Eugenio Scalfari che attacca Gustavo Zagrebelsky per quel che ha scritto
sul suo stesso giornale è un segno della serietà del terremoto
istituzionale innescato dalla sospensione delle “democrazia
rappresentativa” in questo e altri paesi dell'Unione Europea.
La vicenda, a livello superficiale, si snoda intorno alla decisione di Giorgio Napolitano di ricorrere al giudizio della Corte Costituzionale per verificare la legittimità dell'intercettazione delle telefonate avute con Nicola Mancino, ex presidente del Csm e soprattutto ex ministro dell'interno ai tempi della “trattativa tra Stato e mafia”.
La vicenda ha messo in evidenza una spaccatura insanabile tra quello che fino ad un anno fa era chiamato il “partito dei giudici” (grosso modo quella parte di centrosinistra che aveva fatto della “difesa della legalità” l'unico punto di contrasto con la vandea berlusconian-leghista). Ma soprattutto uno scontro mortale tra “la politica” e “la magistratura”.
Diciamo che è uno “scontro mortale” perché non riguarda aspetti contingenti, politico-tattici, intangibilità o inquisibilità di alcune figure di potre, ma l'equilibrio istituzionale tra poteri del futuro “Stato europeo” tuttora in gestazione.
Solo gli antiberlusconiani fuori tempo massimo possono ancora vedere nel Monti che promette di intervenire per regolare le intercettazioni una qualche somiglianza con il il Cavaliere. L'ossessione dell'uomo di Arcore per la giustizia era assolutamente individuale. E proprio questa visione ristretta, assolutamente impolitica, gli ha impedito a suo tempo di rastrellare il “consenso di classe” (nell'elite italiana) sufficiente a trovare soluzioni istituzionali accettabili per silenziare il “terzo potere” in una democrazia parlamentare.
Lo scontro attuale è di tutt'altra natura. L'unica somiglianza sta nel bersaglio: la magistrattura inquirente per fatti di mafia. La limitatezza del bersaglio non deve trarre in inganno: scomparse infatti le grandi inchieste per corruzione, soltanto questi magistrati “corrono il rischio” di incontrare lungo il proprio cammino investigativo alcune figure istituzionali. Nessuno, insomma, propone di limitare il potere di intercettazione delle comunicazioni di normali cittadini o oppositori sindacal-politici.
È noto che nello stato liberale a democrazia rappresentativa, la partita si gioca intorno alla regolazione di tre poteri distinti: il legislativo, in cui si concentra la sovranità popolare delegata al Parlamento, da cui origina la legge positiva, quella in vigore; l'esecutivo, il governo operativo che la maggioranza parlamentare esprime; e il giudiziario, delegato al controllo di legalità su ogni cittadino, imparzialmente (“la legge è uguale per tutti”).
Sappiamo ovviamente che la realtà delle democrazie occidentali è spesso una parodia di questo schema ideale, forma ideologica spesso priva di contenuto corrispondente.
Ma quello che è diventato evidente con l'apparizione dei governi “commissariati dalla troika” è che quello schema non può più essere difeso, nemmeno formalmente.
Abbiamo ormai da anni un Parlamento di “nominati”, la cui “rappresentatività” era già molto ammaccata. L'irruzione del governo Monti ha dato la spallata definitiva al rapporto tra Parlamento ed esecutivo. Le parole dal sen fuggite proprio a Monti, in un'intervista allo Spiegel, teorizzano un altro schema di configurazione istituzionale: “ogni governo ha anche il dovere di educare il parlamento”, “se i governi si facessero vincolare completamente dalle decisioni dei propri parlamenti senza mantenere un margine di manovra...”.
Del resto, se “il programma di governo” viene fissato altrove (Bce, Ue, Fmi), il Parlamento non è più un potere legislativo che possa decretare sulle questioni centrali della politica (quelle economiche, che toccano direttamente la creazione e redistribuzione sociale della ricchezza). E quindi come può il “terzo potere” pretendere ancora di esercitare un “controllo di legalità” nazionale su una “legge” che ha ormai una fonte e origine esterna?
Nello Stato “neo-europeo” disegnato dalla borghesia multinazionale la divisione dei poteri deve essere superata definitivamente. La legge vale solo per chi deve subirla – cittadini ordinari, nuovamente ridotti a sudditi senza potere di scelta - non per l'elite che la decreta (in senso “tecnico”: il governo Monti ha una media di 3,6 decreti al mese).
È un'innovazione istituzionale che cambia la genetica dello Stato, disegnando un neo-assolutismo “attento ai mercati” sottratto ad ogni seria verifica con procedure democratiche, dalle libere elezioni al potere inquirente.
Che dunque Scalfari iscriva Zagrebelski tra quanti “vogliono attaccare il Capo dello Stato” è solo una certificazione del fatto che c'è già ora un “nuovo Stato”, che va rastrellando fedeli e discriminando i “resistenti” legati alla “vecchia” democrazia rappresentativa.
