caso che i recenti “stress test” coordinati dalla Banca centrale
europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli
indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi
dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani.
Il risultato dipende da
diversi fattori, ma in buona misura riflette semplicemente la voragine
macroeconomica che si è aperta in questi anni tra i membri
dell’eurozona, in particolare tra i due paesi in questione: dal 2007 al
2014 oltre quattordici punti di differenza nella crescita reale dei Pil
tedesco e italiano. Sono scarti che non hanno precedenti in epoca di
pace, e che preannunciano nuove crisi bancarie.
I dati più recenti sembrano dunque confermare lo scenario tratteggiato poco più di un anno fa dal Monito degli economisti pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013 (www.theeconomistswarning. com)3.
Il documento evidenzia «una serie di contraddizioni nell’assetto
istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea». Sotto accusa
sono le scelte delle autorità europee e nazionali «che, contrariamente
agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessione e
all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione». Il problema
principale, secondo i firmatari del Monito, risiede nel fatto
che «le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per
accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad
altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e
credito tra i paesi della zona euro»4. Pensare oggi che i soli paesi debitori possano accollarsi l’onere del riequilibrio a colpi di austerity,
ulteriori riduzioni delle tutele del lavoro e flessibilità salariale
verso il basso, significa pretendere da questi una restrizione dei
bilanci pubblici e una caduta dei salari e dei prezzi «di tale portata
da determinare un crollo ancora più accentuato dei redditi e una
violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi
bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni
europee». Il documento si chiude dunque con una previsione netta:
proseguendo con le attuali politiche economiche «il destino dell’euro
sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con
ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo». Di conseguenza,
presto o tardi, «ai decisori politici non resterà altro che una scelta
cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Centralizzazione e crisi bancarie
Il Monito degli economisti è stato sottoscritto da alcuni tra i principali
esponenti della comunità accademica internazionale, appartenenti a
scuole di pensiero molto diverse tra loro: Dani Rodrik, James Galbraith,
Wendy Carlin, Alan Kirman, Heinz Kurz, Tony Thirlwall, Mauro Gallegati,
Dimitri Papadimitriou e molti altri. Il fatto che sul documento siano
confluiti rappresentanti di filoni di ricerca così eterogenei
costituisce evidentemente un punto di forza, un potenziale indizio circa
la bontà delle sue previsioni. Tale prerogativa, d’altro canto, non
impedisce di leggere il testo in base a uno specifico paradigma di
ricerca.
Il
riferimento immediato, peraltro citato nel testo, è ovviamente il
Keynes oppositore del Trattato di Versailles e critico delle politiche
deflazioniste. Sotto questa prospettiva il Monito riflette la
tesi secondo cui la deflazione in ultima istanza deprime i redditi e
rende quindi più difficile il rimborso dei debiti. Più in profondità,
tuttavia, il Monito può essere interpretato rinviando anche
all’analisi marxista, e in particolare ad alcuni studi recenti dedicati a
quella tendenza che Marx e Hilferding definivano «centralizzazione dei
capitali»5.
Per Marx, come è noto, la centralizzazione consiste nel fatto che,
sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una
all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la
competizione capitalistica si presenti di norma come «ripulsione
reciproca di molti capitali individuali», è possibile rilevare
un’opposta tendenza alla «concentrazione di capitali già formati» e
dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza
mediante l’«espropriazione del capitalista ad opera del capitalista,
della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più
grossi»: vale a dire, mediante uscite dal mercato dei capitali più
deboli, liquidazioni, acquisizioni, fusioni, e così via. La tendenza
alla centralizzazione, oltretutto, può ricevere spinte ulteriori
dall’azione delle autorità di politica economica. È stato osservato, in
particolare, che il banchiere centrale può contribuire a fissare
«condizioni di solvibilità» particolarmente restrittive per i capitali
in lotta tra loro, e per questa via può aggravare la posizione dei
capitali più deboli e accelerare il processo di centralizzazione6.
