La Costituzione ci insegna a rispettare i compiti e
l’azione della Magistratura. Tuttavia, nella misura in cui
l’applicazione del diritto ha conseguenze e implicazioni di natura
sociale, l’esercizio della politica incrocia la possibilità della
critica.
In questo senso, gli ultimi sviluppi della vicenda
giudiziaria che riguarda gli stabilimenti Ilva di Taranto destano molte,
motivate preoccupazioni.
Partiamo da un presupposto: il diritto al lavoro e il
diritto alla salute non possono essere utilizzati uno contro l’altro.
Farlo denuncia una strumentalità inaccettabile, allude ad un tradimento
della civiltà giuridica del nostro Paese, della nostra Costituzione.
Non può esistere, non deve esistere, un diritto al
lavoro insalubre, dannoso e mortifero; e non può esistere, non deve
esistere, un diritto alla salute in nome del quale si desertifichi sul
piano sociale, industriale e produttivo un territorio e la sua comunità.
Se questo è il presupposto bisogna avere il coraggio
di dire che la sentenza del Riesame aveva raggiunto un punto di
equilibrio importante, da valorizzare. Perché esprimeva per la prima
volta un interesse dello Stato e dei suoi organi dopo decenni di totale,
criminosa irresponsabilità; e perché consentiva, nel sequestro con
“facoltà d’uso” e nel contesto di un obbligo al risanamento e
all’ammodernamento degli impianti, la non interruzione della produzione.
L’ordinanza del gip rompe questo equilibrio e decide di scaricare sulla
città di Taranto (non soltanto sui 12mila operai dell’Ilva, sugli 8mila
degli appalti e dell’indotto, sugli operai degli stabilimenti del Nord
dipendenti dal ciclo a caldo di Taranto) il prezzo di questa forzatura.
Con gli impianti spenti, con la produzione bloccata
non ci sarebbe più alcun equilibrio, perché verrebbe meno –
improvvisamente – l’oggetto stesso del diritto al lavoro. E tutto ciò
che si decidesse di fare in conseguenza di questo atto sarebbe
nient’altro che un tentativo imperfetto di recuperare stabilità
occupazionale in un contesto già pesantemente depresso e impoverito
dalle ataviche irresponsabilità e ignavia del capitalismo italiano
(tanto quello clientelare di Stato, quanto quello parassitario e di
rapina che si è avventato sulla carne viva dell’industria meridionale
dopo la stagione delle privatizzazioni).
Allora bisogna essere chiari. In primo luogo
ribadendo che diritto alla salute e diritto al lavoro devono marciare
insieme, senza sconnessioni. In secondo luogo affermando con nettezza
che il governo, le istituzioni pubbliche tutte, il presidente dell’Ilva
Bruno Ferrante (pur delegittimato pesantemente dal gip) devono imporre
che sia la proprietà a farsi carico dei costi di un risanamento tanto
imprescindibile quanto possibile, come dimostrano i modelli e le
esperienze recenti della Germania.
E che sia la proprietà e non un altro il soggetto che
deve assumersi l’onere della modernizzazione degli impianti non è un
fatto puramente giuridico. Ha a che fare anche con la sfera dell’etica e
con il principio della responsabilità, se è vero come è vero che la
famiglia Riva negli ultimi anni ha realizzato profitti d’oro e non può
esimersi dall’utilizzare questi utili per consentire finalmente – dopo
anni di vergognosa indifferenza – agli operai di conservare il lavoro e
agli operai e ai cittadini di vivere fuori dall’incubo della morte.
L’alternativa a questo (e cioè all’assunzione da
parte dell’impresa della propria responsabilità sociale) è una e una
sola, garantita dalla nostra Costituzione: l’esproprio dell’azienda e la
ri-nazionalizzazione dell’Ilva con lo Stato come protagonista diretto
di un grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti.
In terzo luogo, infine, bisogna affermare che non è
pensabile che un Paese come l’Italia sia privo di un grande polo
siderurgico. La sopravvivenza dell’Ilva è una necessità strategica
dell’Italia e della sua classe operaia, perché va scongiurato – su
questo i comunisti devono dire parole inequivocabili – il pericolo di
una desertificazione industriale del Paese, che è, come dimostrano la
politica aziendale della Fiat e la recente vicenda di Alcoa, l’obiettivo
a cui lavorano ormai scopertamente i maggiori gruppi imprenditoriali
italiani.
Cosa fare, allora, nell’immediato? Quello che stanno
facendo le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista e dei Giovani
Comunisti di Taranto. Quello che sta facendo la Fiom, che negli ultimi
mesi sta lottando nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini di
Taranto, indirizzando la rabbia e la protesta non contro la Magistratura
ma contro la proprietà e le pesanti responsabilità della famiglia Riva.
Salvaguardare il diritto al lavoro nell’ambito di una
visione strategica del comparto industriale nazionale (che deve vedere
al centro lo Stato e la sua capacità di pianificazione); esigere e
ottenere il diritto alla salute dentro la fabbrica e fuori dalla
fabbrica. Esigere ed ottenere la partecipazione diretta dei lavoratori
al piano di risanamento, di messa in sicurezza e di rilancio dell’Ilva.
Perché le competenze manuali ed intellettuali, tecniche e scientifiche
dei lavoratori dell’Ilva, a partire da quelle dei nostri compagni, sono
una ricchezza imprescindibile. I Giovani Comunisti sono al loro fianco.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua