Il re è nudo, si potrebbe dire. Non che sinora la situazione fosse indecifrabile. Ci voleva tutta la volontà di non vedere e di non intendere per nutrire ancora dubbi sulle intenzioni di Renzi. Oggi però è caduto anche l’ultimo velo.
Il travolgimento dei regolamenti parlamentari e dei principi costituzionali in occasione del voto sulla legge elettorale è stato plateale. Non per accidente o per errore: ostentare la forza e la volontà di farne uso oltre ogni limite è una scelta e un messaggio univoco a compagni di strada e avversari. La violenza colpisce su entrambi i piani. Nella forma delle norme procedurali violate, e nel contenuto della legge in discussione, peggio della legge-truffa, comparabile alla legge Acerbo.
Com’è stato scritto su queste pagine da Aldo Carra e Gianpasquale Santomassimo l’Italicum è il presupposto efficiente del sotterramento della forma parlamentare di governo e della sostanziale cancellazione della rappresentanza democratica. Non tanto per la questione delle preferenze agitata dalla fronda bersaniana, quanto per l’abnorme premio di maggioranza (e a cascata per il potere incontrastato di nomina e controllo sui massimi organi costituzionali di indirizzo e garanzia) destinato a una forza politica votata da non più di un quinto degli elettori.
È questa solo l’ultima delle violazioni compiute dal governo. Ripetiamo, nelle forme e nei contenuti. Si era verificato già in occasione dello scontro sulla cancellazione del Senato elettivo e ancora al momento della stretta sul Jobs Act che la volontà di imporsi stravolgesse regole e prassi procedurali. E sempre le scelte cruciali di questo governo — deciso a realizzare a ogni costo il proprio disegno eversivo per mezzo di un parlamento eletto con una legge incostituzionale — sono entrate in collisione coi principi della Costituzione. Ma oggi si registra effettivamente un salto di qualità, se non altro sul terreno dell’immediata operatività della legge in discussione. Se, com’è probabile, la legge elettorale scritta da Renzi e Berlusconi passerà, sarà poi matematico che a prendere qualsiasi decisione in questo paese sarà il padrone del partito che avrà vinto le elezioni. Senza dover discutere con altri, né tener conto di altrui interessi. Il che equivale a dire che il parlamento sarà appena una finzione da offrire in pasto a un’opinione pubblica priva di qualsiasi strumento cognitivo e critico.
Concordiamo con quanti ritengono fuorviante istituire con leggerezza analogie drammatizzanti, ma ci si deve pur chiedere che cosa resterà a quel punto della Costituzione e della stessa democrazia repubblicana. Occorre che se lo chiedano — intendiamo — quanti hanno a cuore la democrazia e la Repubblica, mentre è chiaro che nessun interrogativo agiterà coloro che pacificamente registrano il conclamato sostituirsi di una maggioranza di fatto a quella che l’anno scorso consentì sciaguratamente a Renzi di insediarsi a Palazzo Chigi. Certo, dopo la presidenza Napolitano sarebbe risibile appellarsi al presidente della Repubblica facente funzioni perché ristabilisca la legalità costituzionale nei rapporti tra parlamento e governo. Ma il vulnus resta e aggiunge confusione alla vergogna del trasformismo imperante.
Tutto è perduto dunque? Non resta che prendere atto dello stato di cose in attesa del peggio? Non ancora, e dirlo è necessario perché ciascuno si assuma sino in fondo le proprie responsabilità. In questo parlamento ci sarebbero ancora i numeri per impedire che i disegni dei due contraenti del Nazareno vadano in porto: perché deragli il treno dell’Italicum e risulti impossibile eleggere un presidente della Repubblica connivente con questo rivoltante mercimonio. I numeri ci sarebbero se alle opposizioni “naturali” del M5S, della Lega e di Sel si sommassero i voti delle minoranze interne di Forza Italia e del Pd, come sarebbe sacrosanto nel nome di un interesse superiore agli obiettivi particolari delle singole forze politiche.
Perché ciò accada occorrerebbe l’iniziativa di una di queste opposizioni ed evidentemente tale onere incombe sull’opposizione interna del partito di maggioranza relativa. Per diverse buone ragioni. Perché — come platealmente dimostra anche il caso Cofferati — la “sinistra” Pd è il soggetto politico pur variegato che più subisce l’impatto politico dell’operazione trasformistica imbastita da Renzi in antitesi con tutto ciò che il Pd era venuto dicendo nella campagna elettorale del 2013. Perché essa è la forza il cui passaggio all’opposizione avrebbe conseguenze decisive sull’intero quadro politico. Perché infine è dai gruppi parlamentari democratici di Camera e Senato, ivi comprese le pur recalcitranti (a parole) minoranze, che Renzi ha sin qui ricevuto il via libera a tutti i suoi misfatti. Non ci sono più alibi e non c’è più tempo da perdere. Le decisioni determinanti incalzano e non c’è più margine per furbeschi traccheggiamenti.
Da questo punto di vista è persino un bene che Renzi non abbia ceduto sulle preferenze, impedendo alle minoranze del suo partito di replicare il gioco sin qui giocato, di sventolare inconsistenti vittorie per giustificare rese incondizionate.
Non sappiamo se le ultime esternazioni dell’on. Bersani siano più patetiche o più avvilenti. Chiedersi ancora, dopo quanto è successo mercoledì in Senato, se Renzi sia per l’unità del partito non è un’imperdonabile ingenuità. È un vergognoso invito ad accordarsi nonostante tutto, come se il problema fossero le buone maniere tra maggiorenti (il «rispetto») e non le gravissime decisioni che il governo a guida democratica viene assumendo, sinora col beneplacito della cosiddetta sinistra interna. Ma a questo punto proseguire con queste sceneggiate non equivarrebbe più soltanto al suicidio politico della “sinistra” democratica. Sarebbe un avallo all’assassinio della democrazia costituzionale. La cui responsabilità non ricadrebbe — sia chiaro — sui suoi nemici dichiarati, legittimamente determinati a perseguire il proprio disegno, bensì su quanti siedono in parlamento essendosi assunti il compito di difenderla.
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