domenica 14 dicembre 2014

I soldi ci sono… basta farli! Matteo Volpe




 
Troppo spesso si sente ripetere da politici e governi, per giustificare un taglio alla spesa pubblica, una riduzione dei fondi per scuola, sanità, e servizi, la solita frase, riproposta come una mantra dai media “non ci sono i soldi”. Questa è la scusa che viene accampata per giustificare tagli, privatizzazioni e misure di austerità. Quando poi bisogna finanziare una qualche riforma, si parla sempre di “trovare le coperture” ovvero ancora tagli e austerità che dovrebbero servire a permettere le “necessarie riforme”.
Ma, basta fermarsi un attimo a pensare e ci si accorge subito che le cose non stanno in questo modo e che evidentemente i conti non tornano. Infatti quando si tratta di finanziare una guerra (ovviamente chiamandola “missione di pace”) o di comprare un nuovo cacciabombardiere, quei soldi si trovano tranquillamente e non ci si pone nemmeno il problema delle “coperture”. Non abbiamo sentito da nessun politico dire, ad esempio, che non si potesse partecipare alle guerre in Iraq o in Afghanistan o in Kosovo perché troppo costose. Allo stesso modo ogni anno il nostro paese paga miliardi di euro per gli interessi sul debito per far felici ricchi investitori, che è molto più di quanto possa spendere in sanità o istruzione. Evidentemente qualcosa non quadra. La frase “non ci sono i soldi” è semplicemente un non-sense linguistico, un’espressione priva di senso compiuto.
Cerchiamo di capire perché. Poniamoci innanzitutto questa domanda: da dove provengono i soldi che lo stato usa per pagare gli stipendi o per finanziare le opere e i servizi necessari? Molti risponderebbero “dalle tasse”. Ma se fosse davvero così ci ritroveremmo in un circolo vizioso, poiché se per le sue spese lo Stato deve reperire i soldi con le tasse, chi paga le tasse da dove prende i soldi? Evidentemente la risposta non
può che essere una sola: dallo Stato. Dunque le tasse non servono per finanziare le sue spese. È vero piuttosto il contrario: è la spesa dello Stato che permette ai cittadini di pagare le tasse. Se prima lo Stato non spende, gli è impossibile prelevare i tributi.
Ma allora, qualcuno si chiederà, se non dalle tasse, da dove si reperiscono i soldi? La domanda non ha alcuna risposta poiché non si “prendono” da nessuna parte, semplicemente si “fanno”. Fine della storia. Potrebbe sembrare assurdo, ma se ci si pensa bene non può che essere altrimenti. Infatti deve pur esserci una fonte primaria della moneta, che non prenda la moneta da altri soggetti, ma che la crei dal nulla. Per forza di cose. E quale può essere questa fonte? Naturalmente lo Stato. O per lo
meno è così nella maggior parte dei paesi, fanno eccezione le nazioni dell’euro, ma di questo ci occuperemo in seguito. Per ora consideriamo gli Stati che emettono essi stessi la propria moneta, attraverso la propria Banca Centrale. Ebbene, come fanno questi Stati a effettuare un pagamento?
Dato che sono essi a “fare” i soldi, gli basta molto semplicemente accreditare i conti dei loro debitori, e il gioco è fatto. Nulla di più semplice. Come fanno gli Stati a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici? Li pagano e basta. Accreditano i loro conti correnti. Digitano dei numerini su un computer. Se prima sul conto corrente dell’interessato c’era scritto “0”, un secondo dopo ci sarà scritto “1000”. Da dove si prendono questi numerini? Da nessuna parte! Sono impulsi elettronici di un server. “Ma allora” si obietterà “sarebbe possibile pagare qualsiasi cifra a chiunque e saremmo tutti ricchi”. Be’, le cose ovviamente non stanno esattamente così. Non possiamo prendere un elicottero e distribuire soldi a vagonate dal cielo. Se lo facessimo avremmo una sovrabbondanza di moneta rispetto alle merci, e quindi iperinflazione, cioè un aumento eccessivo dei prezzi che si “mangerebbe” tutta la moneta in più accumulata. Come si fa allora a emettere monete senza
