Contributo in vista del seminario Crisi, euro, Italia, Europa
che si terrà sabato 31 gennaio a Roma presso il centro congressi Cavour
(via Cavour 50/a) a partire dalle ore 10 organizzato dal Partito della
Rifondazione Comunista
La Lega cerca – con preoccupante
successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di
populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente
lepenista. Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo
stesso, straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche
oscurandone l’imprinting radicalmente anti-liberista. Anche il M5S
cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo
come distintivo identitario la pura e semplice propagandistica, uscita
dall’euro (il referendum).
L’agognato ritorno alla moneta
nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti
espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o
per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire
nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei
capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali. Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e
reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla
crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi,
per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi comunisti nel congresso abbiamo
detto: “disobbediamo ai trattati!”, facciamo leva sulle contraddizioni
del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottraiamoci al ricatto del
moderno “mago di Oz”, di un’Unione europea che gioca con carte truccate.
Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro
ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche
di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto
di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere
risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto,
col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola,
non si traduce in una politica e in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non
seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di
coccio fra vasi di ferro.
L’analisi
da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica
razionale ed efficace non può accontentarsi di una critica rivolta al
liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non
avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico
perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli
spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di
costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo
qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio
economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria capace di
mutarne l’indirizzo di fondo.
Il fatto è che l’Unione europea è prima
di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di
un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario:
l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che
trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio
funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere
dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si
configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo
continentale (a egemonia tedesca) alla caduta del saggio di profitto e
la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione
reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti
capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di
liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i
salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di
aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo
di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal
lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la
composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale
hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli
investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e
propria ristrutturazione della formazione economico-sociale
capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura
economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di
proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed
elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
- il modello di accumulazione: attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo;
- i rapporti di proprietà:
attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione
integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri
della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
- la superstruttura politica e giuridica:
attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della
democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il
potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in
funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente
presidenziale;
- la superstruttura culturale e ideologica:
sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella
coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la
concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale
classica.
L’Europa odierna è dunque tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più
grande, quello europeo, sia il modo migliore per collocare
controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando
consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia
politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si
deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti.
Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio
attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un
nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa,
considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante
trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle
multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali il
potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito –
di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni
nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area
valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta
unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora”
le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore
nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in
politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il
mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle
esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea?
Per due motivi: perché diminuire il
salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord,
significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la
generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale
ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è
una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale
ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del
nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente
smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole
per la lotta di classe.
L’Europa è oggi un meccanismo
non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il
solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la
lettera a firma congiunta con cui alla fine del 2011 Draghi e Trichet
intimavano all’Italia di mettere mano a pensioni, salari, diritti del
lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario
Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il
documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso
concetto, con un “taglio”, per così dire, più sistemico, dove ad essere
messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di
socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il
compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente
interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla situazione della Grecia
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le
ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali
inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione.
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è
aumentata di 8 punti percentuali rispetto al pil e la spesa pubblica è
diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12
punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di
14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti.
La Commissione europea ha sempre
sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le
sue previsioni sull’andamento del pil greco sono state totalmente
smentite: per il 2011 la Commissione previde un pil stazionario, che in
realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita
di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013
la previsione fu di crescita zero, e invece il pil greco precipitò di
altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.
La verità, che ormai riconoscono a
denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika
rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della
conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia:
negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano
stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un
esplosione del rapporto fra debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni
di 30 punti percentuali.
“Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio
– stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la
loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite
offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che
– se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto
ai minimi termini il Pasok di Papandreu.”
Il rigetto di una parte del debito
accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema,
tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il
ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare
le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo
governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per
tornare a stampare moneta nazionale.
Ora, il Qe varato dalla Bce è stato
rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale
scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca
tedesca.
La Banca centrale si è sì decisa – sia
pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più
cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare
moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato
che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno – a differenza di
quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato
primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del
Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato
secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro
– dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato
sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché
acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun
effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a
peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in
prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole
imprese, ma rimase nelle banche”.
“Ad avvantaggiarsene – continua Moro
– furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i
finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato.
Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della
crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita
degli utili. Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di
fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta
la svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a
livello europeo? Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più,
con sollievo della Germania. In terzo luogo, gli acquisti verranno
effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli Stati
nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote
di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania,
che paga già interessi reali già negativi sul suo debito, verrà
“beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che
paga alti tassi d’interesse”.
“Dunque – conclude Moro
– l’obiettivo di Draghi non è quello di rilanciare il Pil, cioè la
produzione, e l’occupazione, ma di tenere alti i profitti delle banche e
delle grandi imprese soprattutto multinazionali.
