“Riunire
la sinistra? Non me ne importa niente” ha detto Pablo Iglesias, il
leader carismatico di Podemos a Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena
in un libro su quello che oggi è il primo partito spagnolo: Podemos. La sinistra spagnola oltre la sinistra (Alegre, 2014).
Questa è una delle frasi più importanti in un reportage particolarmente
ispirato che segue di pochi mesi uno analogo scritto da Pucciarelli e
Russo Spena sulla Syriza di Alexis Tsipras. Segna una distanza
irreversibile rispetto alla discussione italiana ferma allo schema
archeologico del fronte popolare. Tale unione non corrisponde mai ad un
conflitto reale. Il conflitto, anzi, si svolge tra le parti che
dovrebbero realizzare una simile unione. Un’unione che, non a caso, non
si realizza mai.
Il disgusto per la sinistra
“Sinistra” è una parola impresentabile in società.
Per gli spagnoli indica la vergogna della corruzione del Psoe; per i
francesi significa l’ignobile social-liberismo dei socialisti di
Hollande: per gli italiani l’opportunismo cinico, infantile e
autoritario del partito democratico di Renzi. Per tutti la sinistra è il
sinonimo del disgusto per chi si sente di sinistra.
Per fare un reportage bisogna essere curiosi. E
sentire un’impellenza. Pucciarelli e Russo Spena vogliono spiegare
perché in Spagna, non si parla più di “sinistra”, come aspirazione ad un
dover essere, ma di una “sinistra” come una pratica costituente. Per
questo “unire la sinistra” è un’idea che è stata da tempo abbandonata
per manifesta incompatibilità con il senso comune, creato tra l’altro
dagli imponenti movimenti contro l’austerità e la corruzione in Spagna
dal 2011 a oggi.
Con semplicità quasi teleologica, questo libro mostra che è possibile
far coincidere le aspirazioni con la vita di ciascuno. Qualcosa che il
neoliberismo ha reso impossibile. O, almeno, così sembra. Per capire la
spettacolare ascesa di Podemos dalle europee di maggio a oggi (avrebbe
il 27% dei consensi in Spagna, come Syriza in Grecia) chi in Italia si
definisce “di sinistra” – ma lo stesso vale per chi si riconosce nei
“movimenti” – dovrebbe fare uno sforzo apparentemente proibitivo.
In primo luogo logico: “sinistra” non è il risultato della somma di
identità o reti, incarichi o cadreghe, individualità egoiste e
concorrenti, ma è un processo di auto-trasformazione delle identità così
come del campo politico in cui esse si riconoscono. Il movimento è
complicato, e si chiama immanenza. In questo movimento tra l’essere
contro e dentro uno spazio di “sinistra”, c’è la politica oggi.
Che cos’è la sinistra “conservatrice”
Iglesias dice anche un’altra cosa: la “sinistra è
conservatrice”. Lo dice (in italiano) da un punto di vista di sinistra,
di chi viene dai movimenti – No Global e i disobbedienti. Iglesias, come
Tsipras (che però venne fermato ad Ancona) era a Genova nel luglio
2001, insieme a mezzo milione di persone che veniva da tutta Europa. Il
suo punto di vista non è quello di Renzi e, ancor prima, di Berlusconi. È
quello che hanno sempre sostenuto i movimenti dagli anni Settanta ad
oggi. Prima contro il Pci, oggi contro la sinistra neoliberista. Per
Iglesias la sinistra è conservatrice in tutta Europa, e non solo in
Italia, perché è l’espressione di paesi conservatori che custodiscono il
ricordo di un’età dell’oro: il vecchio patto fordista-keynesiano.
Quello che permise alla classe operaia di aspirare a diventare “ceto
medio” e al “ceto medio” di diventare il centro di gravita permanente
della politica, della società, all’interno dei flussi economici e
corruttivi di una società in disfacimento.
Oggi quell’età dell’oro è improponibile: il capitale finanziario
espropria la ricchezza comune; lo stato esiste per distruggere il
Welfare e affermare lo stato penale contro i cittadini. Pensare che il
ceto medio sia il soggetto che restauri la normalità perduta è pura
illusione. Così come è illusoria l’idea di ricostruire un equilibrio tra
democrazia e capitalismo. Podemos, inoltre, è la prima manifestazione
di una soggettività di massa che spacca il fronte del bipolarismo, e
delle larghe intese, tra socialisti e democristiani. E mostra la
possibilità – ancora tutta da comprendere e soprattutto da praticare –
di un modo diverso di creare norme e istituzioni all’interno di una
democrazia partecipativa, radicale e dal basso e non delegata, né
rappresentativa.
