Quello che
colpisce negativamente in questo dibattito aperto nel campo della sinistra alla
sinistra del Pd, giustamente infervoratosi dopo l’annuncio di un’intesa, pur
tra mille distinguo e precisazioni successive, tra Vendola e Bersani, è la
primazia data alla questione delle alleanze e alla legge elettorale, rispetto
alle grandi questioni di programma attorno alle quali si dovrebbe costruire
tanto un’ipotesi di governo di centrosinistra quanto quella della costruzione
di un’opposizione di sinistra a un eventuale esecutivo di grande coalizione in
salsa italiana. In entrambi i casi, ponendosi infatti come tra loro
alternativi, la scelta dovrebbe essere determinata in primo luogo dal cosa fare
rispetto al come e al con chi.
Qualche
attenuante c’è dal momento che vige un’incertezza di quadro politico e istituzionale
senza precedenti. A pochi mesi dal voto non si sa con quali regole del gioco la
competizione elettorale verrà tenuta. Ed è altresì evidente che la loro natura
deriva e allo stesso tempo condiziona le scelte alleantiste.
Ma queste scusanti possono valere solo fino a un certo punto. Il vero condizionamento è dato dal quadro europeo, il quale nella sostanza è già dato, assai di più che dal quadro politico e istituzionale interno ai singoli paesi. Il tema centrale delle prossime elezioni è come uscire dalla crisi economica e sociale più lunga e più grave nella storia del capitalismo europeo. Come uscirne senza un massacro sociale e avviando le basi per un nuovo modello di sviluppo che non riproponga all’infinito i meccanismi della riproduzione delle crisi, è precisamente il compito e il banco di prova di una moderna sinistra. Lo spartiacque è costituito dalla accettazione o dalla ridiscussione del fiscal compact che ha recentemente modificato in pejus il già pessimo trattato di Maastricht.
Lo dimostra la vicenda francese. Le elezioni in quel paese avevano ristabilito con sufficiente nettezza lo storico clivage fra destra e sinistra. Il programma iniziale di Hollande, incalzato peraltro dal Front de Gauche, conteneva degli obiettivi chiaramente di sinistra, come la tassazione sui ricchi o il complesso delle misure pro occupazione, fra cui la riduzione dell’orario di lavoro. La sua vittoria venne salutata come l’aprirsi di una speranza per la stessa modificazione del quadro delle politiche economiche in Europa. Tutto ciò è stato pregiudicato dalla accettazione pronta ed esplicita di Hollande delle nuove regole del fiscal compact. Le conseguenze sul piano interno non hanno tardato a farsi sentire, nei sondaggi Hollande perde cinque punti in un mese. Le riforme annunciate non partono. L’aliquota al 75% del prelievo fiscale sopra il milione di euro viene derubricata a misura straordinaria e transitoria. La corsa dei prezzi non viene fermata. Le prospettive occupazionali sono ulteriormente peggiorate, senza che si veda nessun concreto provvedimento. Hollande si allinea alla Merkel nel prendere a schiaffi il premier greco giunto a scongiurare un allungamento dei tempi per il rientro dal debito.
Non è qui importante discutere se Hollande faceva promesse da marinaio o agisce ora in uno stato di costrizione. Quello che è evidente è che l’accettazione del fiscal compact ha cassato ogni velleità riformista sul nascere. Torniamo in Italia e non è difficile convincersi che ciò che determinerà la natura del prossimo governo, al di là della composizione delle forze che lo sosterranno, è l’accettazione o meno del fiscal compact, recentemente votato nel Parlamento italiano e rafforzato dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, che comporta per venti anni una riduzione del 3% del bilancio ogni anno. E’ una gabbia che costringe qualsiasi governo a perpetuare una politica di rigore per un intero ventennio, inibendo alla radice ogni prospettiva di trasformazione economica, produttiva e sociale, comprimendo la democrazia a ogni livello – articolo 18 e annessi lo dimostrano – della vita civile e sociale.
Non è Casini a chiederlo. E’ la stessa carta di intenti del Pd che considera inviolabili gli accordi internazionali già presi. Tale condizione va rimossa e rovesciata nella richiesta di un impegno alla ridiscussione complessiva dei trattati. Altrimenti il centrosinistra non si può fare perché in una simile coalizione la sinistra non avrebbe voce su un punto essenziale e sarebbe costretta a tacere anche dopo, essendo vincolata dall’esito delle primarie.
