Di
governabilità e democrazia si è iniziato a parlare nei primi anni
Settanta. Dopo quasi cinque lustri di crescita economica e relativa pace
sociale, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam e il movimento
afroamericano negli Stati Uniti, il ‘68 studentesco, il ‘69 operaio e la
successiva esplosione del conflitto sociale soprattutto in Europa,
pongono all’attenzione della classe dirigente politica ed economica dei
Paesi occidentali il tema della governabilità della democrazia. Nel ‘71
Nixon decreta la fine degli accordi di Bretton Woods, e due anni dopo la
prima crisi del dopoguerra del sistema capitalistico viene accesa dalla
miccia del conflitto dello Yom Kippur.
Nel maggio 1975 la Trilateral tiene la sua riunione plenaria annuale a Kyoto: Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki presentano il Rapporto sulla governabilità delle democrazie,
partendo dal presupposto che si è evidenziata una “crisi della
democrazia in termini di ‘governabilità’ del sistema democratico”, come
scrive Giovanni Agnelli nella prefazione all’edizione italiana della
pubblicazione (1). La riflessione più articolata sulle cause e le
possibili soluzioni è quella sviluppata da Huntington, che analizza la
realtà degli Stati Uniti.
Il
professore della Harward University – che ha ricoperto anche la carica
di consigliere del Dipartimento di Stato Usa – sottolinea come
l’espansione della democrazia avvenuta negli anni Sessanta, attraverso
un aumento della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica,
concretizzatasi con manifestazioni, movimenti di pro-testa,
organizzazioni civili per promuovere una causa o portare avanti istanze
collettive, maggiore sindacalizzazione dei lavoratori e sviluppo di
circoli intellettuali promotori di una cultura critica – spesso basata
sulla richiesta di effettiva applicazione dei diritti sanciti nella
Costituzione – abbia prodotto uno squilibrio: una maggiore democrazia ha
generato una minore governabilità. Più democrazia porta infatti sulla
scena politica nuovi attori sociali, e un governo, legato a doppio filo
alla logica del consenso elettorale, non può non tenerne conto. Accanto
agli interessi dei gruppi di potere dominanti, quindi, da sempre
presenti nello spazio politico – industria, banche, finanza – compaiono
anche le istanze dei dominati.
A
questo punto dell’analisi, Huntington afferma che alle richieste
popolari il governo non può che dare risposte negative o, al più,
parziali. Di conseguenza, nasce nei cittadini un sentimento di sfiducia
nel sistema democratico a danno della governabilità: crolla il consenso,
e l’autorità governativa non solo non viene più riconosciuta, ma
addirittura contestata, aumentando il rischio di esplosione di conflitti
sociali.
Huntington
non si sofferma a spiegare le ragioni per cui un governo
democraticamente eletto non possa dar corso alle richieste dei
cittadini, ma non si tratta di un’omissione; probabile sia più un
implicito del discorso, un aspetto dato per scontato, considerata la
platea a cui il professore si rivolge. Industriali, banchieri e politici
sono infatti ben consapevoli del ruolo dello Stato nel processo di
accumulazione capitalistica, quella relazione dialettica che Marx ha
identificato in struttura/sovrastruttura con conseguente definizione di
‘Stato borghese’, ossia portatore degli interessi della ristretta classe
borghese del Capitale. Le richieste dei cittadini – quelli che Occupy Wall Street aveva sintetizzato nello slogan We are the 99% –
non possono quindi essere accolte quando vanno a intaccare la dinamica
capitalistica di creazione del profitto (un minor sfruttamento del
lavoro, per esempio, divieto di delocalizzazione all’estero della
produzione, controllo della speculazione finanziaria ecc.) e possono
ricevere risposte parziali solo quando sono in sintonia con le necessità
del Capitale in quel dato periodo storico – come è stata la creazione
della ‘classe media’ attraverso l’innalzamento dei salari nel momento
del boom economico, una massa di consumatori capace di assorbire le
merci prodotte. Ma la partecipazione democratica, in un sistema che da
un parte legittima il capitalismo e il libero mercato e dall’altra ha
Costituzioni che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini e il
diritto a una vita dignitosa, alza il livello delle richieste, superando
quello che può essere concesso. Da qui il problema.
Huntington
mette anche in guardia dai risvolti finanziari di un aumento della
democrazia. Analizzando i dati del bilancio federale statunitense, il
professore evidenzia come sia avvenuta una “svolta assistenziale”: meno
spese per armamenti e più uscite per assistenza pubblica e sanità.
“Nell’anno finanziario 1960, la spesa globale per gli affari esteri
incideva per il 53,7% del bilancio federale, mentre quella a sostegno
dei redditi ammontava al 22,3%. Nell’anno finanziario 1974 […] in queste
due direzioni furono impiegate cifre quasi identiche: 33% agli affari
esteri e 31% a sostegno dei redditi”. L’equazione maggiore democrazia
uguale aumento delle spese sociali è indubbia per Huntington – “La base
politica della ‘svolta assistenziale’ fu l’espandersi della
partecipazione politica e l’intensificarsi dell’impegno per modelli
democratici ed egualitari esistenti negli anni 1960” – e dà un risultato
negativo: un aumento della spesa governativa “sotto forma di
sovvenzioni assistenziali e previdenziali anziché di contributi
supplementari governativi al prodotto nazionale lordo” ha infatti
generato, secondo il professore, una crescita del deficit statale e
dell’inflazione.
Non bisogna però farsi prendere dal panico. Analizzando quanto accaduto negli anni Sessanta, si può ipotizzare che il virus della
democrazia contenga al proprio interno gli anticorpi utili a
debellarlo. Il processo sembra infatti ciclico: una maggiore
partecipazione dei cittadini porta a un’accresciuta polarizzazione delle
richieste politiche (non ci si accontenta di compromessi al ribasso);
una maggiore polarizzazione porta a una crescita di sfiducia
nel sistema (perché le istanze vengono respinte); una maggiore sfiducia
produce una minore partecipazione politica. Il cerchio si chiude. “Ciò
fa pensare” conclude Huntington “che l’ondata democratica degli anni ‘60
ben potrebbe generare le proprie
forze di compensazione, che un improvviso aumento di partecipazione
politica produce le condizioni che ne favoriscono il calo”.
Non
si deve tuttavia nemmeno sottovalutare il problema, rilancia il
professore, perché non si può escludere che in futuro le spinte
democratiche possano ripresentarsi. “La forza della democrazia pone un
problema alla sua stessa governabilità […]. La vulnerabilità del sistema
democratico, quindi, deriva principalmente,
non da minacce esterne, per quanto esse siano reali, né dalla
sovversione interna da sinistra o da destra, per quanto entrambe queste
evenienze possano darsi. Bensì dalla dinamica interna della stessa
democrazia in una società altamente istruita, mobilitata e partecipe”.
Occorre dunque porre un freno, quello
che Huntington definisce “un grado maggiore di moderazione” del sistema
democratico. Innanzitutto, “la democrazia non è che un modo di
costituzione dell’autorità, e non è detto che possa essere applicato
universal-mente” in tutti i campi, anzi: “Le sfere nelle quali i
procedimenti democratici vanno bene sono limitate”. Il governo di un
Paese, per esempio, deve avere la forza di distaccarsene: “I grandi
presidenti [degli Usa, n.d.a.] sono stati i presidenti forti, i
quali forzavano l’autorità legittima e i mezzi politici per mobilitare i
sostenitori dei loro orientamenti politici e attuare il loro programma
legislativo”; i leader politici non devono avere “dubbi sulla moralità
del loro dominio”, come è accaduto, secondo Huntington, a quelli degli
anni Sessanta, che “condivisero l’ethos democratico, partecipazionale e
ugualitario dei tempi e si posero quindi problemi circa la legittimità
della gerarchia, della coercizione, della disciplina, della segretezza e
dell’inganno – tutti attributi, in una certa misura inevitabili, del
processo di governo”. In secondo luogo, “il funzionamento efficace d’un
sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di
apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”. Huntington
riconosce che “in sé, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è
intrinsecamente antidemocratica”, ma è necessaria: apatia e disimpegno
non producono partecipazione politica e dunque richieste, e l’equilibrio
tra democrazia e governabilità ne trae giovamento.