Fuori dal campo grillino
Podemos è un ufo per il piccolo mondo antico della
politica italiana. Subito i manutengoli del senso comune l’hanno
ristretto alla commedia dei Cinque Stelle. Eppure Iglesias, e il
ristretto giro dell’università Computense di Madrid citano – in
pubblico, meno in Tv – Toni Negri, Gramsci, Ernesto Laclau o il
Venezuela. Parlano di “movimenti”, “socialismo”, assomigliano alla prima
generazione del movimento operaio europeo.
Non pongono il problema della proprietà dei mezzi di
produzione, né della rivoluzione. Per questo non possono essere definiti
“comunisti”. Considerati i rapporti di forza in Spagna, e in Europa,
sarebbe del tutto prematuro, per non dire grottesco. Loro dicono di
essere realisti, cercano il consenso, ma certo non sono antipazzanti
verso Marx. Al momento più che comunisti, sono socialisti europeisti,
riformisti e di sinistra. Per le definizioni, tuttavia, è ancora presto.
Come nel caso di Syriza, molto dipenderà dall’arrivo al governo.
Un’esperienza insidiosa per tutti, oggi, in Europa.
L’ambizione smisurata del leader Iglesias, con la quale Pucciarelli e
Russo Spena non sembrano simpatizzare molto, non mira a stabilire una
dittatura nel partito ma a sviluppare una forza politica. Si, certo,
Podemos protesta contro la “casta”. Ma questo non basta per ridurlo al
folklore grillino. La protesta è contro la corruzione endemica del
capitalismo finanziario e della democrazia europea. In più la democrazia
elettronica di Podemos non è guidata da un’azienda come la
Casaleggio&Associati. Non litigano sugli scontrini. I deputati
europei hanno stabilito che il reddito è di 1700 euro e basta.
Soprattutto non hanno cercato l’alleanza con Farage e altri liberisti
xenofobi e nazionalisti europei. Stanno nella sinistra europea, cercano
alleanze e coalizioni con gli altri movimenti.
Podemos ha cioè acquisito la principale innovazione culturale dei
movimenti del XX secolo: quella che Deleuze e Guattari hanno definito la
teoria dei “blocchi di alleanza”. Un approccio semplicemente
inconcepibile per il velletarismo totalitario dei Cinque Stelle.
Politica dei desideri
Intendiamoci, ogni aspirazione democratica è
legittima: fare volontariato, creare un club della lettura, auspicare
una riunione di condominio. E anche fare la sinistra. E non importa che
lo stesso slogan abbia conosciuto esiti elettorali particolarmente
mediocri, un atto di testimonianza marginale all’interno di un campo
politico evaporato dalla fine del Pci e poi dall’implosione della
Rifondazione comunista di Bertinotti.
In Spagna chi fa Podemos – “possiamo”, verbo che vale come
un’esortazione, ma anche come la realizzazione di una potenzialità,
oltre che un potere collettivo – non ripete la legge del dovere recitata
come il vangelo in ogni assemblea della sinistra, a tutti i livelli. Si
deve, ma non si può fare. Si allude alla possibilità di esistere, anche
se non si esiste. Ci sarebbero dei diritti, ma non si possono avere. Si
potrebbe lavorare, ma ora non è possibile. Si può sognare, ma bisogna
farlo dopo. Invece lo possiamo fare ora e adesso, cioè nel tempo della
politica: il presente.
Fare politica oggi
Il corollario di questa tesi Pucciarelli e Russo
Spena lo trovano nelle testimonianze raccolte tra attivisti e dirigenti
di Podemos: «La politica è desiderio. Fare politica nel XXI secolo è
capire le condizioni di sfruttamento dell’operaio cinese, la negazione
del diritto allo studio della studentessa spagnola, i problemi di
salubrità nelle favelas di Rio di Janeiro, la precarietà del ricercatore
italiano o la rabbia del gay russo. La politica è desiderare di essere
la parte che crea un altro mondo». «Vogliamo occupare il centro della
scena politica. Ci auguriamo che la nostra storia e il nostro progetto
diventino maggioranza, senza mediazioni col sistema politico che ci
governa dal 1978. Noi rappresentiamo il futuro».