Ebbene, non è difficile rilevare che l’intera architettura dell’Unione
monetaria europea risulta preposta a favorire questa tendenza. Già prima
della crisi si registravano importanti fenomeni di accorpamento dei
capitali, specialmente in campo bancario. Si trattava tuttavia di
dinamiche in larga misura confinate entro i perimetri dei singoli paesi.
Dopo la crisi, invece, si assiste a un salto di qualità del processo di
centralizzazione. La divaricazione delle insolvenze, i relativi
processi di desertificazione produttiva e le connesse, crescenti
difficoltà delle banche nelle periferie dell’Unione, preannunciano una
nuova crisi bancaria e una nuova fase di liquidazioni e acquisizioni,
questa volta non più interne ai confini nazionali ma realizzate su scala
europea. Il passaggio di fase, del resto, è intrinseco agli indirizzi
politici correnti. Dall’azione del banchiere centrale che,
contrariamente alla vulgata, contribuisce a fissare condizioni di
solvibilità tutt’altro che accomodanti per le periferie europee; alla
politica fiscale nazionale, che si fa più restrittiva proprio nei paesi
in maggiore sofferenza; fino alla decisiva unione bancaria, che esclude
forme di assicurazione europea sui depositi, dispone di risorse
limitatissime per fronteggiare nuove crisi bancarie e si costituisce
esplicitamente con lo scopo di liquidare gli istituti più deboli:
insomma, ogni elemento della governance europea sembra voler
preludere a una escalation del processo di centralizzazione
capitalistica. Vale a dire, a una resa dei conti definitiva tra i
capitali più fragili dislocati soprattutto nel Sud Europa e i capitali
più forti situati prevalentemente in Germania. Potremmo definirla, in
sostanza, una forma particolarmente violenta di “mezzogiornificazione
europea”: ossia, una riproduzione su scala continentale del dualismo che
ha storicamente condizionato i rapporti tra Settentrione e Meridione
d’Italia.
Messo in questi termini
sembra un processo inesorabile, una sorta di «grande meccanismo della
Storia», come lo definirebbe un celebre interprete di Shakespeare7.
Ma non è così. Contro le semplificazioni di alcuni suoi epigoni,
bisognerebbe ricordare che per Marx la «legge di tendenza» alla
centralizzazione è ostacolata da continue «controtendenze», e quindi non
può mai esser considerata un processo rigidamente lineare. La
centralizzazione capitalistica oggettivamente avanza ma il suo progresso
storico è tormentato, è fatto di accelerazioni, contraccolpi,
temporanee marce indietro, e soprattutto di continue creazioni e
distruzioni degli assetti istituzionali votati a favorirla. La
consapevolezza di questa dinamica irregolare è tanto più necessaria
quando si esamina la crisi dell’eurozona. È infatti possibile mostrare
che, nello scenario deflazionistico che l’assetto politico-istituzionale
dell’Unione favorisce, le liquidazioni di capitale da parte dei paesi
debitori non risolvono lo squilibrio con i paesi creditori ma anzi
possono addirittura aggravarlo. Infatti, quanto più intensa sia la
deflazione, tanto meno la vendita di capitale all’estero potrà
contribuire al soddisfacimento delle condizioni di solvibilità8.
L’implicazione è chiara: l’Unione monetaria europea, favorendo la
centralizzazione dei capitali, di fatto non riduce ma può persino
accrescere gli squilibri tra paesi creditori e paesi debitori, e in tal
modo contribuisce a scavare la sua stessa fossa. Alle tradizionali
problematiche keynesiane sugli effetti perversi della deflazione,
dunque, l’analisi della centralizzazione capitalistica offre ulteriore
supporto alla previsione del monito degli economisti sui destini dell’eurozona.
Lo
studio della crisi dell’area euro dal punto di vista dei processi di
centralizzazione dei capitali costituisce in parte una novità per la
ricerca economica. È bene chiarire, tuttavia, che i problemi di tenuta
dell’eurozona che abbiamo fin qui tratteggiato sono oggi in larga parte
riconosciuti dalla stragrande maggioranza degli economisti. Nel campo
della teoria pura Paul Krugman li ha recentemente riproposti sotto il
nome di “paradosso della flessibilità”9.