generare iperinflazione? Bisogna far sì che a crescere non sia soltanto la moneta circolante, ma anche le merci, cioè i beni e i servizi prodotti nel complesso da una società. E come si ottiene questo risultato? La risposta ce l’abbiamo già sotto il naso. A cosa servono infatti soldi? Non servono forse a pagare un lavoro, quindi non retribuiscono forse qualcuno in cambio di un bene? E dunque, basterà chiedere alle persone di produrre qualcosa (cosa, starà alle politiche pubbliche deciderlo) assicurando che esse per questo servigio reso alla comunità riceveranno un “premio”, cioè del denaro. Ed ecco che le persone cominceranno a produrre beni e servizi e il PIL (cioè la ricchezza complessiva di una nazione) aumenterà. In questa maniera non sarà solo il denaro ad
essere cresciuto, ma anche il prodotto; purché un lavoro sia produttivo, cioè produca beni e servizi richiesti dalla società, mettendo su una bilancia il denaro complessivo da una parte e beni complessivi prodotti dall’altra, i due piatti resteranno in equilibrio. In altre parole, lo Stato può emettere tutta la moneta che vuole, a patto che essa vada a retribuire attività produttive, cioè tutte quelle utili alla società (dalle industrie automobilistiche alle cure mediche, dai panifici alle agenzie di viaggi e così via). In effetti la moneta di per sé non ha alcun valore. Se diamo un miliardo di euro a un uomo nel deserto, che cosa ci potrebbe mai fare? Lo scambierebbe molto volentieri con un bicchiere d’acqua. I soldi sono soltanto la misura dei prodotti che ci è permesso di avere. Quindi dei “segni” non delle “cose”.
Ora siamo in grado di capire che lo Stato è perfettamente in grado di finanziare sanità, istruzione, servizi, trasporti, opere pubbliche e qualsiasi attività produttrice di reddito e chi dice “non ci sono i soldi” sta mentendo. Bisogna però fare una precisazione. Nel caso dell’euro infatti la questione è più complessa. L’euro è una moneta emessa da una Banca Centrale di nessuno Stato, e quindi gli Stati che hanno deciso di adottarla non hanno alcun potere su di essa. Per finanziare la propria spesa devono chiedere in prestito questa moneta alle banche private, perché non è concesso alla Banca Centrale Europea di
dare soldi direttamente agli Stati. Di conseguenza, questi Stati non possono spendere senza limiti, dovendo poi restituire questa cifra più gli interessi ai loro prestatori, in quanto hanno deciso di privarsi della facoltà di emettere moneta. Non solo. Ma essi hanno sottoscritto un trattato noto come “Patto di Stabilità” che pone un tetto massimo al passivo dei loro bilanci. Questo tetto è il 3% del PIL. Cioè le uscite degli Stati aderenti non possono superare le entrate di oltre il 3% del PIL. Ciò limita ulteriormente le possibilità di spesa e quindi si è costretti realmente, in questo caso, a trovare “coperture”, cioè a togliere soldi da una parte e metterli da un’altra, come fosse il famoso gioco
delle tre carte. Con l’euro realmente “non ci sono i soldi” ma non perché questa sia una condizione strutturale e irrinunciabile dell’economia, ma soltanto perché gli Stati hanno scelto di privarsi della facoltà di battere moneta. Nel momento in cui decidessero di riprendersi questa facoltà, coniando una propria valuta e rinunciando ai vincoli di bilancio dei trattati, riacquisterebbero la possibilità di finanziare qualsiasi spesa di pubblica utilità.
“Ma come mai, allora” viene spontaneo chiedersi, “i governi hanno deciso di privarsi di questo potere e di entrare nell’euro?” Per capirlo basta comprendere quali interessi abbiano deciso di servire quei governi. Se uno Stato non può creare moneta per finanziare i beni e i servizi utili ai sui cittadini, cosa sarà costretto a fare? A svendere quei beni e servizi, in modo tale che gli speculatori possano accaparrarseli per fare ingenti profitti, oppure permettere a questi stessi speculatori di acquisire le aziende che sono in crisi a causa della mancanza di moneta. Pare, da fonte attendibile, che Jacques Attali, uno dei fautori della moneta unica, abbia detto “non è colpa nostra [delle élite pro-euro] se i popoli credono che l’euro sia stato fatto per la loro felicità”.

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