Fare politica nel presente significa liberare il desiderio;
identificarsi in una parte dei senza parte; collocarsi lì dove c’è la
partizione tra ruoli e classi, ma dal punto di vista dell’universale.
Questo significa abolire la stessa partizione.
La differenza con chi vuole “fare la sinistra” è colossale. E risale
sino ai tempi di Marx: non è necessario trovare una collocazione in uno
spazio già dato (cioè a “sinistra”), ma abolire le regole che hanno
creato quella divisione dello spazio politico per aprire il campo
all’universale. Così si spiega il fastidio di Podemos per la destra o
per la sinistra. La sua politica è chiaramente di sinistra, ma eccede
programmaticamente la divisione classica invalsa sin dalla Rivoluzione
francese. In questa “eccedenza” nasce l’apertura che fa affluire il
respiro, crea l’entusiasmo, l’identificazione con un universale concreto
e singolare, il desiderio di agire insieme.
Il problema del populismo
«Noi siamo per l’unità popolare, un concetto più
ampio dell’unità della sinistra” aggiunge Iglesias. Non è una
definizione da poco, non priva di ambivalenze. Designa un campo che il
socialismo neo-bolivariano, o le teorie sul populismo di Ernesto Laclau
nelle quali si riconosce Podemos, declinano in maniera molto diversa dal
“populismo digitale” grillino. Il “popolo” è l’universale che sta al di
là della “destra” e della “sinistra” e cambia le partizione dei ruoli
che per tradizione vengono assegnati a questi concetti. Per Grillo
questa funzione la svolgono i “cittadini”.
Nel popolo Podemos identifica un soggetto generale della politica, il
99% di cui parlavano Occupy Wall Street o gli indignados. È lo stesso
concetto nel quale
il filosofo argentino Laclau ha inteso identificare il trascendentale
vuoto che riassume le istanze eterogenee che provengono dalla base.
Il popolo è il soggetto universale che viene riempito da queste
“domande” ed esprime l’”egemonia” del gruppo che si è impadronito del
potere. Verosimilmente con le elezioni, quelle a cui si candida Podemos.
Laclau comprende il rischio del leaderismo, l’identificazione del
capo con il suo popolo, ma propende per l’idea che il capo possa essere
il “medium” dei desideri del “suo” popolo, l’universale incarnato che
permette l’attualizzazione della giustizia. Pucciarelli e Russo Spena
spiegano nel reportage come questo rischio sia l’occasione di un
conflitto politico con chi sostiene una strategia “basista” e articolata
secondo il canone classico del partito novecentesco. Nella politica
populista “di sinistra” il conflitto con il leader è un altro aspetto
della lotta di classe.
Il popolo, come la sinistra, è tuttavia una parola impronunciabile in
Europa. È il punto di riferimento della destra leghista, ad esempio,
perché richiama scenari politici neo-sovranisti e nazionalistici
contrari all’europeismo politico di Tsipras. Non solo. Il popolo si
presenta sempre come soggetto scisso, e mai uniforme. Sempre
contendibile tra i gruppi alla ricerca dell’egemonia.
Il paradosso democratico
Per il critico americano Fredric Jameson questo è il
lascito dell’eredità lacaniana nel pensiero di Laclau e quindi dei
“populisti di sinistra” che vivono in Venezuela o in Spagna. Prima
negato, e poi affermato, il soggetto della sua politica si presenta
scisso e mai unificabile. Allo stesso tempo, però, si identifica nei
programmi rivoluzionari che offrono immagini allettanti di unificazione e
totalità (l’unità popolare”) agli individui per combattere il
neoliberismo.
Per Jameson questa proposta è compromessa da un errore di base:
l’omologia tra soggetto individuale e totalità sociale. Il soggetto
«post-marxista», rivendicato da Iglesias e dagli intellettuali di
Podemos, ragiona su un individuo o sui «movimenti sociali» che competono
tra loro sventolando i vessilli della loro identità, una realtà che ben
conosciamo sin dagli anni Ottanta. Non è un caso che nelle
testimonianze raccolte da Pucciarelli e Russo Spena in Spagna questo
tema ritorni spesso.
La lotta per l’egemonia in Europa si gioca tutta sulla capacità di
affrontare questo paradosso democratico, il vero problema politico
contemporaneo. Podemos cerca di farlo a partire da questa domanda: che
cos’è un movimento di sinistra che ripudia la sua appartenenza alla
sinistra?
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