Sul versante della politica economica, pur tra numerose contraddizioni,
persino il Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere che quei
problemi sono tutt’altro che risolti e in tal senso ha espressamente
evocato il rischio di un «breakup» dell’eurozona10 . Potremmo dire, in un certo senso, che la tesi del monito degli economisti
secondo cui l’eurozona sta procedendo lungo un sentiero insostenibile
costituisce ormai la posizione prevalente, almeno tra gli studiosi. Non è
un caso, del resto, che i critici di questa tesi solitamente evitino di
attaccare le sue basi logiche. Di norma essi preferiscono obiettare
sostenendo che è ancora possibile realizzare un significativo
cambiamento negli indirizzi di politica economica europea, un nuovo
corso che finalmente inverta le tendenze divergenti in atto e in un modo
o nell’altro riporti in equilibrio i rapporti di credito e debito
interni all’eurozona. Almeno fino a qualche tempo fa questa posizione
non pareva del tutto idealistica: qualche ragione materiale per
avanzarla effettivamente c’era. Tuttavia, man mano che glianni passano e
la crisi si inasprisce, questo tipo di argomentazione si fa più
flebile, perde la sua forza persuasiva. Bisogna riconoscere, infatti,
che all’interno delle istituzioni europee è risultato finora impossibile
anche solo approssimarsi a un consenso diffuso nei confronti di
qualsiasi ipotesi di riforma, dalle più ambiziose come lo “standard
retributivo europeo”11 a
quelle più blande come un allentamento almeno temporaneo dei vincoli di
bilancio nazionali. La stessa politica monetaria della Bce si è
rivelata finora molto più conservatrice di quanto ci si attendesse
guardando alle recenti esperienze di altri paesi. I dissidi politici in
seno all’establishment europeo, tra l’altro, negli ultimi tempi si sono
ulteriormente accentuati. Il motivo in fin dei conti è semplice: perché
mai la Germania e gli altri paesi che stanno traendo vantaggi relativi
dalle attuali dinamiche dovrebbero contribuire a modificarle? In altre
parole, le divergenze negli andamenti macroeconomici accentuano anche le
divergenze politiche e riducono ulteriormente le chances per una svolta
negli indirizzi di politica economica. Certo, vi è chi tuttora prevede
che prima o poi la crisi dei paesi periferici dell’Unione colpisca anche
le esportazioni su cui la Germania prospera, e induca quindi le
autorità tedesche a rivedere le proprie posizioni. Ma l’idea che quel
paese abbandoni la propria storica strategia mercantilista appare oggi
più che mai sganciata dai fatti. In realtà, i portatori degli interessi
prevalenti in Germania appaiono affezionati all’Unione monetaria europea
solo se e nella misura in cui la moneta unica agevoli il surplus
tedesco e il connesso, feroce processo di centralizzazione
capitalistica. Il giorno in cui non risulti più funzionale allo scopo
sarà l’euro a dover soccombere, non il mercantilismo germanico.
Gattopardi e nazionalisti
Se dunque così stanno le cose, lasciano
un po’ il tempo che trovano i numerosi appelli a contrastare il corso
logico degli eventi su basi sostanzialmente idealistiche. Piuttosto, si
pone un problema urgente, di ordine materiale: del tutto
indipendentemente da opinioni, auspici e speranze, occorre valutare le
possibili implicazioni di una implosione dell’attuale assetto
dell’eurozona. A questo riguardo, come abbiamo accennato, la tesi del Monito degli economisti è che presto o tardi bisognerà compiere «una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Volendo
interpretare anche questo passaggio in un’ottica marxista, Althusser
può essere d’aiuto: si può infatti sostenere che la crisi di un regime
monetario costituisce un esempio di crocevia, di “congiuntura” del
processo storico che può esser governata in modi molto diversi tra loro,
ognuno dei quali potrà avere diverse ripercussioni sulle diverse classi
sociali in gioco. In quest’ottica, allora, diventa necessario
domandarsi: quali sono gli attori sociali maggiormente in grado di
sfruttare la “congiuntura” che si profila all’orizzonte? Quali soggetti
appaiono oggi pronti ad affrontare una precipitazione della crisi
dell’eurozona al fine di piegarla a proprio vantaggio? Ebbene, anche
sotto questo aspetto il Monito offre qualche spunto di
riflessione. Il testo, infatti, accenna con grande preoccupazione
all’ammassarsi di consensi intorno a due ipotesi politiche: da un lato
le «apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male» e
dall’altro gli «inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e
xenofobo».
