di Alfonso Gianni
La "misteriosa" vicenda dell’articolo 19 bis del decreto delegato in materia fiscale si attorciglia sempre più. Naturalmente
ognuno affonda le mani nella materia a modo suo. A quelli del
Movimento 5 stelle non pareva vero di avanzare l’ipotesi che Matteo
Renzi abbia fatto tutto questo per favorire Tiziano Renzi, il padre,
che come si sa qualche guaio finanziario ce l’ha. Ma non occorre
spingersi sul terreno più che scivoloso di supposti interessi di
famiglia in atti di governo.
Al di là della dietrologia spicciola, non c’è
dubbio che il comportamento del presidente del consiglio è stato
quantomeno strano. All’inizio pareva che nessuno sapesse nulla,
neppure in quel di Palazzo Chigi. I sospetti al massimo
raggiungevano qualche sottosegretario di solida e antica fede
berlusconiana, transitato per l’occasione in altri lidi per
occupare migliori posizioni di potere. Anzi, il governo pareva pronto
alla cancellazione immediata della norma. Poi Renzi ha fatto outing,
rovesciando il tavolo e attribuendosi la responsabilità piena
della furbata. Contemporaneamente, la riparazione prevista si
è allontanata nel tempo, ingenerando nuovi sospetti anziché fugarli
definitivamente.
Che dire di simili contorsionismi? A meno di
supporre squilibri comportamentali, il che non ci piace,
è naturale ricercare delle cause politiche. Non per nobilitare
l’atto, che resta pessimo, ma per trovarci una qualche logica. Se
guardiamo le cose dal punto di vista della politique politicienne
si può ben supporre che il famigerato patto del Nazareno non sia
estraneo alla vicenda. O forse i suoi ancor più segreti corollari.
Poiché non è credibile che lo sherpa estensore manuale della norma
non sapesse quali conseguenze la stessa avrebbe avuto sulle vicende
giudiziarie-politiche di Silvio Berlusconi. Nello stesso tempo,
l’assunzione di responsabilità pubblica di Matteo Renzi sembra
dire al sodale che lui l’impegno lo ha rispettato, al punto di
metterci impudicamente la faccia, ma le circostanze politiche
gli hanno impedito – almeno per ora – di andare fino in fondo.
Neanche a Berlusconi conviene più di tanto alzare la voce sull’argomento.
Il sasso è stato gettato, la manina ha un proprietario dichiarato,
il cerchio dello stagno si sta allargando. Il Patto così
è formalmente salvo e onorato, anche se la sua implementazione
incontra difficoltà e ostacoli che il tempo potrebbe però lenire.
Nello stesso tempo l’eventuale intesa – fosse anche di sola non
belligeranza — sull’elezione del capo dello stato è tutt’altro che
pregiudicata. Anzi un nuovo mattone si è aggiunto a fortificarla.
Se invece guardiamo l’intera vicenda dal punto di
vista della sostanza che la norma della «modica quantità tollerata»
di evasione fiscale ha investito, il quadro si fa assai più greve
e pericoloso. Tanto da fare impallidire, al confronto, il do ut des
tra Renzi e Berlusconi.
Quella "modica quantità" di evasione fiscale, che
la gelida manina del premier ha inserito nel provvedimento, è molto
più grave di tutti i condoni fiscali fin qui perpetrati dai vari
governi. Compreso l’ultimo, maldestramente mascherato, sul rientro
dei capitali. Poiché qui si tratta di scardinare uno dei principi
fondanti su cui si basa qualunque stato liberale: quello del no
taxation without representation. Anzi, quel principio viene
completamente rovesciato nel suo opposto, ovvero: representation
without taxation.
Se infatti la franchigia, ovvero l’esenzione dal pagamento delle tasse –
altro rovesciamento che qui viene effettuato – anziché essere
a tutela dei meno abbienti, viene apposta sulla quantità di
imponibile che viene evaso, siamo completamente fuori da
qualunque minimo sistema di giustizia e di efficienza fiscale. Se
poi tale modica quantità di evasione viene calcolata non in termini
assoluti ma percentuali, il famoso 3% come in questo caso,
l’effetto di ingiustizia si moltiplica ancora di più.
Più è alto l’imponibile fiscale, più è ricco il cittadino in questione,
maggiore diventa in termini reali la cosiddetta modica quantità di
evasione che gli è permessa. Il 3% vale di più per lui mentre più
grosso è lo sbrego alle maglie fiscali dello stato.
E’ su questo aspetto ben più grave che dovrebbe accentrarsi l’attenzione, e non solo sui retroscena politici.
Come si ricorderà, la fortuna del neoliberismo
partì dall’attacco al sistema fiscale. La curva di Laffer di
reaganiana memoria era questo. La stessa Forza Italia mosse in
primi passi da qui.
Chi non ricorda il famigerato libretto di Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti, le
cento tasse degli italiani esibito con orgoglio in ogni talk-show
televisivo? Era il 1986. Non tutto gli era finora riuscito. Ma con
Renzi l’opera si compie.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare.
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