Da questo punto di vista è inessenziale se l’apertura a Casini avviene prima o dopo l’esito elettorale. Ma certo non può essere venduta come una vittoria il fatto che essa sia prevista solo per il dopo.Nella sua recente intervista a Repubblica Bersani dichiara la propria intenzione di costruire “un’alleanza di legislatura” chiusa a sinistra e invece aperta “alle forze liberali e moderate”. Il confronto per la definizione del programma parte già con il condizionamento di dovere tenere aperta una simile prospettiva. Le manovre sulla riforma elettorale seguono di conseguenza, con il rilevante vincolo di dovere tenere conto delle strategie di Berlusconi. Il combinato disposto può spingere ad una situazione in cui torna a scattare il ricatto del voto utile e l’esito può diventare quello della formazione di una lista comune attorno al Pd. Ma tale prospettiva sarebbe la certificazione del fallimento del progetto della ricostruzione di una forza di sinistra quale soggetto politicamente autonomo.
Quest’ultimo è il disegno fondativo di Sel, che non può essere vincolato alla partecipazione a una coalizione elettorale. E’ logico quindi che sia soprattutto questa formazione politica a trovarsi in uno stato di tensione di fronte alle scelte imminenti. E’ bene che il dibattito si apra senza infingimenti e che altre ipotesi di collocazione politica e elettorale non siano porte giudizialmente escluse. Certamente pesa lo spauracchio dell’esito meschino della Sinistra Arcobaleno. Ma allora la sinistra radicale usciva con le ossa rotte da un’esperienza di governo rivelatasi fallimentare (anche perché l’esito elettorale del 2006 fu un sostanziale pareggio) e con una accresciuta difficoltà di rapporto con i movimenti nella società. Per quanto non sempre all’altezza del bisogno e agli inizi perfino incerta, la collocazione all’opposizione del governo Monti è un dato acquisito e le esperienze vincenti, con o senza primarie, o quelle in corso, come in Sicilia, in importanti città e luoghi del nostro paese danno il senso di una intelaiatura che si sta costruendo tra politica e società. Nei movimenti sociali è avanzata meglio e di più che tra i ceti politici una riflessione programmatica complessiva. Né mi pare che il pericolo di populismo possa essere sopravvalutato al punto da farne una discriminante. Una definizione partecipata e allo stesso tempo qualificata di un programma per un governo alternativo e per la trasformazione della società – cosa diversa da un programma immediatamente di governo o di opposizione – è oggi più alla portata di prima.. Questo era il senso degli stati generali della sinistra da più parte invocati ma non ancora convocati. Bisognerebbe farlo.
Ma queste scusanti possono valere solo fino a un certo punto. Il vero condizionamento è dato dal quadro europeo, il quale nella sostanza è già dato, assai di più che dal quadro politico e istituzionale interno ai singoli paesi. Il tema centrale delle prossime elezioni è come uscire dalla crisi economica e sociale più lunga e più grave nella storia del capitalismo europeo. Come uscirne senza un massacro sociale e avviando le basi per un nuovo modello di sviluppo che non riproponga all’infinito i meccanismi della riproduzione delle crisi, è precisamente il compito e il banco di prova di una moderna sinistra. Lo spartiacque è costituito dalla accettazione o dalla ridiscussione del fiscal compact che ha recentemente modificato in pejus il già pessimo trattato di Maastricht.
Lo dimostra la vicenda francese. Le elezioni in quel paese avevano ristabilito con sufficiente nettezza lo storico clivage fra destra e sinistra. Il programma iniziale di Hollande, incalzato peraltro dal Front de Gauche, conteneva degli obiettivi chiaramente di sinistra, come la tassazione sui ricchi o il complesso delle misure pro occupazione, fra cui la riduzione dell’orario di lavoro. La sua vittoria venne salutata come l’aprirsi di una speranza per la stessa modificazione del quadro delle politiche economiche in Europa. Tutto ciò è stato pregiudicato dalla accettazione pronta ed esplicita di Hollande delle nuove regole del fiscal compact. Le conseguenze sul piano interno non hanno tardato a farsi sentire, nei sondaggi Hollande perde cinque punti in un mese. Le riforme annunciate non partono. L’aliquota al 75% del prelievo fiscale sopra il milione di euro viene derubricata a misura straordinaria e transitoria. La corsa dei prezzi non viene fermata. Le prospettive occupazionali sono ulteriormente peggiorate, senza che si veda nessun concreto provvedimento. Hollande si allinea alla Merkel nel prendere a schiaffi il premier greco giunto a scongiurare un allungamento dei tempi per il rientro dal debito.