La
prima ipotesi politica, si badi bene, non va confusa con l’ovvia
constatazione che il cambio fisso irrevocabile imposto dall’euro entra
ormai in contraddizione con lo sviluppo dei costi e dei prezzi nei
diversi paesi dell’Unione. Tale ipotesi va molto oltre: essa è infatti
sostenuta da coloro i quali suggeriscono di risolvere gli squilibri tra
creditori e debitori europei unicamente attraverso il passaggio a un
regime di cambi flessibili governati dal gioco delle forze del mercato.
Dal punto di vista dottrinale si tratta di una ricetta tipicamente
liberista, che trova in Milton Friedman il suo tradizionale riferimento12.
Essa può rientrare in quella che talvolta abbiamo definito una
soluzione “gattopardesca” alla crisi dell’euro. Vale a dire, la
soluzione di chi sarebbe disposto a cambiare tutto, al limite persino la
moneta unica, pur di non cambiare in fondo nulla, ossia pur di non
mettere in discussione le politiche di austerity, di
liberalizzazione dei mercati, di flessibilità del lavoro e di deflazione
salariale che stanno favorendo i processi di centralizzazione dei
capitali e di “mezzogiornificazione” europea. Questa soluzione trova
consensi presso la City di Londra, qualche estimatore anche a
Francoforte e in Italia è sostenuta da alcuni fautori delle
privatizzazioni e delle dismissioni di capitale all’estero. A tale
riguardo vale la pena di notare che, in assenza di opportune
contromisure, il mero abbandono di un regime di cambi fissi e la
eventuale, conseguente svalutazione ridurrebbero il prezzo in moneta
estera degli asset nazionali e potrebbero favorire i cosiddetti “fire
sales”, vale a dire svendite di capitale a favore di acquirenti
stranieri in misura ben superiore a quelle che già si registrano oggi.
La letteratura scientifica e l’esperienza storica, anche italiana,
segnalano che quello dei “fire sales” costituisce un rischio concreto13.
Anche per questo motivo la soluzione “gattopardesca” sembra la più
adatta a tutelare gli interessi dei capitali più grandi e più forti
d’Europa.
La seconda ipotesi politica stigmatizzata dal monito degli economisti
è quella che il Fronte Nazionale in Francia ha ribattezzato con il
termine «patriottismo economico». È l’idea di chi vuol mettere in
discussione non soltanto la moneta unica ma anche il mercato unico
europeo, nonché il sistema dei diritti individuali incardinato nelle
regole comunitarie. Beninteso, il fatto che la critica della moneta
unica sia qui accompagnata da una critica del mercato unico europeo
costituisce un fatto logico, in sé difficilmente contestabile. Ma per
tutto il resto questa ricetta evoca ombre per nulla rassicuranti: essa
infatti consiste in una miscela di protezionismo, xenofobia e
restringimento delle libertà civili incardinata in una ideologia del
ritorno ai cosiddetti valori tradizionali, ben rappresentati dal vecchio
trittico “Dio, patria e famiglia”. È innegabile che tale visione stia
raccogliendo sempre più consensi tra i lavoratori colpiti dalla crisi e
dalla disoccupazione, e sempre più insofferenti verso la concorrenza
degli immigrati. Ma soprattutto, questa ipotesi trova la sua base
sociale di riferimento nella miriade di piccoli capitalisti afflitti
dalla recessione, dal debito e dal rischio crescente di insolvenza. Di
fatto, essa incarna la pretesa di elevare un argine contro la
centralizzazione: di fronte alla spinta centralizzatrice dei capitali e
alla sua tendenza a valicare ogni confine statuale, il dissotterramento
di una qualche idea economica di «nazione» costituisce la prevedibile
«reazione» strategica dei gruppi capitalistici relativamente più deboli e
in difficoltà. Potremmo in definitiva considerarla una ipotesi politica
“reazionaria”, di tipo nazionalista, con tratti potenzialmente
neofascisti.
