Ormai è rimasta soltanto la Germania. Dopo il risultato
spagnolo, il quadro appare ormai quasi completo: le “grandi famiglie
politiche” del dopoguerra si vanno sciogliendo. Quelle che che hanno
dato vita all'Unione Europea e ora ne vengono travolte.
Liberali, popolari, socialisti o
socialdemocratici, nelle varie versioni nazionali, non costituiscono
più una rappresentanza politica credibile agli occhi delle rispettive
popolazioni. Quanti avevano gioito della scomparsa dei “comunisti” dopo il 1989 – sul piano elettorale, quindi come radicamento sociale diffuso – si vanno scoprendo ora esattamente nella stessa condizione. Vengono accompagnati a passi rapidi fuori dalla Storia.
Inutile ormai star qui a
disquisire se quei partiti “comunisti” fossero o no depositari
autentici, e in che misura, dei valori originari del movimento operaio.
Così come è inutile chiedersi oggi se i
popolari di Rajoy-Sarkozy-Merkel o i socialisti di
Sanchez-Hollande-Schultz abbiano qualche parentela ideale minima con i
loro padri spirituali di 30 0 70 anni fa.
Tutti i paesi dell'Unione
Europea sono infatti percorsi dalla stessa febbrile crisi politica, che
segue – com'era ovvio che fosse – la crisi economica
e finanziaria globale, lo svuotamento di potere dei parlamenti e dei
governi nazionali, la dimostrata incoerenza tra meccanismi di
identificazione ideologica o valoriale e concrete pratiche di governo.
Una crisi politica che tende ad
azzerare ovunque i “vecchi partiti” perché questi sono ormai sentiti e
visti come bande di potere pronte a tutto
pur di restare in sella, privati come sono di qualsiasi influenza sulle
scelte macroeconomiche e dunque sulle politiche sociali.
“Casta”, si è detto in Italia. E
in effetti la classe politica selezionata dalla democrazia parlamentare
è sempre stata qualcosa di molto vicino a questa definizione. Il dato
nuovo è che “la politica” non è più un luogo di compensazione tra
interessi sociali (quindi economici) diversi o addirittura contrapposti.
Quindi non vengono più selezionati “statisti” (figure in grado di
coniugare la complessità dei diversi interessi
in una visione di lungo periodo e in politiche conseguenti), ma
semplici affabulatori. Quindi la “necessità della politica”, e dei
relativi “professionisti”, viene meno. Basta un impresario dello
spettacolo o un attorucolo da telequiz per coprire il ruolo...
Con l'Unione Europea e la
centralizzazione sovranazionale delle decisioni politiche – ridotte a
semplice esecuzione di “pratiche economiche” considerate
pregiudizialmente “ottimali” - nessun governo nazionale ha più alcuna
possibilità di esprimere la combinazione di
interessi sociali che lo ha fatto eleggere, qualunque essa sia. C'è un
interesse superiore – quello del capitale multinazionale, in primo luogo
finanziario – che sovradetermina, distrugge, subordina gli spazi di
autonomia decisionale di chiunque.
L'esperienza greca del 2015, con
la drammatica svolta del 13 luglio e la nascita di una Syriza 2.0
completamente addomesticata, sta lì a confermare la battuta tagliente di
Wolfgang Schaeuble durante una riunione dell'Eurogruppo (istituzione non prevista da nessun trattato, ma dotata di poteri quasi assoluti): “siamo un'Unione a 28 paesi, ci sono elezioni quasi ogni mese, non possiamo assolutamente permettere che un’elezione cambi le cose”.
Quindi, di fatto e nella
percezione comune delle popolazioni, non ha più senso star lì a
distinguere tra un partito o l'altro, tra una “grande famiglia politica”
e l'altra, per lo meno tra
quelli che iscrivono il proprio orizzonte all'interno dell'Unione
Europea (che è un'istituzione quasi-statuale, non “l'Europa”).
Il
discrimine politico vero è diventato infatti un altro: vuoi continuare ad andare avanti dentro questa gabbia costruita per impoverirti oppure vuoi romperla?
La crescita inarrestabile dei
“movimenti anticasta”, dei "populismi" dall'ideologia confusa, con
caratteristiche sociali e ideologiche anche molti diverse ma
complessivamente dilettantesche, ha questa ragione profonda e
incomprimibile. Appena sussurrata in alcuni casi, apertamente
esplicitata in altri. Una crescita che in alcuni casi dà spazio a vecchi
marpioni che sanno fiutare il vento (come i lepenisti in Francia o
l'impresentabile Salvini in Italia), ma che quasi ovunque ha fatto emergere risposte realmente “nuove” e assolutamente incasinate.
Un solo paese sembra ancora resistere a questo cambio di pelle della tradizione
politica. Non a caso è la Germania, il paese-guida che più ha
guadagnato dall'unificazione del mercato e dalle regole imposte con
mortifera sapienza (e accettate da altri paesi con imbarazzante
dilettantismo). Ma, anche lì, ad un prezzo che prima o poi dovrà essere
pagato: la grosse koalition,
ossia la sostanziale unificazione operativa delle due principali
famiglie tradizionali (democristiani e scialdemocratici), che per un
verso rappresenta la fusione tra gli interessi del capitale
multinazionale e dell'aristocrazia operaia ad alta qualifica e salario,
per un altro restringe il campo degli interessi rappresentati a un
“blocco sociale” che sta diventando rapidamente minoritario anche a
Berlino (la generazione nata sotto le “riforme Hartz” è fuori da questo
patto sociale, e si va fisiologicamente ingrossando con passare degli
anni).
Cosa significa tutto questo per
la lotta politica nel Vecchio Continente? In primo luogo che non esiste
più una contrapposizione credibile tra “progressisti” e “conservatori”,
se non nel campo – residuale e socialmente poco rilevante – di alcuni
diritti civili. La faglia che si va allargando è tra i soggetti sociali
che si riconoscono – perché “ci guadagnano” - nel percorso reazionario
dell'Unione Europea e quelli che guardano alla sua rottura come
precondizione indispensabile per ritrovare una possibilità di scegliere finalità e obiettivi, anche diversi.
Anche in questo caso,
ovviamente, ci sono suggestioni fortemente reazionarie (revansciste,
xenofobe, fasciste, ecc) come prospettive decisamente liberatorie,
solidaristiche e “rivoluzionarie” su basi di classe. Ma non ci sono
alternative all'unirsi per lottare, al mettere insieme il “nostro blocco
sociale” in un percorso conflittuale di lungo periodo.
Ci vediamo in piazza il 16 gennaio.
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