Esiste poi un altro aspetto che
favorisce la governabilità: la creazione di un obiettivo comune e
condiviso, che produce coesione sociale. In un regime totalitario il
fine può essere imposto con la forza, in un sistema democratico deve
essere il prodotto di una narrazione, capace di generare, nei “gruppi
importanti della società”, la percezione “di una seria minaccia alla
loro prosperità e la comprensione che tale minaccia pesa su di tutti
indistintamente. Quindi, in tempi di guerra o di catastrofe economica, i
fini comuni si identificano facilmente” e la governabilità ne risulta
avvantaggiata.
Occorre infine riflettere sulle
conseguenze negative che un eccesso di democrazia produce sui partiti:
maggiore partecipazione genera più istanze, maggiori istanze producono
più partiti, che si fanno carico di rappresentarle, e la frammentazione
politica che ne consegue pone problemi di maggioranze parlamentari e
quindi di governabilità.
Sono passati quarant’anni eppure, come spesso accade, il rapporto
della Trilateral – oggi introvabile e non certo di dominio pubblico – si
rivela non solo attuale ma fondamentale per comprendere il presente.
Succede perché buona parte della classe dirigente, soprattutto di quegli
anni, era formata da persone estremamente competenti, con un pensiero
forte e un buon bagaglio culturale, che usavano per analizzare la realtà
e indirizzarla; e certo è attuale anche perché realtà come la
Trilateral e il Bilderberg tracciano la rotta della società. In quei
consessi elitari e a porte chiuse si sviluppa il pensiero della classe
dominante, che viene poi diffuso attraverso la cultura accademica, i
grandi media e la propaganda politica, divenendo il pensiero unico che
anche la classe dei dominati finisce per fare proprio. Ovviamente
semplificato, sotto forma di slogan, e decontestualizzato, privato
dell’analisi che vi sta dietro e dei reali interessi che serve.
Oggi sembra giunto anche per l’Italia il momento di diventare una
democrazia ‘matura’, ossia governabile; a suon di ‘riforme’
l’architettura del Paese sta cambiando, dalle istituzioni al mondo del
lavoro, e nulla sarà più come prima. Renzi ha tutte le caratteristiche
per portare a compimento questo processo storico: appartiene alla
generazione post-ideologica, è ambizioso e spregiudicato, possiede la
giusta dose di arroganza ed egocentrismo, è riuscito a raggruppare
intorno a sé una squadra di fedelissimi, tra opportunisti e innamorati,
e, soprattutto, ha doti comunicative – le appropriate doti
comunicative: non articola alcun pensiero ma fornisce hashtag,
contribuendo ad abbassare ulteriormente il livello culturale.
Era un po’ che il Capitale italiano aspettava un personaggio simile
(2), e la frenesia traspira dalle pagine del Corriere della Sera, tra i
principali organi di diffusione del pensiero unico – primo quotidiano
nazionale che i cittadini sorseggiano ogni mattina a colazione insieme
al caffè, senza porsi domande sulla sua linea editoriale, dettata da una
proprietà industriale e finanziaria. Da quando Renzi è andato a Palazzo
Chigi, il giornale lo marca stretto, lo pungola continuamente affinché
non perda di vista gli obiettivi, ne corregge l’irruenza per evitare che
il giovane puledro scalpitante, che ha già la vittoria in tasca perché
corre senza avversari, non finisca per inciampare sulle proprie gambe
cadendo rovinosamente a un metro dal traguardo. I continui richiami di
Alesina, Giavazzi e Stella a ‘fare di più’ in direzione neoliberista,
l’editoriale di fuoco di Ferruccio de Bortoli del 24 settembre,
scritto appena Renzi ha aperto lo scontro sull’articolo 18 – un
gioiellino di semantica, una via di mezzo tra l’avvertimento in codice
(il vago richiamo allo “stantio odore di massoneria” del Patto del
Nazareno, gli auguri “di farcela e di correggere in corsa i propri
errori”) e un consiglio che non si può rifiutare (l’invito alla
“saggezza negoziale”: la prepotenza va bene con i sindacati, ma con la
minoranza Pd occorre dialogare, per non rischiare di andare a sbattere
in Parlamento e vanificare l’intero progetto politico) – non sono
affatto una critica a Renzi, ma una spinta e un sostegno alla sua
azione.