Il tempo dell’autocritica
Non è difficile riconoscere
che, di fronte alla previsione di una futura crisi dell’eurozona, gli
sviluppi politici conseguenti potrebbero facilmente riflettere le due
ipotesi estreme appena elencate, o persino una combinazione dialettica
tra di esse. Dinanzi a simili prospettive, suscita grande inquietudine
l’assordante silenzio dei socialisti, dei comunisti, e più in generale
degli eredi più o meno degni e diretti della tradizione novecentesca del
movimento dei lavoratori. Per quanto incredibile possa sembrare, questi
soggetti sembrano tuttora ostinarsi a escludere anche solo la
possibilità di una implosione dell’eurozona tra i possibili futuri stati
del mondo. Dal tracollo del “grande altro” sovietico, alla crisi del
movimento sindacale, all’ascesa di quella ideologia ingenua che abbiamo
talvolta definito “liberoscambismo di sinistra”, altrove abbiamo cercato
di indagare sulle varie e complesse determinanti di questa eccezionale
opera di rimozione e del tremendo ritardo politico che essa sta
producendo14.
In questa sede tuttavia ci pare opportuno sollevare una questione
impellente: esiste la possibilità di colmare o almeno ridurre questo
ritardo? Difficile a dirsi. Di certo, se una possibilità in tal senso
esiste, questa dipenderà dalla disposizione di chi oggi pretende di
incarnare l’eredità storica del movimento operaio a definire un
sentiero, una rotta adeguata all’attraversamento dell’impervio crocevia
che si intravede all’orizzonte.
Se
questo è l’obiettivo da perseguire, il nodo più urgente che
bisognerebbe sciogliere riguarda i possibili effetti salariali e
distributivi che deriverebbero da un’uscita dall’euro. In alcuni studi
recenti abbiamo mostrato che gli abbandoni dei regimi di cambio fisso e
delle unioni monetarie che siano stati accompagnati da svalutazioni
della moneta, risultano mediamente correlati a una diminuzione dei
salari reali e della quota salari. Questo significa che alla deflazione
salariale che già è in atto dentro l’eurozona potrebbe far seguito un
declino ulteriore delle retribuzioni una volta usciti da essa. Questa
prospettiva tuttavia non è inesorabile: al di là dei valori medi,
l’evidenza storica riporta anche casi in cui le uscite dai regimi di
cambio sono state gestite con opportune politiche di salvaguardia del
lavoro che hanno tutelato le retribuzioni e in alcuni casi le hanno pure
accresciute. Ed è interessante notare che in tali casi l’andamento
della produzione è stato mediamente migliore di quello che si è
registrato nelle circostanze in cui, dopo l’uscita, i salari sono
declinati15.
L’implicazione che si può trarre da tali evidenze è ovvia: chiunque
intenda indicare una rotta favorevole ai lavoratori dovrebbe
immediatamente chiarire che il crocevia dell’uscita dall’euro va
affrontato con opportuni interventi a tutela del potere d’acquisto delle
retribuzioni e delle quote salari. Chi su questo terreno si muove
ambiguamente, addirittura negando l’evidenza pur di minimizzare il
problema, ricade inevitabilmente in una logica “gattopardesca”.