Non è qui importante discutere se Hollande faceva promesse da marinaio o agisce ora in uno stato di costrizione. Quello che è evidente è che l’accettazione del fiscal compact ha cassato ogni velleità riformista sul nascere. Torniamo in Italia e non è difficile convincersi che ciò che determinerà la natura del prossimo governo, al di là della composizione delle forze che lo sosterranno, è l’accettazione o meno del fiscal compact, recentemente votato nel Parlamento italiano e rafforzato dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, che comporta per venti anni una riduzione del 3% del bilancio ogni anno. E’ una gabbia che costringe qualsiasi governo a perpetuare una politica di rigore per un intero ventennio, inibendo alla radice ogni prospettiva di trasformazione economica, produttiva e sociale, comprimendo la democrazia a ogni livello – articolo 18 e annessi lo dimostrano – della vita civile e sociale.
Non è Casini a chiederlo. E’ la stessa carta di intenti del Pd che considera inviolabili gli accordi internazionali già presi. Tale condizione va rimossa e rovesciata nella richiesta di un impegno alla ridiscussione complessiva dei trattati. Altrimenti il centrosinistra non si può fare perché in una simile coalizione la sinistra non avrebbe voce su un punto essenziale e sarebbe costretta a tacere anche dopo, essendo vincolata dall’esito delle primarie.
Da questo punto di vista è inessenziale se l’apertura a Casini avviene prima o dopo l’esito elettorale. Ma certo non può essere venduta come una vittoria il fatto che essa sia prevista solo per il dopo.Nella sua recente intervista a Repubblica Bersani dichiara la propria intenzione di costruire “un’alleanza di legislatura” chiusa a sinistra e invece aperta “alle forze liberali e moderate”. Il confronto per la definizione del programma parte già con il condizionamento di dovere tenere aperta una simile prospettiva. Le manovre sulla riforma elettorale seguono di conseguenza, con il rilevante vincolo di dovere tenere conto delle strategie di Berlusconi. Il combinato disposto può spingere ad una situazione in cui torna a scattare il ricatto del voto utile e l’esito può diventare quello della formazione di una lista comune attorno al Pd. Ma tale prospettiva sarebbe la certificazione del fallimento del progetto della ricostruzione di una forza di sinistra quale soggetto politicamente autonomo.
Quest’ultimo è il disegno fondativo di Sel, che non può essere vincolato alla partecipazione a una coalizione elettorale. E’ logico quindi che sia soprattutto questa formazione politica a trovarsi in uno stato di tensione di fronte alle scelte imminenti. E’ bene che il dibattito si apra senza infingimenti e che altre ipotesi di collocazione politica e elettorale non siano porte giudizialmente escluse. Certamente pesa lo spauracchio dell’esito meschino della Sinistra Arcobaleno. Ma allora la sinistra radicale usciva con le ossa rotte da un’esperienza di governo rivelatasi fallimentare (anche perché l’esito elettorale del 2006 fu un sostanziale pareggio) e con una accresciuta difficoltà di rapporto con i movimenti nella società. Per quanto non sempre all’altezza del bisogno e agli inizi perfino incerta, la collocazione all’opposizione del governo Monti è un dato acquisito e le esperienze vincenti, con o senza primarie, o quelle in corso, come in Sicilia, in importanti città e luoghi del nostro paese danno il senso di una intelaiatura che si sta costruendo tra politica e società. Nei movimenti sociali è avanzata meglio e di più che tra i ceti politici una riflessione programmatica complessiva. Né mi pare che il pericolo di populismo possa essere sopravvalutato al punto da farne una discriminante. Una definizione partecipata e allo stesso tempo qualificata di un programma per un governo alternativo e per la trasformazione della società – cosa diversa da un programma immediatamente di governo o di opposizione – è oggi più alla portata di prima.. Questo era il senso degli stati generali della sinistra da più parte invocati ma non ancora convocati. Bisognerebbe farlo.
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