di Angelo D'Orsi
Come l’11 settembre 2001 newyorchese, così il 7 gennaio 2015 parigino
ha suscitato, accanto e quasi in contemporanea al raccapriccio
e all’orrore, le perplessità, i dubbi. E gli interrogativi sono
così affiorati, col trascorrere delle ore. Ma il fatto è accaduto,
e l’esecrazione è d’obbligo, e giusta.
E, come si poteva prevedere, la risposta c’è stata,
anche se ha non solo complicato le cose, ma non è escluso che abbia
aggravato il bilancio delle vittime; mentre non v’è dubbio che ha
acuito la paura e l’odio, a dispetto dei cartelli innalzati nella
prima manifestazione spontanea già della sera del 7 genaio scorso,
della quale sono stato testimone diretto, a Place de la République,
che proponevano matite piuttosto che mitra, amore invece di odio,
tolleranza invece di discriminazione, accoglienza in luogo di
rifiuto.
Ma queste erano le belle e se si vuole ingenue richieste dal basso:
ancora una volta le classi dirigenti – politici e intellettuali –
si sono rivelate al di sotto del sentimento delle popolazioni. E in
Italia, mi pare, in modo più pesante che in Francia, che pure è la
prima vittima degli eventi di questi giorni da cane.
Era ovvio che la destra si sarebbe scatenata, e in
un paese dove il lepenismo è diventato la prima forza politica, era
il minimo sentire l’appello della leader alla reistituzione della
pena capitale, ma con un certo bon ton la signora si è limitata
a proporre un referendum consultivo. Mentre il suo amico e sodale
italiano, il Salvini, che ormai ha la leadership della destra
nostrana, ha raggiunto nuovi vertici parlando del nemico in mezzo
a noi, che abita sul nostro stesso pianerottolo ed è "pronto
a sgozzarci". La premessa teologica è che non vi sono distinzioni
né differenziazioni possibili: l’Islam "non è una religione come
le altre". E ad essa si deve rispondere, dunque, con mezzi adeguati:
la forza. Magari bruciando il Corano?
Non si pensi che l’estremismo becero di questo rozzo bestione
(uso la nobile espressione di Giambattista Vico, non si offenda il
Matteo "lumbard"), sia mero folclore leghistico. Si sfogli la
stampa nazionale: lascio stare fogli come Il Giornale, Libero, e anche
giornali locali come Il Tempo e la galassia del Quotidiano
Nazionale, perché vi si trova ciò che ci si attende.
Mi soffermo invece niente meno sul Corriere della Sera, il "più autorevole" giornale italiano.
Da tempo questa imponente macchina volta alla costruzione del senso comune
sta indirizzando la pubblica opinione verso l’idea di una
inevitabilità ma anche di una necessità della guerra "contro il
Terrore", con i suoi Panebianco e Galli della Loggia, ed altri
minori, fino ad Antonio Polito, il cui editoriale del 10 gennaio
a dir poco fa cascare le braccia.
Se la prende con il Parlamento che era a ranghi
ridotti quando il ministro Alfano proferiva le solite vuote parole.
E Polito accusa: "È lo stesso Parlamento che, rinunciando agli F35,
sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aeronavale nel Paese che
è geograficamente una portaerei nel Mediterraneo" . Ma di che
anno è questo giornale, si chiederebbe un lettore distratto? 1935?
Ma l’editorialista continua, e il bersaglio diventa — come non
aspettarselo? — "un’intellettualità diffusa", "colta", deve
ammettere, ma "faziosa", nella quale "pullulano"… chi?
"Antiamericani" e "filorussi". Di nuovo, l’effetto di
spiazzamento: siamo negli anni Cinquanta?
Ma arriva al top, quando lamenta che non abbiamo da noi un Houellebecq,
sincero nemico dell’Islam, e nessuno abbia perso il posto della
Oriana Fallaci, che sulla medesima prima pagina del quotidiano
milanese, viene evocata con la ri-pubblicazione di una intervista
del 1970. Quali colpe, dunque, hanno gli intellettuali "faziosi"
(ossia di sinistra), secondo Polito? Ecco: "sono molto più a loro agio
con l’appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la
retorica del dialogo che con quella dello scontro di civiltà. Sanno
apprezzare un ‘ritiro’ e deprecare una battaglia".
Non c’è che dire: con il richiamo all’inevitabile Huntington,
il quadro è completo. Siamo alla chiamata alle armi. Una vecchia
storia per il giornale di Via Solferino. Nel 1911 con la Libia, nel
1915 con la Grande guerra, nel 1935 con l’Etiopia, nel 1936 con la
Spagna, nel 1940 con il Secondo conflitto mondiale, è sempre il
dannunziano maggio radioso. Una bella crociata, come ai vecchi
tempi, insomma: la croce che diventa spada.
Ma possibile che Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, e via enumerando, non insegnino nulla?
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