Quello
dei salari, ovviamente, è solo il primo problema da affrontare, non
certo l’unico. Molti sono i tasselli che dovrebbero concorrere a
definire una modalità di gestione dell’uscita dall’euro che possa
ritenersi favorevole alle istanze del lavoro. Uno di essi, ad esempio,
dovrebbe riguardare l’esigenza di cautelarsi contro la possibilità,
evocata in precedenza, che una svalutazione del cambio favorisca le
svendite di capitale a favore di acquirenti esteri. Questo problema
assume rilevanza soprattutto in campo bancario, ma costringe in realtà a
cimentarsi con una questione di carattere più generale: di fronte a un
tracollo della moneta unica, quale dovrebbe essere la posizione degli
eredi della tradizione socialista e comunista nei confronti della
libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo? La domanda è
cruciale. Basti notare che essa implica, tra le altre cose, una scelta
di posizionamento tra la tendenza alla centralizzazione dei capitali da
un lato e le rispettive controtendenze che mirano a ostacolarla
dall’altro. Ed implica anche, allargando il campo di analisi, una scelta
tra una riformulazione di quel concetto di modernità che ha
attraversato il marxismo fin dalle sue origini e un sostanziale
abbandono di esso. L’opinione di chi scrive è che c’è un solo modo per
risolvere questo dilemma in termini moderni e progressivi. Come abbiamo
già detto, la crisi della moneta unica implica inevitabilmente una crisi
del mercato unico europeo; solo una visione falsificante, di tipo
“gattopardesco”, potrebbe negarlo. Questa innegabile evidenza logica,
tuttavia, non dovrebbe essere sfruttata per assecondare forme di
«patriottismo economico» votate alla tutela dei piccoli capitali,
potenzialmente reazionarie e in fin dei conti antimoderne. Al contrario,
bisognerebbe verificare se la crisi dell’Unione europea possa
costituire un’opportunità per creare consenso e partecipazione di massa
intorno a una diversa ipotesi politica, che potremmo in estrema sintesi
racchiudere in due punti:
1) da un lato, attribuire nuovamente ai poteri
pubblici un ruolo guida nei processi di centralizzazione del capitale
nazionale;
2) dall’altro, condizionare gli scambi necessari alla
centralizzazione su scala internazionale al rispetto di un nuovo
“standard del lavoro”, che recuperi e rilanci la logica antideflattiva
dello “standard retributivo europeo”. Stiamo parlando, in buona
sostanza, di una proposta di governo della crisi che consentirebbe di
affrontare i processi di desertificazione produttiva attribuendo alle
strutture dello Stato un ruolo attivo nella ristrutturazione
capitalistica: a partire dal settore bancario, dove le irrazionalità
sistemiche dell’obsoleto regime di accumulazione trainato dalla finanza
privata potrebbero esser superate promuovendo una moderna, non
ossificata logica di piano. E stiamo parlando di un criterio di
riorganizzazione delle relazioni internazionali regolato da uno
“standard”, che non necessariamente freni la centralizzazione
capitalistica ma la imbrigli in uno schema coordinato, antideflattivo,
in ultima istanza favorevole al lavoro. Potremmo definirlo un progetto
di governo democratico e sociale del processo di centralizzazione
capitalistica, una soluzione moderna che consentirebbe di ridisegnare i
rapporti economici continentali alla luce di un nuovo protagonismo del
lavoro e di una “nuova questione meridionale” su scala europea.
Ovviamente una svolta
politica di tale portata non potrebbe mai derivare da singole
elaborazioni. Solo un’intelligenza collettiva potrebbe delinearne gli
snodi e verificare la sua praticabilità o meno nella congiuntura storica
che ci è data. Il dramma, come evidenzia il monito degli economisti,
è che quella congiuntura è già in atto. Un allenato pessimismo della
ragione induce a sospettare che tra gli eredi più o meno degni e diretti
delle tradizioni socialista e comunista possa non esservi il tempo per
un’autocritica, figurarsi per la costruzione di un pensiero collettivo
in grado di elaborare un tale cambio di paradigma. La tragedia
shakespeariana tuttavia insegna: i vuoti politici sono destinati a esser
colmati, in un modo o nell’altro. Se nella dialettica politica non
entreranno rapidamente forze in grado di proporre una modalità
democratica e sociale di governo della crisi, a sciogliere i nodi
dell’euro giungeranno forze ostili alle istanze del lavoro, del
progresso e dell’emancipazione civile.
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