È ora di rendersene conto, sia nella pratica quotidiana che nell'analisi politica di lungo periodo.
La vicenda, a livello superficiale, si snoda intorno alla decisione di Giorgio Napolitano di ricorrere al giudizio della Corte Costituzionale per verificare la legittimità dell'intercettazione delle telefonate avute con Nicola Mancino, ex presidente del Csm e soprattutto ex ministro dell'interno ai tempi della “trattativa tra Stato e mafia”.
La vicenda ha messo in evidenza una spaccatura insanabile tra quello che fino ad un anno fa era chiamato il “partito dei giudici” (grosso modo quella parte di centrosinistra che aveva fatto della “difesa della legalità” l'unico punto di contrasto con la vandea berlusconian-leghista). Ma soprattutto uno scontro mortale tra “la politica” e “la magistratura”.
Diciamo che è uno “scontro mortale” perché non riguarda aspetti contingenti, politico-tattici, intangibilità o inquisibilità di alcune figure di potre, ma l'equilibrio istituzionale tra poteri del futuro “Stato europeo” tuttora in gestazione.
Solo gli antiberlusconiani fuori tempo massimo possono ancora vedere nel Monti che promette di intervenire per regolare le intercettazioni una qualche somiglianza con il il Cavaliere. L'ossessione dell'uomo di Arcore per la giustizia era assolutamente individuale. E proprio questa visione ristretta, assolutamente impolitica, gli ha impedito a suo tempo di rastrellare il “consenso di classe” (nell'elite italiana) sufficiente a trovare soluzioni istituzionali accettabili per silenziare il “terzo potere” in una democrazia parlamentare.
Lo scontro attuale è di tutt'altra natura. L'unica somiglianza sta nel bersaglio: la magistrattura inquirente per fatti di mafia. La limitatezza del bersaglio non deve trarre in inganno: scomparse infatti le grandi inchieste per corruzione, soltanto questi magistrati “corrono il rischio” di incontrare lungo il proprio cammino investigativo alcune figure istituzionali. Nessuno, insomma, propone di limitare il potere di intercettazione delle comunicazioni di normali cittadini o oppositori sindacal-politici.
È noto che nello stato liberale a democrazia rappresentativa, la partita si gioca intorno alla regolazione di tre poteri distinti: il legislativo, in cui si concentra la sovranità popolare delegata al Parlamento, da cui origina la legge positiva, quella in vigore; l'esecutivo, il governo operativo che la maggioranza parlamentare esprime; e il giudiziario, delegato al controllo di legalità su ogni cittadino, imparzialmente (“la legge è uguale per tutti”).
Sappiamo ovviamente che la realtà delle democrazie occidentali è spesso una parodia di questo schema ideale, forma ideologica spesso priva di contenuto corrispondente.
Ma quello che è diventato evidente con l'apparizione dei governi “commissariati dalla troika” è che quello schema non può più essere difeso, nemmeno formalmente.
Abbiamo ormai da anni un Parlamento di “nominati”, la cui “rappresentatività” era già molto ammaccata. L'irruzione del governo Monti ha dato la spallata definitiva al rapporto tra Parlamento ed esecutivo. Le parole dal sen fuggite proprio a Monti, in un'intervista allo Spiegel, teorizzano un altro schema di configurazione istituzionale: “ogni governo ha anche il dovere di educare il parlamento”, “se i governi si facessero vincolare completamente dalle decisioni dei propri parlamenti senza mantenere un margine di manovra...”.
Del resto, se “il programma di governo” viene fissato altrove (Bce, Ue, Fmi), il Parlamento non è più un potere legislativo che possa decretare sulle questioni centrali della politica (quelle economiche, che toccano direttamente la creazione e redistribuzione sociale della ricchezza). E quindi come può il “terzo potere” pretendere ancora di esercitare un “controllo di legalità” nazionale su una “legge” che ha ormai una fonte e origine esterna?
Nello Stato “neo-europeo” disegnato dalla borghesia multinazionale la divisione dei poteri deve essere superata definitivamente. La legge vale solo per chi deve subirla – cittadini ordinari, nuovamente ridotti a sudditi senza potere di scelta - non per l'elite che la decreta (in senso “tecnico”: il governo Monti ha una media di 3,6 decreti al mese).
È un'innovazione istituzionale che cambia la genetica dello Stato, disegnando un neo-assolutismo “attento ai mercati” sottratto ad ogni seria verifica con procedure democratiche, dalle libere elezioni al potere inquirente.
Che dunque Scalfari iscriva Zagrebelski tra quanti “vogliono attaccare il Capo dello Stato” è solo una certificazione del fatto che c'è già ora un “nuovo Stato”, che va rastrellando fedeli e discriminando i “resistenti” legati alla “vecchia” democrazia rappresentativa.
È ora di rendersene conto, sia nella pratica quotidiana che nell'analisi politica di lungo periodo.
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