C’è poi all’interno della redazione la categoria
accademica, i professori che si fanno carico dei temi ‘alti’ e delle
analisi di largo respiro, come lo storico Ernesto Galli della Loggia. Il
suo editoriale del 20 novembre (3) è una sintetica riproposizione, con
altre parole –
più velate, la platea non è certo la Trilateral – della relazione di
Huntington. Il pezzo ha una duplice funzione, come tutti i commenti del
Corsera: inviare un messaggio allo spavaldo fiorentino, e arare il
terreno del consenso sociale per i cambiamenti che verranno.
Scrive
Galli della Loggia che in tutta Europa “si profila una crisi profonda
dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti. Improvvisamente
la democrazia si è trovata davanti un ospite inatteso: la povertà in
crescita. Mentre masse sempre più ampie appaiono ideologicamente allo
sbando, mentre si afferma dovunque e a ogni occasione un rabbioso
sentimento di rivolta contro le élite”. Un pericolo che non può essere
sottovalutato, che non rientrerà da solo, scrive il professore. Occorre
dunque chiedersi se non sia giunta “una nuova fase storica che per la
democrazia ha il valore di una sfida. Se non vorrà essere travolta,
infatti, essa dovrà trovare la forza e la capacità di rinnovarsi
profondamente”. È il momento di cambiare le regole della democrazia, di
“mettere in discussione i preconcetti dei quali si è fin qui nutrita e
sottrarsi alla deriva esasperatamente ‘discutidora’ che l’insidia in
permanenza […] vale a dire mettere da parte una prassi orientata alla
‘via di mezzo’, al ‘c’è sempre qualcosa per tutti’, e viceversa provare a
pensare la realtà in modo inedito e radicale (che vada alla radice
delle cose), organizzando in tal senso anche il meccanismo delle
decisioni: senza vietarsi ad esempio di immaginare pure regole e
istituti nuovi” e “riscoprire e riformulare il concetto di sovranità”. A
questo devono rispondere i “leader democratici”, incalza Galli del-la
Loggia, “quando sono veri leader, servono per l’appunto a una tale opera
di rifondazione”. Renzi è l’uomo, a patto che riesca a compiere “lo
scatto necessario per andare nella direzione auspicata”. Finora gli è
mancato, e il professore lo rimprovera come fosse uno scolaretto: ha
l’impressione che il giovane premier “fatichi molto a mettersi al di
sopra della baruffa quotidiana dei tweet, delle dichiarazioni, delle
schermaglie […]. La sua eloquenza – scoppiettante quando si trattava di
mettere nell’angolo gli avversari da ‘rottamare’ – non si è mostrata
finora capace di trovare i toni di drammatica verità e di serietà che
sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese; e
quindi di trasmettergli quella scossa anche emotiva senza la quale esso
non potrà mai rimettersi in piedi. L’ispirazione che anima Renzi è
volata finora troppo bassa, ha avuto una voce troppo tenue, per dare
vita a una visione del destino della nazione e della società italiana
che preluda davvero alla loro rinascita entro una rinnovata forma
democratica”. La chiusura del pezzo riprende la formula costante degli
editoriali del Corsera, inaugurata da De Bortoli, il messaggio
sibillino: “Almeno finora è andata così. Intanto però il tempo passa.