Il Qe ha come obiettivo il contrasto
alla deflazione, perché questa riduce i profitti o ne inibisce
l’aumento, in quanto il calo dei prezzi erode i margini operativi delle
imprese. Una inflazione troppo forte beneficia i debitori rispetto ai
creditori e questo è eresia in un ambiente capitalistico, soprattutto
per le banche. Ma l’inflazione troppo bassa o peggio la deflazione
erodono i profitti. Inoltre, il Qe ha già cominciato a svalutare l’euro
rispetto al dollaro e altre valute, facilitando le esportazioni che sono
pressoché di esclusiva pertinenza delle imprese di grandi dimensioni e
multinazionali”.
Si tratta di segni piuttosto
evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno
che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e,
ancora, che la diga eretta per scongiurare il cedimento rischia di
rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre
incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è arduo prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
Allora, tornando al tema iniziale, attenzione a spiegare che se si mette in discussione l’euro significa essere anti-europei;
attenzione a dire che la rivendicazione
della sovranità popolare (che, non dimentichiamolo, sta scritta
nell’articolo 1 della Costituzione) significa, “necessariamente”,
portare acqua ai nazionalismi xenofobi e fascistoidi;
attenzione a dire che chi vuole fare
saltare questo ingranaggio infernale non fa che “lavorare per il re di
Prussia”, altrimenti si corre il rischio che qualcuno il re di Prussia
lo invochi davvero e magari che lo scontro si concluda non con una
restaurazione della democrazia ma proprio con l’avvento dei populismi
reazionari.
Del resto, non ci sono evidenze
empiriche – come ci spiegano Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini –
che l’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione delle proporzioni
che si paventano e, soprattutto, che lo scenario sarebbe in quel caso
peggiore della drammatica deriva in corso.
Lo dico perché il “diavolo” capitalista
fa le pentole, ma non sempre riesce a trovare i coperchi e fra non
molto, potremmo trovarci di fronte alla caduta dell’euro
per…autocombustione…, cioè per autonoma decisione del potere
finanziario, una volta condotti a termine lo sventramento del welfare,
il processo di privatizzazione integrale, la riduzione a simulacro della
democrazia rappresentativa, l’annichilimento del potere di contrasto
del soggetto lavoro.
Il punto, allora, è cosa fare per
impedire che si intraprenda questa strada, proprio per l’incapacità
delle classi dominanti di perseguire una rotta diversa.
Allora tocca a noi dire in modo chiaro che all’uscita dall’euro dovrà corrispondere una nuova politica economica e sociale:
- proteggendo i salari attraverso un rilancio delle lotte e del ruolo contrattuale dei sindacati;
- reintegrando i diritti del lavoro espropriati dalla crociata anti-operaia in corso;
- rilanciando l’indicizzazione delle retribuzioni al costo della vita;
- ricostruendo un regime previdenziale che così com’è precluderà il diritto alla pensione a due generazioni di italiani;
- riducendo su scala nazionale e in tutti i settori l’orario di lavoro;
- varando nuove politiche fiscali che restituiscano progressività all’imposta sul reddito e prevedendo una tassa strutturale sui grandi patrimoni;
- ponendo un tetto alle retribuzioni e alle pensioni;
- nazionalizzando le banche e i principali asset industriali a partire dalla siderurgia;
- ridefinendo le regole che disciplinano gli scambi commerciali e i movimenti di capitale.
Si tratta insomma di costruire le
premesse per un’uscita da sinistra dalla crisi e riscattare l’Europa dal
giogo della finanza e dei proprietari universali che stanno succhiando
il sangue dei popoli.
Certo, per fare queste cose occorrono
altri rapporti di forza, e si può a buon titolo obiettare che siamo
lontani dalla capacità di mettere in campo una forza d’urto quale
sarebbe necessaria, ma con questa piattaforma potremo rivolgerci sul
serio ai proletari di questo paese e alle forze intellettuali non
compromesse con la vulgata corrente, usando argomenti, parole,
programmi, proposte che nessun altro può, sa, vuole utilizzare. Proposte
che abbiano in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di
una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non
corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo
liberista.
Ne abbiamo la forza? Nella situazione presente, no. Ma avere una linea chiara oppure non averla non è la stessa cosa.
Del resto, una posizione attendista produrrebbe tre effetti massimamente negativi:
a)consegnerebbe la
protesta contro l’austerity alla demagogia parafascista di Matteo
Salvini, consentendo alla destra più reazionaria di riscuotere la
rappresentanza di ampi strati popolari e di ridurre la dialettica
politica italiana ad un duello fra la “nuova” Lega in versione lepenista
e il partito democratico organico al liberismo europeo;
b) genererebbe, di
fronte ad una deflagrazione dell’euro, la peggiore delle condizioni,
perché il ritorno alla moneta nazionale – senza adeguate contromisure –
rovescerebbe sui lavoratori, sui disoccupati, sugli strati più deboli
della popolazione uno tsunami sociale di proporzioni devastanti;
c) contribuirebbe
all’isolamento della Grecia di Syriza, che invece di schiudere le porte
di un’altra Europa si ritroverebbe sola, stritolata fra le ganasce della
tenaglia dei poteri forti europei.
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