Pian piano le grandi speranze si consumano. E tra poco, inevitabilmente,
esse si sentiranno tradite: per un uomo politico non c’è quasi nulla di
peggio”.
Il pensiero
politico di Galli della Loggia è talmente sovrapponibile all’analisi di
Huntington, da rendere fin superfluo un commento a margine. La povertà
prodotta dal sistema economico capitalistico rischia di far esplodere un
serio conflitto sociale dal basso verso l’alto, e le risposte parziali
con cui fino a oggi il sistema democratico è riuscito a contenerlo non
sono più sufficienti; è giunto il momento per l’Italia di porre un freno
alla democrazia, renderla ‘governabile’. I tempi sono
favorevoli. La crisi economica crea quella percezione di emergenza che
compatta e genera consenso nei cittadini, ma Renzi, che può farlo perché
ha le caratteristiche del ‘presidente forte’, deve trovare i giusti
toni drammatici per trasmettere la narrazione e trascinare con sé il
Paese verso il cambiamento.
Una riscrittura delle regole democratiche che superi la restrizione
dello spazio elettivo già avvenuta con le Province e le Città
metropolitane (4), che vada oltre una legge elettorale che escluda dal
Parlamento la frammentazione partitica, e una riforma costituzionale che
elimini le lungaggini del bicameralismo perfetto; cambiamenti
che il pensiero unico ha già fatto assimilare al cittadino. In ballo c’è
la gestione del conflitto sociale, quello che la Cgil sta portando
nelle piazze e quello, decisamente meno governabile, che i centri
sociali stanno scatenando, partendo dal diritto alla casa. E c’è anche
il Movimento 5 stelle, ancora potenzialmente un problema, perché esogeno
al sistema, per quanto Grillo si stia dando un gran daffare per
annientarlo dall’interno. Una situazione che se dovesse trovare
referenti politici – magari in un nuovo soggetto di sinistra, che al più
sarà socialdemocratico e di certo favorevole all’Unione europea, ma già
essere socialdemocratici oggi sarebbe percepito dai cittadini come una
rivoluzione – renderebbe più difficoltoso il processo ciclico che porta
automaticamente dall’aumento della partecipazione alla sua diminuzione.
L’astensione elettorale poi, che ha segnato il suo apice alle regionali
dell’Emilia Romagna con il 63%, non può essere automaticamente
identificata con quella quota di cittadini apatici indispensabile alla
governabilità, perché dato il fermento sociale nelle piazze, la dose
diffusa di contestazione all’autorità, nei posti di lavoro e nelle
periferie, non è affatto detto che il disimpegno verso il voto si
traduca anche in disimpegno verso altre forme di partecipazione. Renzi
ha immediatamente liquidato l’astensione come un problema secondario, e
avrebbe certamente ragione se le piazze fossero vuote – nemmeno
Huntington si sarebbe mai immaginato un dono di tale portata alla governabilità – ma non è così.
Ci aspettano tempi bui. Molto dipenderà dalla tenuta
delle proteste sociali, e dalle forme di repressione che saranno messe
in atto. Il problema, e la classe dirigente lo sa molto bene, è avere a
che fare con una massa di persone che non ha più nulla da perdere; solo
allora il conflitto si accende e diventa davvero pericoloso. Ed è quanto
sta accadendo, perché le politiche neoliberiste stanno impoverendo una
quantità sempre più grande di persone mentre arricchiscono una sempre
più ristretta élite, e annientano la capacità di sognare, sottraggono
qualsiasi idea di futuro a un’intera giovane generazione.
Il primo passo per trasformare una rabbiosa disperazione
in un progetto politico è la consapevolezza che deriva dalla cultura:
il problema della governabilità della democrazia non è dato dalla
mancanza di efficienza, dal pluralismo, dalle lungaggini
decisionali; nasce dall’incompatibilità tra capitalismo e democrazia. Il
primo muro da abbattere è quindi quello del pensiero unico, quel Truman
show che ruota intorno a ogni cittadino: finché non si sale sulla barca
e non si prende il largo, il cielo sembra reale e non di cartone.
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